mercoledì 19 giugno 2019

La Lumaca di Mare che sembra una Foglia è l’Unico Animale che produce Clorofilla. - Matteo Rubboli

Lumaca Mare Foglia Clorofilla 2

Il mimetismo nel mondo animale è un’arma preziosa, utilizzata sia in fase di attacco sia come strumento di difesa, da moltissime specie. La Elysia chlorotica, una lumaca di mare a forma di foglia, era già nota nel mondo della ricerca per essere in grado di sfruttare la fotosintesi per il proprio nutrimento, ma una recente ricerca a cura dell’università della Florida ha spiegato che non solo la lumaca è in grado di trattenere i cloroplasti delle alghe di cui si nutre, ma che possiede alcuni geni dell’alga stessa incorporati all’interno del proprio DNA.

Grazie a questa combinazione di caratteristiche biologiche, la piccola Elysia chlorotica è il primo animale scoperto in grado di produrre la clorofilla come una pianta, e sfruttare quindi il sole in modo analogo ad un vegetale per produrre l’energia necessaria alla vita.

Già nel 1970 gli scienziati avevano scoperto che la lumaca era in grado di acquisire i cloroplasti della Vaucheria litorea, l’alga di cui si nutre, e che era in grado di trattenerli all’interno del proprio complesso sistema digerente. Sino ad oggi però, nessuno era stato ancora in grado di comprendere il meccanismo per cui i cloroplasti venivano trattenuti dalla lumaca per lunghissimi periodi. Lo studio dell’Università della Florida ha spiegato che i cromosomi della lumaca contengono i geni che codificano le proteine dei cloroplasti acquisiti dalle alghe.

Ogni lumaca deve quindi mangiare i cloroplasti dalle alghe, ma è già dotata dei geni necessari a farli funzionare con il meccanismo della fotosintesi clorofilliana. 

La lumaca infatti è di colore bruno/rosso durante la giovane età, e diventa di colore verde durante l’età più adulta. La Elysia chlorotica deve infatti acquisire con il tempo i cloroplasti che le donano il color verde smeraldo tipico delle foglie, ma ha già i geni nel DNA che le consentono di processarli correttamente. Questo sistema le consente di utilizzare la fotosintesi per un periodo fino a 10 anni dopo essersi nutrita.

https://www.vanillamagazine.it/la-lumaca-di-mare-che-sembra-una-foglia-e-l-unico-animale-che-produce-clorofilla/?fbclid=IwAR2HNXsErkSKM7t4rwim-uStOGcYV7M7QN8MmemPbDtSvh3nlXsb8xNOCuc

La giustizia non è uguale per tutti. - Anna Lombroso



C’è stato un tempo cui oggi guardiamo come a una età di Pericle nel quale in molti illuminati pensarono che la democrazia conquistata con il riscatto di un popolo dovesse essere sottoposta a una continua e pervicace manutenzione, perché non era bastata una lotta di liberazione dallo “straniero” per stabilire e consolidare condizioni di uguaglianze, giustizia e libertà. E che la Costituzione non doveva restare una pagina di straordinario valore morale e perfino letterario, ma un elenco di propositi e responsabilità alla cui realizzazione  tutti dovevano concorrere.
Nascevano allora delle organizzazioni che volevano affrancarsi da principi e legami di carattere corporativo per impregnare dello spirito democratico istituzioni, corpi e strutture dello stato e professioni che erano incaricate di svolgere funzioni di servizio. Accadeva una cinquantina di anni fa, quando  Giulio A. Maccacaro fondò “Medicina Democratica” che nel rifarsi a valori universali della scienza ne indicava i limiti quando si mettevano al servizio del mercato,  se avevano il sopravvento ” quelle statiche e sonnolenti interpretazioni dell’articolo 32, 1° comma della Costituzione”, se non diventava patrimonio sociale e culturale comune il diritto alla salute, oggetto di una lotta collettiva capace “di contestare alla radice non solo come produrre ma anche cosa, per chi e dove produrre”.
E in quegli stessi anni nasceva Magistratura Democratica (era il 1964) che si caratterizzava per un’ispirazione ideologica  improntata alla difesa dell’autonomia ed indipendenza del potere giudiziario rispetto agli altri poteri dello Stato,   impegnata nello “sviluppo di una cultura giurisdizionale europea fondata sul rispetto, in ogni circostanza, dei principi dello Stato di diritto democratico, tra i quali spiccano in primo luogo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.”
Ci vuol poco a capire quanto servirebbe oggi la lezione di Maccacaro applicata, tanto per dire, alla città di Taranto dove si è saputo di controllori comprati e venduti, dove star bene è incompatibile col salario, dove la bandiera italiana si alza a mezz’asta per ricordare il +21% di mortalità infantile rispetto alla media regionale ,il +54% di tumori in bambini da 0 a 14 anni, il +20% di eccesso di mortalità nel primo anno di vita e il +45% di malattie iniziate già durante la gestazione.  E quanto sarebbe utile quella di Marco Ramat, uno dei padri di Magistratura Democratica, per rivedere quelle radici fondanti alla luce del tramonto europeo e della dispersione di quella radiosa visione convertita in fortezza dalla quale partono gli imperativi della cancellazione di democrazie, diritti, indipendenza e autodeterminazione e  quando l’auspicata autonomia dai poteri dello stato non sembra annoverare  quella dal potere economico, dalla ingerenza partitica e dalla subalternità ai  vari “comitati di affari della borghesia” come li chiamava Lenin.
Secondo gli archivi dell’associazione stessa aderiscono a Magistratura democratica circa 900 degli 8.886 magistrati italiani in servizio, ovvero circa un magistrato su dieci. Non sono molti ma con quelle premesse sarebbe lecito  aspettarsi che da loro venisse qualcosa di più ragionato e incisivo delle letterine a babbo natale impregnate di un vago umanitarismo prodotte in occasione dei congressi e che sembrano adattarsi alla falsariga delle mozioni elettorali del Pd, o del blando comunicato emesso mentre fuori divampa la fiamma dello scandalo: … ribadiamo che Magistratura democratica – neppure presente in CSM come sigla autonoma – è del tutto estranea a tali vicende.
Come denunciava il Simplicissimus,  (qui: https://ilsimplicissimus2.com/2019/06/16/la-giustizia-e-cosa-troppo-seria-per-lasciarla-ai-magistrati/) la giustizia avrebbe bisogno di essere officiata da ben altri sacerdoti.
Non tutti devono essere Falcone e Borsellino, per carità, vorremmo non aver bisogno di martiri, ma non bastano di certo le mozioni congressuali intrise di buoni sentimenti e spirito umanitario e compassionevole  per rassicurarci sulla separazione oltre che dai poteri interni da quelli europei e sovranazionali con i quali partecipiamo a imprese belliche e coloniali, non è sufficiente un comunicato sul caso Diciotti per confortarci che nei tribunali non si assecondi la volontà del legislatore che per legge ha stabilito che lo straniero non possa difendersi come il cittadino italiano in tutti i gradi di giudizio, così come non tranquillizza che in nome della rivendicata autonomia insieme a Montesquieu nella relazione di apertura dell’ultimo congresso sia citato Ezio Mauro in veste di politologo e costituzionalista a conferma  dell’allarme per il radicalismo del nuovo sovranismo alla pari con  il radicalismo egualitario e camaleontico dell’antipolitica, colpevoli di aver  sancito la sconfitta della sinistra rappresentata dal Pd, o che si metta in guardia dalla fascistizzazione della nuova destra (che per la verità tanto nuova non è se è stata la governo vent’anni producendo per esempio la Bossi Fini, la legge Maroni e quelle ad personam), dando credito che il problema cruciale del  paese sia la percezione indotta  dell’invasione straniera, in linea con il negazionismo che bollando la marmaglia posseduta da rigurgiti reazionari,  nazionalistici,  protezionistici, smentendo l’ovvio: le disuguaglianze crescenti, la falcidia di posti di lavoro e la dequalificazione dell’occupazione che ancora c’è, la riduzione dei redditi e del potere d’acquisto prodotta dai processi di globalizzazione e finanziarizzazione.
E se i magistrati democratici proprio volessero riguadagnare la buona reputazione nel contesto geografico europeo meglio sarebbe che ricercassero l’approvazione della Corte di Strasburgo, impegnandosi in prima persona per reclamare e garantire l’attuazione dei principi che condannano il reato di tortura, quelli commessi da industrie criminali contro la sicurezza sul lavoro e l’ambiente.
Loro e gli altri quasi 9000 li vorremmo vedere esprimersi e applicare le leggi (che ci sono e sono anche troppe) sugli stati di necessità, per reprimere quelli fasulli di chi commette abusi e fare giustizia per quelli che riguardano i senza tetto che occupano gli alloggi   vuoti frutto di speculazioni immobiliari colpiti dalla sospensione dei servizi, distinguendo tra chi reclama il diritto primario alla casa da Casa Pound, tanto per fare un nome a caso. E quello stesso nome insieme ad altri della stessa fatta viene alla mente, quando vorremmo vedere che un magistrato applicasse con la doverosa severità le leggi che proibiscono l’apologia di reato, senza bisogno di farne di nuove, che basterebbe prendere alla lettera quella che già ci sono mai eseguite a memoria d’uomo post-resistenziale.
Perché il fascismo quello di ieri e quello di oggi si combatte così,  non applicando le leggi come se fossero teoremi aritmetici o peggio algoritmi, si tratti di uso privato delle armi, di decoro urbano compromesso dai poveracci di qualsiasi etnia la cui visione turba e va limitata, colpendo gli ultimi per rassicurare i primi e pure i penultimi. Perché di quello parliamo quando i grandi truffatori, i grandi corruttori, i grandi speculatori, le grandi multinazionali sfuggono alle maglia della giustizia a differenza del ladruncolo della proverbiali due mele,  perché le regole e i principi di legalità vengono confezionati dalla lobby dei grandi studi legali internazionali, e poi eseguite sciorinando il repertorio di scappatoie offerte generosamente dai “tempi dell’amministrazione della giustizia”, anche quelli discrezionale e arbitrari, veloci coi deboli, lenti coi forti che così possono entrare e uscire dalle porte girevoli di tribunali e patrie galere.
Si la giustizia è una cosa seria ma complicata. E per quello se la comprano quelli che se la possono permettere, quelli che possono farsela da soli, quelli che la aggiungono al tanto che hanno già togliendola a quelli che ne avrebbero più bisogno.

Salario minimo, un fronte ampio vuole farlo saltare. - Salvatore Cannavò

Salario minimo, un fronte ampio vuole farlo saltare


Dall’Ocse a Confindustria, dai dem ai sindacati fino alla Lega. In ballo c’è la tutela degli utili aziendali.

Poche battaglie politiche, come quella sul salario minimo, riescono a catalizzare fronti così ampi. E a lasciare sostanzialmente isolato il M5S che della proposta di legge è il principale artefice. Luigi Di Maio l’ha capito e infatti ieri ha cercato di alzare la voce per dire che la misura verrà presa. Ma non sarà facile.


Nel fronte contrario, infatti, si annoverano oltre alle opposizioni, anche i sindacati, tranne la piccola Usb, la Confindustria, le varie associazioni di categoria, in ultimo anche l’Aran, l’Agenzia per il contratto pubblico che ha paventato l’aumento della spesa pubblica. E poi l’Ocse la cui audizione dell’altroieri, per bocca dell’italiano Andrea Garnero, ha contestato il valore del salario minimo, 9 euro lordi, ritenuto troppo alto.


Ma nel fronte opposto c’è anche la Lega che, in ossequio alle ragioni di impresa solidamente codificate nel suo Dna, punta a prendere tempo. Da segnalare anche l’incontro tra Maurizio Landini, segretario della Cgil, e il presidente della Camera, Roberto Fico, che è sembrato molto attento alle ragioni della Cgil.


Tra le questioni sul tavolo c’è l’importo orario che il progetto di legge in esame al Senato, stabilisce in 9 euro lordi. Una cifra che collocherebbe il salario italiano all’incirca al quarto posto in Europa accanto al Belgio. Nella sua audizione alla Camera di lunedì, il rappresentante dell’Ocse, Andrea Garnero, aveva definito questo valore “tra i più alti dell’Ocse” non in termini assoluti, ma in rapporto al salario mediano. La posizione Ocse sembra trascurare il fatto che i salari italiani siano tra i più bassi d’Europa. Secondo l’ultimo rilevamento Eurostat del 2014, si collocano al tredicesimo posto dietro Danimarca, Irlanda, Svezia, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Olanda, Germania, Francia, Austria e, fuori dalla Ue, Svizzera e Norvegia.


A salario mediano basso si deve per forza avere un salario minimo altrettanto basso, oppure l’importo di quest’ultimo può contribuire a un generale rialzo? Lo scontro verte su questo punto anche perché, come spiega l’Istat nella sua audizione al Senato, il salario minimo legale “porterebbe a una compressione di circa l’1,6% del margine operativo lordo” delle imprese, cioè una riduzione degli utili. Si tratterebbe di una chiara redistribuzione di reddito dalle imprese ai lavoratori.


Non è detto che i benefici arriverebbero subito a tutti. Certamente quelli più interessati sono in quel 22% di forza lavoro che, secondo l’Inps, ha retribuzioni inferiori ai 9 euro l’ora: si tratta soprattutto di donne (26%), under 35 (38%), lavoratori del Sud (31%) del settore artigianale (52%) o del terziario (34%).


Difficile immaginare una ricaduta negativa sulla contrattazione, una “fuga dal contratto”, come l’ha definita Andrea Garnero il quale ha ricordato che, laddove il salario minimo è stato introdotto di recente, ad esempio in Germania nel 2015, la forza contrattuale dei sindacati tedeschi, che è notoriamente alta, non ne ha risentito. Un dato che dovrebbe far tacere i timori espressi sia da Confindustria sia da Cgil, Cisl e Uil. Il problema di preservare la struttura contrattualistica italiana esiste, e ieri Maurizio Landini si è raccomandato di non diminuire alcun diritto, ma non c’è alcuna prova che il salario minimo possa intaccarla. Mentre la sua istituzione potrebbe rappresentare un utile antidoto a un’altra tentazione che emerge costantemente nel dibattito: le gabbie salariali. Ci si è riferito, pur parlando di “flessibilità nel contratto nazionale” il rappresentante dell’Ocse e sappiamo bene, fin dai tempi di Umberto Bossi, che il tema sta a cuore alla Lega. Un salario minimo per legge potrebbe fugare anche questa tentazione.


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