Chi ancora si meraviglia per il sistema criminale scoperchiato dalla Procura di Perugia sui concorsi, le nomine e le assunzioni nella Sanità umbra, con l’arresto del segretario regionale Pd Gianpiero Bocci e dell’assessore Luca Barberini e la perquisizione della governatrice Catiuscia Marini, dovrebbe ricordare quel che accadde a Milano 24 anni fa. Era il gennaio 1995 quando una giornalista del Corriere, Elisabetta Rosaspina, chiamò una sua fonte in Regione Lombardia per avere notizie sulle nomine alle Asl. La fonte rispose di non poter parlare, perché impegnata nella riunione decisiva sui nuovi direttori generali e sanitari delle aziende ospedaliere. Ma, pensando di metter giù la cornetta, premette per sbaglio il pulsante “vivavoce”. Così la cronista ascoltò in diretta il mercato delle vacche trasversale, senza riuscire a distinguere le voci dei “progressisti” del Ppi e del Pds e da quelle dei leghisti (alleati nella strana giunta del bossiano Arrigoni). “Noi vi lasciamo Magenta e ci portiamo a casa Vimercate”. “Molla Cernusco e facciamo un discorso su Garbagnate”. “A Lecco mandate chi volete, ma non un pidiessino, sennò Cristofori ci resta di merda”. “Se non mi date il Gaetano Pini, mi dimetto e fate la giunta con il Pds”. “Se Piazza va a Lecco e Berger al posto di Grotti, mettiamo Arduini a Milano 2, ma Riboldi resta fuori”. “A Cernusco sono d’accordo di mettere un Pds e Grotti su Milano 6”. “Posso chiedere ai pidiessini di spostarsi da Cernusco a Garbagnate”. Alla fine due voci tirarono le somme:
“Dunque, a Milano, su 17 Usl e 8 ospedali, il Ppi ha 5 Usl e 2 ospedali, mi pare ragionevole”. “Voi chiudete con 2 ospedali, San Carlo e Fatebene, e 3 Usl, noi con 3 ospedali e 5 Usl, la Lega con un ospedale e 6 Usl, il Pds 2 più 2”.
La cronaca politica diventò presto cronaca giudiziaria: quasi tutta la giunta finì rinviata a giudizio. Ma il 1° luglio 1997, prima delle sentenze, il Parlamento a maggioranza centrosinistra ma anche coi voti del centrodestra, provvide a salvare tutti depenalizzando l’abuso d’ufficio non patrimoniale.
Al giudice non restò che prosciogliere tutti gli imputati perché il reato non c’era più: se il pubblico ufficiale commette un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio, ma non si riesce a dimostrare che ne abbia avuto un vantaggio quantificabile in denaro, non rischia più nulla. Legalizzati i favoritismi, le lottizzazioni, i nepotismi, i concorsi truccati. È la tipica reazione della politica agli scandali. Anziché rimuovere gli indagati, riformare le norme e le prassi che li inducono in tentazione, rendere più difficile commettere illeciti e più facile scoprirli, si aboliscono i reati e tutto continua come prima.
Fra i miracolati dalla controriforma del ’97 c’era l’ex assessora lombarda alla Sanità, Patrizia Toia, 47 anni, ex Dc passata al Ppi. Che, anziché accendere un cero alla Madonna e ritirarsi a vita privata, fece carriera: parlamentare dell’Ulivo, sottosegretaria nel governo Prodi-1, ministra nei governi D’Alema e Amato, eurodeputata dell’Ulivo e poi del Pd per altre tre legislature dal 2004 a oggi, è stata appena ricandidata da Zingaretti alle Europee per la quarta volta, a 69 anni. Ieri abbiamo pensato a lei, a quelli come lei e a chi li ha sempre protetti e promossi, leggendo le desolanti intercettazioni di Perugia, dove i vertici del Pd pilotavano (“un sistema illecito che andava avanti da sempre”) non solo le nomine dei vertici delle Asl, ma anche i concorsi per primari, medici, ausiliari, infermieri, barellieri e persino i posti riservati ai disabili, ciascuno col suo raccomandatore politico, o massonico, o curiale: “Non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa Regione a tutti i livelli. Ecclesiastici… ecumenici, politici, tecnici. Se no a ’st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro… altro che disposizioni di servizio dell’altra volta… Tra la massoneria, la curia e la giunta, non me danno tregua. È la Calabria unita”. Poi abbiamo letto le solite giaculatorie dei pidini: “Fiducia nella magistratura”, “certezza dell’estraneità”, “fare chiarezza”. E anche i soliti commenti finto-indignati dei leghisti che, nelle regioni dove governano, sono finiti spesso e volentieri in scandali analoghi e ora invocano il voto in Umbria per prendere il posto degli avversari e fare più o meno le stesse cose.
Non risultano infatti, 25 anni dopo lo scandalo lombardo (il primo di una lunga serie, finita per ora con l’arresto di Formigoni), proposte di riforma del Pd, di FI o della Lega per liberare la Sanità pubblica dal giogo dei partiti: i quali, per legge, decidono chi deve dirigere le aziende sanitarie e poi, siccome l’appetito vien mangiando, si spartiscono pure primari, medici, infermieri e centralinisti. Eppure la gran parte degli scandali che in questi 25 anni hanno decapitato le giunte regionali riguardavano proprio la Sanità, una delle poche voci di spesa pubblica che ha mantenuto intatto il suo budget (110 miliardi e rotti l’anno): Formigoni in Lombardia, Cuffaro in Sicilia, Del Turco in Abruzzo, Fitto in Puglia, Pittella in Basilicata. Nel 2008 la guerra per bande in Campania fra mastelliani e bassoliniani (“trovatemi un ginecologo dell’Udeur!”) coinvolse la famiglia e il partito di Mastella e portò alla caduta anticipata del governo Prodi-2. Tutti sanno che le Regioni, col monopolio della Sanità, sono il primo focolaio di corruzione d’Italia. Ma ai partiti va benissimo così, perché la Sanità col suo indotto è una grande mammella di fondi pubblici da succhiare per le campagne elettorali, nonché di assunzioni e favori per comprare voti. Quindi, per favore, lorsignori ci risparmino almeno i finti stupori. D’ora in poi solo chi presenterà e voterà una riforma che smantella le Regioni, costruisce un federalismo comunale e riporta la Sanità in mano allo Stato avrà diritto di parola. E di indignazione.
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