Baracche e rimessaggio nell’area nigeriana. A destra, due giovani nigeriane // Emma Barbaro
C’è una Puglia che non troverete nelle guide turistiche e nei percorsi mainstream. È la Puglia dei ghetti e dei caporali. La Puglia in cui lo Stato e l’anti-Stato sono un’unica: una realtà inscindibile.
Il 2 giugno scorso, festa della Repubblica, siamo rientrati nel gran ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. Mentre altrove – sulle pubbliche piazze – si celebrava lo Stato che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», che attribuisce «pari dignità sociale» e uguaglianza davanti alla legge, negli antri sperduti della nostra penisola si consumano quotidianamente crimini contro una porzione d’umanità che, ci piaccia o no, continua a esistere. Quella che stiamo per raccontarvi è la rapida evoluzione di ciò che gli esperti, quelli senza reticenze, definiscono «la più grande baraccopoli d’Europa.» Una vergogna a cielo aperto i cui numeri, oggi, sfiorano le 5 mila unità.
SODALIZI MAFIOSI.
Cumuli di rifiuti e plastiche dati alle fiamme. Il puzzo che sale dalla ex pista del ghetto di Borgo Mezzanone è insopportabile. Eppure, come abbiamo previsto questo inverno, i numeri dei reietti che vivono nel ghetto sono destinati ad aumentare. Così come i nuclei abitativi. Ma chi fornisce a queste persone la materia prima per la costruzione delle baracche in mattoni e cemento? Chi alimenta lo spaccio di droga e la prostituzione, maschile e femminile, all’interno e all’esterno del ghetto? Chi contribuisce al giro d’affari criminale che si alimenta sulle spalle dei paria dell’umanità?
Le risposte sono inequivocabili.
Cumuli di rifiuti e plastiche dati alle fiamme. Il puzzo che sale dalla ex pista del ghetto di Borgo Mezzanone è insopportabile. Eppure, come abbiamo previsto questo inverno, i numeri dei reietti che vivono nel ghetto sono destinati ad aumentare. Così come i nuclei abitativi. Ma chi fornisce a queste persone la materia prima per la costruzione delle baracche in mattoni e cemento? Chi alimenta lo spaccio di droga e la prostituzione, maschile e femminile, all’interno e all’esterno del ghetto? Chi contribuisce al giro d’affari criminale che si alimenta sulle spalle dei paria dell’umanità?
Le risposte sono inequivocabili.
L’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia – approvata nella seduta dell’8 febbraio scorso – parla specificatamente di un sistema criminale che, a Borgo Mezzanone, si autoalimenta attraverso il sodalizio tra mafia nigeriana e ceppi mafiosi locali.
Realizzata col contributo dello scrittore ed etnografo Leonardo Palmisano – tra i primi ad analizzare e monitorare costantemente il fenomeno – la relazione censisce uno stato di fatto. Se la Sacra Corona Unita sembra vivere un momento di declino – la cui forza intimidatoria, tuttavia, continua a essere inversamente proporzionale alla necessità di esibirla – a stringere alleanze con la criminalità made in Nigeria ci pensa la mafia del Gargano. Una volta siglata la pax (provvisoria) tra i gruppi «dei montanari» – area garganica – e quelli «della pianura» – area Capitanata – l’interesse strategico delle cosche sembra essersi incanalato proprio verso l’ex pista di Borgo Mezzanone. Lì dove il traffico d’esseri umani e di stupefacenti sembra essere divenuto una realtà concreta attraverso il placet dei gruppi criminali stranieri.
Il «quarto potere» – così come viene definito dalla già citata relazione – si nutre di uomini e donne giovanissimi, importati direttamente dall’Africa come un tempo si faceva con le materie prime, allo scopo di garantire al sistema un flusso vitale minimo. Le più recenti relazioni della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) e della Direzione distrettuale antimafia (Dda) arricchiscono di particolari quella che ormai si è trasformata in una realtà tangibile. Un segnale incontrovertibile del fatto che le istituzioni sanno, monitorano, controllano. Ma perché, allora, non re-agiscono?
IL CARA.
A dispetto di quel che si può ipotizzare, il sistema criminale sembra innescarsi direttamente dal Cara che sorge a ridosso della baraccopoli. Ebbene sì. Le reti metalliche prontamente squarciate in prossimità dell’area nigeriana, assicurano ai bordelli del ghetto un flusso di “materiale umano” da gestire e smistare continuamente. Il numero delle baracche realizzate per assicurarsi il controllo della prostituzione, maschile e femminile, è salito a sei. Tre in più di quelle che avevamo censito non più tardi di qualche mese fa. La più grande, quella che gli abitanti della baraccopoli definiscono «la discoteca», è il luogo prescelto per i festini a cui partecipano, spesso, i clienti abituali che costellano la provincia di Foggia. Vi si recano addirittura giovanissimi neolaureati per festeggiare “degnamente” la conclusione di percorsi di studio che avrebbero dovuto insegnare loro a vivere, prima ancora che ad assimilare concetti. Ma la pochezza morale, la bassezza delle intenzioni, sembra non avere limiti a Borgo Mezzanone. Il tutto, chiaramente, si svolge sotto lo sguardo vigile degli uomini dello Stato. Esercito, carabinieri e polizia, che non osano spingersi al di là della barriera metallica, osservano flusso e deflusso continuo di persone all’interno dei bordelli. Osservano anche me, mentre cerco di raccogliere elementi utili per tentare di dipanare la matassa. In silenzio, come si conviene.
Più in là, nell’area centrale della baraccopoli, sorge invece la più grande chiesa pentecostale del ghetto. È quello il luogo in cui i nigeriani esercitano una vera e propria azione coercitiva e morale sui ragazzi, innescando le dinamiche dello sfruttamento. Mentre sono lì il prete, appena arrivato sulla pista con un’Audi A5, somministra sermoni ai numerosissimi adepti seduti ad ascoltarlo. A giudicare dagli occhi vacui e dalle movenze di molti di loro, sembrerebbe che la chiesa sia uno dei luoghi cardine in cui avviene lo smercio e la somministrazione di droghe. Che divengono, così, lo strumento ideale per tenere imbrigliati i ragazzi nelle maglie di uno sfruttamento che non conosce distinzioni di sesso, né d’età.
A dispetto di quel che si può ipotizzare, il sistema criminale sembra innescarsi direttamente dal Cara che sorge a ridosso della baraccopoli. Ebbene sì. Le reti metalliche prontamente squarciate in prossimità dell’area nigeriana, assicurano ai bordelli del ghetto un flusso di “materiale umano” da gestire e smistare continuamente. Il numero delle baracche realizzate per assicurarsi il controllo della prostituzione, maschile e femminile, è salito a sei. Tre in più di quelle che avevamo censito non più tardi di qualche mese fa. La più grande, quella che gli abitanti della baraccopoli definiscono «la discoteca», è il luogo prescelto per i festini a cui partecipano, spesso, i clienti abituali che costellano la provincia di Foggia. Vi si recano addirittura giovanissimi neolaureati per festeggiare “degnamente” la conclusione di percorsi di studio che avrebbero dovuto insegnare loro a vivere, prima ancora che ad assimilare concetti. Ma la pochezza morale, la bassezza delle intenzioni, sembra non avere limiti a Borgo Mezzanone. Il tutto, chiaramente, si svolge sotto lo sguardo vigile degli uomini dello Stato. Esercito, carabinieri e polizia, che non osano spingersi al di là della barriera metallica, osservano flusso e deflusso continuo di persone all’interno dei bordelli. Osservano anche me, mentre cerco di raccogliere elementi utili per tentare di dipanare la matassa. In silenzio, come si conviene.
Più in là, nell’area centrale della baraccopoli, sorge invece la più grande chiesa pentecostale del ghetto. È quello il luogo in cui i nigeriani esercitano una vera e propria azione coercitiva e morale sui ragazzi, innescando le dinamiche dello sfruttamento. Mentre sono lì il prete, appena arrivato sulla pista con un’Audi A5, somministra sermoni ai numerosissimi adepti seduti ad ascoltarlo. A giudicare dagli occhi vacui e dalle movenze di molti di loro, sembrerebbe che la chiesa sia uno dei luoghi cardine in cui avviene lo smercio e la somministrazione di droghe. Che divengono, così, lo strumento ideale per tenere imbrigliati i ragazzi nelle maglie di uno sfruttamento che non conosce distinzioni di sesso, né d’età.
“CAVALLO BIANCO”
Al ghetto la chiamano “cavallo bianco”. È una giovane donna, d’età indefinita, che si aggira ubriaca tra le baracche alla ricerca di “protezione”. Cavallo bianco è una zingara romena. Il colore del suo incarnato, dei suoi occhi, la rendono in questo contesto una merce tanto rara quanto pregiata.
«Sono più simile a te, ecco perché tutti questi negri mi vogliono. Così io posso guadagnare un poco di più, senza problemi.»
Sono queste le prime parole che pronuncia quando mi accompagna nella sua lurida stamberga, dove il nuovo protettore riposa indisturbato. Non so perché sceglie di raccontarmi la sua storia. Forse è troppo ubriaca persino per rendersi conto di infrangere la sacra regola del silenzio che vige nel ghetto.
«Cosa faccio per vivere? Ma è semplice. Faccio la puttana. Sono una puttana da quando avevo dodici anni. Non posso lavorare in campagna perché ho ernia sulla pancia, sono già stata operata cinque volte», mi dice scoprendosi il ventre. Osservo bene e scorgo una lunghissima cicatrice che dall’altezza dell’ombelico si dipana verticalmente, a forma di serpente, fino al basso ventre. Ne noto un’altra, più marcata e orizzontale, che quasi si congiunge alla prima.
«Come te la sei fatta questa?», le chiedo incuriosita.
«Questa ho fatto qualche anno fa, per mio bambino. Sai, io avevo un bambino piccolo. Lo avevo chiamato Antonio, come un poliziotto amico mio.»
«Dov’è adesso il tuo bambino?» insisto.
«Mio bambino è…mio bambino è…io ho dovuto vendere mio bambino. Mi hanno portato via Antonio quando stavo in altro ghetto, quello dei bulgari.» E piange, disperata. È in questo preciso momento che cade la maschera. Abbandona la sua risata sgangherata, le grida sguaiate che utilizza come richiamo per i suoi clienti abituali e torna a essere, semplicemente, un essere umano. Quell’umanità violata commuove anche me. Le accarezzo il volto costellato di lentiggini chiare mentre lei alza lo sguardo e mi sussurra dolcemente: «Come sei bella. Mai nessuno ha toccato me così.»
Al ghetto la chiamano “cavallo bianco”. È una giovane donna, d’età indefinita, che si aggira ubriaca tra le baracche alla ricerca di “protezione”. Cavallo bianco è una zingara romena. Il colore del suo incarnato, dei suoi occhi, la rendono in questo contesto una merce tanto rara quanto pregiata.
«Sono più simile a te, ecco perché tutti questi negri mi vogliono. Così io posso guadagnare un poco di più, senza problemi.»
Sono queste le prime parole che pronuncia quando mi accompagna nella sua lurida stamberga, dove il nuovo protettore riposa indisturbato. Non so perché sceglie di raccontarmi la sua storia. Forse è troppo ubriaca persino per rendersi conto di infrangere la sacra regola del silenzio che vige nel ghetto.
«Cosa faccio per vivere? Ma è semplice. Faccio la puttana. Sono una puttana da quando avevo dodici anni. Non posso lavorare in campagna perché ho ernia sulla pancia, sono già stata operata cinque volte», mi dice scoprendosi il ventre. Osservo bene e scorgo una lunghissima cicatrice che dall’altezza dell’ombelico si dipana verticalmente, a forma di serpente, fino al basso ventre. Ne noto un’altra, più marcata e orizzontale, che quasi si congiunge alla prima.
«Come te la sei fatta questa?», le chiedo incuriosita.
«Questa ho fatto qualche anno fa, per mio bambino. Sai, io avevo un bambino piccolo. Lo avevo chiamato Antonio, come un poliziotto amico mio.»
«Dov’è adesso il tuo bambino?» insisto.
«Mio bambino è…mio bambino è…io ho dovuto vendere mio bambino. Mi hanno portato via Antonio quando stavo in altro ghetto, quello dei bulgari.» E piange, disperata. È in questo preciso momento che cade la maschera. Abbandona la sua risata sgangherata, le grida sguaiate che utilizza come richiamo per i suoi clienti abituali e torna a essere, semplicemente, un essere umano. Quell’umanità violata commuove anche me. Le accarezzo il volto costellato di lentiggini chiare mentre lei alza lo sguardo e mi sussurra dolcemente: «Come sei bella. Mai nessuno ha toccato me così.»
Mi vergogno. Mi vergogno di essere una donna che ha avuto la fortuna di nascere al di là della barriera. Mentre lei, rea di una colpa che non smetterà mai di espiare, è stata violentata dalla vita prima ancora che dal cugino di suo padre. L’uomo che, per la prima volta, le ha dato un mestiere.
Cavallo bianco ha già cambiato diversi protettori all’interno del ghetto. Il primo, un nigeriano, viene definito come «un grandissimo stronzo. Quello mi faceva fare ficki ficki con tutti, ma poi non mi dava i soldi. E allora vaffanculo, ho detto.» Poi è passata sotto l’ala protettiva di un senegalese che le consentiva di andare con chi più le piacesse allo scopo di dividere, a fine giornata, i guadagni incassati.
«Ora sto con amore mio», mi confessa. «Questo ogni tanto fa ficki ficki con me, ma ora troppo stanco per ramadan. Così io la sera vado alla discoteca, e faccio cazzi miei. Lui mi aiuta perché abbiamo costruito insieme baracca e dividiamo spese. Ma a me non mi frega un cazzo, se domani trovo uno con più soldi vado con quello.»
La sua baracca le è costata 400 euro. Più le spese, incassate direttamente dai nigeriani, per l’affitto del terreno su cui sorge.
«Ma chi vi dà i mattoni e il cemento per costruire le baracche più belle?» domando ancora.
«Vengono da Foggia. Noi chiamiamo e quelli ci portano mattoni, cemento, segatura…tutto quello che serve insomma. Nigeriani controllano che va tutto bene, poi noi costruiamo.»
Cavallo bianco ha già cambiato diversi protettori all’interno del ghetto. Il primo, un nigeriano, viene definito come «un grandissimo stronzo. Quello mi faceva fare ficki ficki con tutti, ma poi non mi dava i soldi. E allora vaffanculo, ho detto.» Poi è passata sotto l’ala protettiva di un senegalese che le consentiva di andare con chi più le piacesse allo scopo di dividere, a fine giornata, i guadagni incassati.
«Ora sto con amore mio», mi confessa. «Questo ogni tanto fa ficki ficki con me, ma ora troppo stanco per ramadan. Così io la sera vado alla discoteca, e faccio cazzi miei. Lui mi aiuta perché abbiamo costruito insieme baracca e dividiamo spese. Ma a me non mi frega un cazzo, se domani trovo uno con più soldi vado con quello.»
La sua baracca le è costata 400 euro. Più le spese, incassate direttamente dai nigeriani, per l’affitto del terreno su cui sorge.
«Ma chi vi dà i mattoni e il cemento per costruire le baracche più belle?» domando ancora.
«Vengono da Foggia. Noi chiamiamo e quelli ci portano mattoni, cemento, segatura…tutto quello che serve insomma. Nigeriani controllano che va tutto bene, poi noi costruiamo.»
EVERY NIGGERS IS STAR.
Cavallo bianco mi accompagna in uno dei bordelli. Vorrebbe farmi entrare anche nella famosa discoteca, ma capisco subito che sarebbe troppo rischioso. Molti dei nigeriani del ghetto mi seguono, mi tengono sotto stretta sorveglianza. Mi sento quasi “scortata” da occhi invisibili, celati in ogni punto, pronti a reagire se dovessi fare anche la minima mossa sbagliata. Nella baracca, in cui troneggia un grosso televisore Samsung spento, scorgo un nigeriano steso su un divano in pelle. Non male, per chi vive in un ghetto. Poco lontano intravedo un esserino minuscolo, di due anni o poco più, che viene prontamente sottratto al mio sguardo. Tutti mi hanno sempre ripetuto che non ci sono bambini nel ghetto. Ma è difficile nascondere la verità quando, tra i cumuli di rifiuti non ancora dati alle fiamme, ci sono porta-enfant semi distrutti, passeggini sgangherati, giochi per bambini e pannolini. I bambini, ben nascosti, nel ghetto ci sono eccome. Me lo hanno confermato alcuni testimoni, che hanno voluto restare anonimi.
«Forse qualcuno lo portano poi a Foggia, non stanno sempre qua», mi hanno confessato sottovoce. «Ma noi li vediamo sempre. Se ci sono visite da fuori, li nascondono. Però ci sono.»
Sì, ci sono. Così come ci sono prostitute minorenni prontamente fatte passare per ragazze che hanno già raggiunto la maggiore età. Giusto per limitare i danni, se dovessero essere scoperti. Una di loro è seduta ai limiti della baracca, con uno sguardo impaurito. Non parla in italiano, non si muove, non alza lo sguardo. Provo a presentarmi mentre il suo protettore mi osserva con lo sguardo truce.
«Che lavoro fai?», mi chiede in inglese. So di non poter mentire. Se un bianco entra nel ghetto o è un medico, o è un giornalista o è uno che vuol andare a puttane. Il campo delle ipotesi è piuttosto ristretto. Non faccio in tempo a spiegarle che non sono lì per farle domande. I suoi occhi lanciano uno sguardo di terrore all’indirizzo del protettore che scatta in piedi, pronto a qualsiasi cosa. Vengo invitata gentilmente a lasciare la baracca. E lo faccio.
Cavallo bianco mi accompagna in uno dei bordelli. Vorrebbe farmi entrare anche nella famosa discoteca, ma capisco subito che sarebbe troppo rischioso. Molti dei nigeriani del ghetto mi seguono, mi tengono sotto stretta sorveglianza. Mi sento quasi “scortata” da occhi invisibili, celati in ogni punto, pronti a reagire se dovessi fare anche la minima mossa sbagliata. Nella baracca, in cui troneggia un grosso televisore Samsung spento, scorgo un nigeriano steso su un divano in pelle. Non male, per chi vive in un ghetto. Poco lontano intravedo un esserino minuscolo, di due anni o poco più, che viene prontamente sottratto al mio sguardo. Tutti mi hanno sempre ripetuto che non ci sono bambini nel ghetto. Ma è difficile nascondere la verità quando, tra i cumuli di rifiuti non ancora dati alle fiamme, ci sono porta-enfant semi distrutti, passeggini sgangherati, giochi per bambini e pannolini. I bambini, ben nascosti, nel ghetto ci sono eccome. Me lo hanno confermato alcuni testimoni, che hanno voluto restare anonimi.
«Forse qualcuno lo portano poi a Foggia, non stanno sempre qua», mi hanno confessato sottovoce. «Ma noi li vediamo sempre. Se ci sono visite da fuori, li nascondono. Però ci sono.»
Sì, ci sono. Così come ci sono prostitute minorenni prontamente fatte passare per ragazze che hanno già raggiunto la maggiore età. Giusto per limitare i danni, se dovessero essere scoperti. Una di loro è seduta ai limiti della baracca, con uno sguardo impaurito. Non parla in italiano, non si muove, non alza lo sguardo. Provo a presentarmi mentre il suo protettore mi osserva con lo sguardo truce.
«Che lavoro fai?», mi chiede in inglese. So di non poter mentire. Se un bianco entra nel ghetto o è un medico, o è un giornalista o è uno che vuol andare a puttane. Il campo delle ipotesi è piuttosto ristretto. Non faccio in tempo a spiegarle che non sono lì per farle domande. I suoi occhi lanciano uno sguardo di terrore all’indirizzo del protettore che scatta in piedi, pronto a qualsiasi cosa. Vengo invitata gentilmente a lasciare la baracca. E lo faccio.
SOLUZIONI A CONFRONTO.
«Quel posto lì va chiuso. So da tempo che il ghetto di Borgo Mezzanone è un inferno, ma va chiuso, senza soluzione di continuità. Quel che posso fare è chiedere un confronto col ministero dell’Interno per verificare, insieme, le modalità con cui gestire lo sgombero.» Michele Emiliano sembra deciso sul destino del gran ghetto. Intervenuto, tra i consensi generali, a una manifestazione organizzata lo scorso 2 giugno da Casa Sankara Associazione Ghetto Out, a San Severo, non ha remore. Abbraccia i bambini, disciplina le folle, raccoglie larghi consensi. Nel corso del suo lungo monologo descrive l’Italia, e la Puglia in particolare, come l’isola felice dei diritti. Il luogo in cui, attraverso un’azione di governo ispirata dal compianto assessore regionale Stefano Fumarulo, si è dato respiro alla voglia di riscatto di tre ex schiavi che si sono ribellati al giogo del caporalato. Nel più comune plebiscito di consensi, il Governatore sembra quasi aver dimenticato che Casa Sankara, purtroppo, è una realtà unica nel suo genere. E che quella unicità non rende meno evidenti le lacune di un’azione di governo che da troppo tempo, ormai, sembra aver completamente bypassato le responsabilità nella gestione delle numerose criticità regionali. Basti pensare alla sospensione della convenzione con Emergency senza aver offerto, al contempo, soluzioni di continuità per la tutela dei diritti alla salute dei giovani migranti che, dal Salento alla Capitanata, soffrono l’impossibilità di poter accedere liberamente alle cure. Assistenza medica affidata, in contumacia, all’azione solitaria delle associazioni – come il Cuamm Medici per l’Africa o ai volontari dei medici col camper – che troppo spesso agiscono nell’impossibilità di coprire tutti i ghetti che costellano la regione. Le responsabilità istituzionali sono troppo evidenti. E non si possono mascherare con un abbraccio dato, a favore di fotografi, a uno dei ragazzi del ghetto giunto fino a Casa Sankara per avere l’opportunità di descrivere al Presidente, con toni accorati, la propria condizione di inumanità.
Più calibrata sulla realtà sembra invece la soluzione offerta dallo scrittore Leonardo Palmisano. Che, su Borgo Mezzanone, ha le idee fin troppo chiare.
«La presenza dello Stato lì è visibile. Lo Stato c’è, è armato fino ai denti, ma non interviene su situazioni che non sono semplicemente illegali, ma criminali. I veri “invisibili” sono loro. Traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, insediamento mafioso e traffico di cibarie, mattoni, cemento. E va chiarito che non si tratta di materiali di risulta, ma di materie prime che vengono trasportate direttamente all’interno del ghetto.
«Quel posto lì va chiuso. So da tempo che il ghetto di Borgo Mezzanone è un inferno, ma va chiuso, senza soluzione di continuità. Quel che posso fare è chiedere un confronto col ministero dell’Interno per verificare, insieme, le modalità con cui gestire lo sgombero.» Michele Emiliano sembra deciso sul destino del gran ghetto. Intervenuto, tra i consensi generali, a una manifestazione organizzata lo scorso 2 giugno da Casa Sankara Associazione Ghetto Out, a San Severo, non ha remore. Abbraccia i bambini, disciplina le folle, raccoglie larghi consensi. Nel corso del suo lungo monologo descrive l’Italia, e la Puglia in particolare, come l’isola felice dei diritti. Il luogo in cui, attraverso un’azione di governo ispirata dal compianto assessore regionale Stefano Fumarulo, si è dato respiro alla voglia di riscatto di tre ex schiavi che si sono ribellati al giogo del caporalato. Nel più comune plebiscito di consensi, il Governatore sembra quasi aver dimenticato che Casa Sankara, purtroppo, è una realtà unica nel suo genere. E che quella unicità non rende meno evidenti le lacune di un’azione di governo che da troppo tempo, ormai, sembra aver completamente bypassato le responsabilità nella gestione delle numerose criticità regionali. Basti pensare alla sospensione della convenzione con Emergency senza aver offerto, al contempo, soluzioni di continuità per la tutela dei diritti alla salute dei giovani migranti che, dal Salento alla Capitanata, soffrono l’impossibilità di poter accedere liberamente alle cure. Assistenza medica affidata, in contumacia, all’azione solitaria delle associazioni – come il Cuamm Medici per l’Africa o ai volontari dei medici col camper – che troppo spesso agiscono nell’impossibilità di coprire tutti i ghetti che costellano la regione. Le responsabilità istituzionali sono troppo evidenti. E non si possono mascherare con un abbraccio dato, a favore di fotografi, a uno dei ragazzi del ghetto giunto fino a Casa Sankara per avere l’opportunità di descrivere al Presidente, con toni accorati, la propria condizione di inumanità.
Più calibrata sulla realtà sembra invece la soluzione offerta dallo scrittore Leonardo Palmisano. Che, su Borgo Mezzanone, ha le idee fin troppo chiare.
«La presenza dello Stato lì è visibile. Lo Stato c’è, è armato fino ai denti, ma non interviene su situazioni che non sono semplicemente illegali, ma criminali. I veri “invisibili” sono loro. Traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, insediamento mafioso e traffico di cibarie, mattoni, cemento. E va chiarito che non si tratta di materiali di risulta, ma di materie prime che vengono trasportate direttamente all’interno del ghetto.
I leader di Borgo Mezzanone hanno relazioni fitte e ben radicate con il territorio. Poi, parliamoci chiaro. Quel che succede all’interno del Cara, a me puzza. Infatti chiederò al Ministero dell’Interno un’inchiesta sulla gestione di quel centro. Perché non è possibile che nel ghetto vi siano ragazzi e ragazze del Cara che vengono sfruttati tanto nei campi quanto per la prostituzione. Chi gestisce il Cara e quali sono le spese? Quanto ci guadagnano? Gli operatori, sono all’altezza dell’accoglienza? Non è possibile che, ad oggi, non sia pervenuta alcuna denuncia da parte di chi gestisce il Cara.
La verità è che lì Stato e anti-Stato sono la stessa cosa. In più, si deve pensare al destino di queste persone. Vogliamo consegnarle nuovamente alla mafia dei caporali anche quest’estate? Non penso. Penso invece che serva smantellare il Cara e conseguentemente pensare a una soluzione alternativa per chi vive nel ghetto, ma non è un criminale. I criminali, e quindi la gran parte dei nigeriani che gestiscono questi traffici, vanno consegnati alla giustizia.
Se questo significa sgombero, ebbene che si pervenga a una soluzione praticabile. Quel posto va smantellato, è inevitabile. Non c’è alternativa. Il rischio di epidemie è altissimo, le violenze sono quotidiane e non possiamo tollerare che tutto ciò avvenga sul territorio italiano, sotto gli occhi impassibili delle forze dell’ordine. L’emergenza l’ha creata lo Stato, con la complice indifferenza della Regione Puglia. E allora, che lo Stato la gestisca, se è uno Stato di diritto.»
fonte: terradifrontiera del 4/6/2018