giovedì 17 settembre 2015

IL MESSAGGIO DELL’IMPERATRICE. - ROBERTA DE MONTICELLI

Il messaggio dell’imperatrice


“La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”, ha scritto Corrado Alvaro. Non sono d’accordo. Non è la più grande. Ancora più grande fonte di disperazione è il dubbio che nessuna istituzione, nessuna legittima autorità, nessuna giurisdizione custodisca le norme dell’onestà, difendendoci dalle loro violazioni ma soprattutto, all’occorrenza, giudicandole. Distinguendo ciò che è onesto da ciò che non lo è – che sia punibile o no. Che si sia cancellata la grammatica e la logica del parlare onesto, cioè chiaro e distinto, dalla mente di tutte le maestre di scuola. Che non ci siano più affatto giudici, né a Berlino né a Roma. Che niente e nessuno custodisca il patto fondamentale che ci lega gli uni agli altri in una società attraverso l’assunzione dei nostri doveri e dei nostri diritti, il patto fondamentale di cittadinanza. Insomma, la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che l’impero della legge sia crollato da un pezzo, e per questo il messaggio dell’imperatrice non ci è mai arrivato. Questo dubbio sta diventando certezza nell’Italia di oggi.
Forse era questo che intendeva Corrado Alvaro? Ma le parole sono importanti. Vivere onestamente è certamente inutile in moltissimi casi, anzi positivamente svantaggioso per l’onesto. Ma questa non è una buona ragione per rinunciare ad esserlo, dal momento che è ingiusto, cioè lesivo di ciò che è dovuto agli altri. Anzi: la speranza è salva ogni volta che è salva la legge, cioè la sua idealità: l’ideale non è il reale, e ogni violazione della norma, se è riconosciuta come tale, nutre la nostra riserva di idealità, cioè di speranza nella possibilità di una società più giusta. Ma ogni volta che la norma, metro di misura di ciò che è disonesto, si adatta al fare disonesto, un po’ dell’idea di giustizia si cancella dalla nostra coscienza, la nostra riserva di idealità si riduce, e la nostra speranza cala. Se l’autorizzazione a una modica quantità di frode fiscale diventa legge. Se un candidato ineleggibile a norma di legge esercita il potere con il beneplacito dell’autorità designata a far rispettare la legge. Se un decreto legislativo sulla certezza del diritto (!!) consente, purché rientri il capitale, “di mantenere la fedina penale immacolata, anche in presenza di ipotesi di reato comparabili a ricettazione e frode fiscale, con pene intorno ai 10 anni” (“Corriere della Sera”, 29 agosto 2015). Se un Presidente del consiglio irride a un’Istituzione della Repubblica, chiamata a tutelare il patrimonio artistico e paesaggistico, le Sovrintendenze. Se esprime disprezzo nei confronti dei cittadini che esercitano il loro dovere di critici nei confronti di chiunque sostituisca il proprio arbitrio al governo della legge, perché “bloccano il Paese”. In tutti questi casi e innumerevoli altri un pezzo della riserva di idealità su cui si regge il rule of law è consumato, e una congrua porzione di speranza, erosa.
Ebbene: con le riforme costituzionali in corso un enorme, ulteriore pezzo di idealità viene sacrificato a vantaggio della realtà, o della Realpolitik, o del “non ci faremo fermare da nessuno”, comunque vogliate chiamare l’espressione dell’arbitrio dell’uomo, anzi dei molti piccoli uomini interessati ai loro particolari vantaggi, invece che al bene pubblico. Attraverso una riforma del Senato che riduce a un “camerino” di interessi locali quella che la Costituzione italiana pensava come la Camera Alta (il suo Presidente è attualmente colui che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica “in ogni caso in cui egli non possa adempierle”, Art. 86). Ma che, in combinazione con la legge elettorale approvata, riduce in modo drastico tanto la rappresentatività del Parlamento quanto la sua autonomia nei confronti dell’esecutivo, ed erode ulteriormente il fragile fondamento istituzionale della democrazia – la divisione dei poteri, il check and balance. Perché attraverso i meccanismi di elezione del Presidente della Repubblica e la riduzione di indipendenza della Corte Costituzionale rimette nelle mani dei piccoli arbitri dei piccoli uomini di fatto al potere la quasi totalità della decisione su ciò che “deve” essere. No, non ripeteremo con parole vaghe le obiezioni fulminanti e inascoltate che i migliori rappresentanti del Diritto e della sua scienza hanno rivolto al testo della riforma governativa, dove la forma è sostanza, e la forma, ahimé, è “sgrammaticata”. Ci limiteremo a concludere questa riflessione, che speriamo condivisibile dal maggior numero di cittadini.
E’ la giustizia, non l’utilità la misura della nostra disperazione. Meglio di Corrado Alvaro lo dice Kant: quando l’idea di giustizia ha finito di scomparire dalle nostre coscienze, non vale più nulla la vita di nessun uomo, su questa terra. Come appare, a chi la vive, una vita senza valore?
Guardatevi intorno o dentro. È uno stato depressivo, uno stato di assenza di speranza che, più che disperazione, si potrebbe chiamare indifferenza o apatia. Viene dall’erosione o dalla distruzione di alcuni dei più importanti beni della vita associata, come ad esempio la fiducia nelle istituzioni, la stima e il rispetto per chi esercita funzioni pubbliche, la certezza del diritto, il diffuso senso della legalità, l’esperienza dell’esistenza di un nesso fra competenze e funzioni, capacità e promozioni, crimine e pena. E, bene che li riassume tutti, il rispetto per l’Imperatrice, l’Idea o lo Spirito delle leggi – l’idealità di una Costituzione. Oggi chiamano tutti questi aspetti fiduciari della vita associata “capitale sociale”: ma si tratta delle condizioni perché sia riconosciuto il valore della vita di ognuno. La nostra Costituzione lo chiama “dignità sociale” (Art. 3).
Ma quando questo riconoscimento manca perché i legami fiduciari si spezzano, logorati dall’abuso di illegalità impunita, corruzione e menzogna, la “fede pubblica” – come la chiamava Leopardi – cala a zero, e con essa la partecipazione non solo alla vita civile e politica, ma infine alla cooperazione materiale e morale. E’ forse allora che le nazioni sono pronte a fallire, le civiltà a crollare. Perché una democrazia non è soltanto una forma di governo politico, è una civiltà fondata in ragione – la ragione pratica – e non in religione. La sfiducia nella ragione pratica è la fine della democrazia.

L’UMILIAZIONE DEL PARLAMENTO. - GUSTAVO ZAGREBELSKY

L’umiliazione del Parlamento

(Il Presidente emerito della Corte costituzionale e Presidente onorario di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky rivolge un appello ai legislatori alla vigilia dell’ultima lettura della riforma costituzionale promossa dal governo. Sostengono l’appello il Presidente Alberto Vannucci, la ex Presidente Sandra Bonsanti  tutto il Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia.)
Il funzionamento della democrazia è cosa difficile, stretto tra l’inconcludenza e la forza. Chi crede che si tratti di una battaglia che si combatte una volta ogni cinque anni in occasione delle elezioni politiche e che, nell’intervallo, tutto ti è concesso perché sei il “Vincitore”, si sbaglia di grosso ed è destinato a essere travolto, prima o poi, dal suo orgoglio, o dalla sua ingenuità, mal posti.
La prima vittima dell’illusione trionfalistica è il Parlamento. Se pensiamo che si tratti soltanto di garantire l’azione di chi “ha vinto le elezioni”, il Parlamento deve essere il supporto ubbidiente di costui o di costoro: deve essere un organo esecutore della volontà del governo. Altrimenti, è non solo inutile, ma anche controproducente.
Le riforme in campo, infatti, sono tutte orientate all’umiliazione del Parlamento, nella sua prima funzione, la funzione rappresentativa. Che cosa significano le leggi elettorali, che prevedono la scelta dei candidati attraverso le “liste bloccate” stilate direttamente dai capi dei partiti o attraverso la farsa delle cosiddette “primarie”, se non l’umiliazione di quella funzione nazionale: trionfo dello spirito gregario o del mercato dei voti. Il prodotto degradato, se non avariato, è davanti agli occhi di tutti. Così, mentre dalle istituzioni ci si aspetterebbe ch’esse tirassero fuori da chi le occupa il meglio di loro stessi, o almeno non il peggio, di fatto avviene il contrario. Queste istituzioni inducono alla piaggeria, alla sottomissione, all’assenza di idee, alla disponibilità nei confronti dei potenti, alla vigliaccheria interessata o alla propria carriera o all’autorizzazione ad avere mano libera nei propri affari sul territorio di riferimento. Per essere eletti, queste sono le doti funzionali al partito nel quale ti arruoli. Non devi pensare di poter “fare politica”. Non è più il tempo: il tempo è esecutivo!
Una prova evidente, e umiliante, dell’inanità parlamentare è la vicenda che ha agitato la vita politica negli ultimi due anni: la degradazione del Senato in Camera secondaria che dovrebbe avvenire col consenso dei Senatori. Si dice loro: siete un costo, cui non corrisponde nessun beneficio; siete un appesantimento dei processi decisionali, cui corrisponde non il miglioramento, ma il peggioramento della qualità della legislazione. Sì, risponde il Senato: è così. Finora siamo stati dei parassiti inutili e dannosi e siamo grati a chi ce ne ha resi consapevoli! Sopprimeteci!
Vediamo più da vicino questo caso da manuale di morte pietosa o suicidio assistito nella vita costituzionale.
A un osservatore non superficiale che non si fermi alla retorica esecutiva e “governabilitativa”, cioè ai costi (“Senato gratis”, è stato detto) e alla velocità (una deliberazione per ogni legge, invece di due), l’esistenza di una “seconda Camera” risulta bene fondata su “ragioni conservative”. Non conservative rispetto al passato, come fu al tempo delle Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze anarcoidi e dissipatrici della Camera elettiva, propensa a causa della sua stessa natura a sperperare denaro e tradizioni per accattivarsi gli elettori. Allora ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, di fronte alla catastrofe della società dello spreco, si tratterebbe dell’opposto, cioè di ragioni conservative di risorse e opportunità per il futuro, a garanzia delle generazioni a venire.
Il Senato come concepito nella riforma moltiplica la dissipazione. Se ne vuole fare un’incongrua proiezione amministrativistica di secondo grado di enti locali, a loro volta affamati di risorse pubbliche. A questa prospettiva “amministrativistica” se ne sarebbe potuta opporre una “costituzionalistica”. Nei Senati storici, le ragioni conservative corrispondevano alla nomina regia e alla durata vitalizia della carica: due soluzioni, oggi, evidentemente improponibili, ma facilmente sostituibili con l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola tassativa della non rieleggibilità, come garanzia d’indipendenza da interessi particolari contingenti. A ciò si sarebbero potuti accompagnare requisiti d’esperienzacompetenza e moralità particolarmente rigorosi, contenuti in regole di incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti. Fantasie. I riformatori costituzionali pensano ad altro: a eliminare un contrappeso politico, ad accelerare i tempi. Non riuscendo a eliminare, puramente e semplicemente, un organo, che così come è si ritiene inutile, anzi dannoso, si sono persi in un marchingegno la cui assurda complicazione strutturale – le modalità di estrazione dei nuovi “senatori” dalle assemblee locali – e procedimentale – i rapporti con l’altra Camera – verrà alla luce quando se ne dovesse sperimentare il funzionamento.

FACCIAMO SENTIRE LA NOSTRA VOCE. - Lorenza Carlassare

FACCIAMO SENTIRE LA NOSTRA VOCE

E’ il momento di far sentire di nuovo, forte, la nostra voce. Il tempo, poi, non c’è più.
Difficile contare sui media : salvo poche eccezioni, l’adesione opaca al governo e ad ogni sua iniziativa è costante. Un diffuso senso di impotenza induce a vivere il presente così come arriva, accettandolo. In questo clima, i timori espressi da molti per democrazia e costituzionalismo – vanto delle ‘democrazie occidentali’ fino alla caduta del muro di Berlino – sono ormai visti con fastidio estremo, disturbi molesti sul cammino altrimenti felice del Presidente del Consiglio e dei suoi fedeli .
Per esorcizzare i gravissimi problemi aperti dalle molteplici riforme che toccano tutti i settori della nostra vita, per tacitare ogni richiesta di riflessione e confronto e soprattutto svilire chi osa parlarne, vengono acriticamente ripetute frasi banali : “turbolenze della minoranza” sono definite dal TG 3 le sofferte obiezioni dei cittadini e le richieste di dialogo in Parlamento mentre Italia Oggi considera “ la governabilità del paese, mai come oggi messa sotto scacco da combattive minoranze reazionarie”. Ecco : c’è sempre la ‘reazione’ in agguato, e ora siamo noi!
Sono esempi recenti, ma non certo i soli. Eppure i contenuti delle leggi di riforma ( costituzionali e non ) e il modo stesso della loro approvazione, che esclude ogni effettiva apertura, urlano il loro contrasto con i sistemi della democrazia.
Dopo che al meeting di CL “Matteo Renzi ha confessato pubblicamente di essere la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi” , Paolo Flores d’Arcais invita a riflettere sul perché “le straordinarie energie che l’antiberlusconismo aveva saputo suscitare nella società civile non abbiano trovato adeguata espressione politica”. Un interrogativo che inquieta visto che non si tratta solo di parole: “dalla giustizia all’informazione, dal lavoro alla riforma istituzionale, non c’è un solo elemento della lobotomizzazione della democrazia tentata da Berlusconi che Renzi non stia realizzando”. E, aggiungerei, la scuola.
Cosa sta succedendo?
Ripetere nel dettaglio cose già troppo ripetute sembra ormai inutile . Utile é, piuttosto, sintetizzare con le parole di Hans Kelsen, un grande giurista del secolo scorso, ciò cui dobbiamo con fermezza opporci: nulla “giustifica la sostituzione della definizione di democrazia come governo del popolo con una definizione dalla quale il popolo, come potere attivo, sia eliminato o sia mantenuto soltanto come fattore passivo in quanto è richiesta da parte sua l’approvazione di un leader, comunque espressa”. E’ proprio questo, nella sostanza, il senso del processo in corso. Ridurre il popolo senza voce o lasciargli la voce solo per acclamare.