i glicini di cetta

Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.

martedì 12 novembre 2019

Cognato di Renzi e fratelli: pm chiedono rinvio a giudizio per i milioni destinati ai bambini africani e poi spariti. - Letizia Giorgianni

Cognato di Renzi e fratelli: pm chiedono rinvio a giudizio per i milioni destinati ai bambini africani e poi spariti

La Procura di Firenze ha chiesto il processo per Andrea, Alessandro e Luca Conticini accusati a vario titolo di appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio.
Alessandro, Luca e Andrea Conticini (il cognato di Renzi in quanto marito di sua sorella Matilde) vanno processati per appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio. È la richiesta della Procura di Firenze, che ha chiesto il rinvio a giudizio per i fratelli, indagati a vario titolo nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza, tra l’altro, la sottrazione di 6,6 milioni di dollari destinati all’assistenza all’infanzia in Africa. I reati contestati dagli inquirenti sono appropriazione indebita e autoriciclaggio ad Alessandro e Luca Conticini, e riciclaggio ad Andrea Conticini. Le donazioni oggetto d’indagine provenivano da Fondazione Pulitzer tramite Operation Usa, Unicef e altri enti umanitari internazionali. Secondo le indagini, Alessandro e Luca Conticini sono accusati di appropriazione indebita di 6,6 milioni di euro, parte dei 10 milioni donati da Fondazione Pulitzer alle organizzazioni no profit Play Therapy Africa Limited, International development association limited e International development association Sa, di cui era titolare effettivo lo stesso Alessandro Conticini.
Per l’accusa il denaro è transitato, senza alcuna giustificazione, sui conti correnti personali di Alessandro Conticini, accesi presso la Cassa di Risparmio di Rimini, agenzia di Castenaso (Bologna). La procura accusa inoltre Alessandro e Luca Conticini di autoriciclaggio, per aver impiegato parte dei 6,6 milioni di dollari per sottoscrivere nel settembre 2015 un prestito obbligazionario per 798mila euro emesso dalla società Red Friar Private Equity Limited Guernsey, e per aver fatto un investimento immobiliare in Portogallo di 1.965.455 euro tra il 2015 e il 2017. Accusato di riciclaggio Andrea Conticini: per l’accusa, in qualità di procuratore speciale del fratello Alessandro (procura speciale datata 30 dicembre 2010), nel 2011 ha utilizzato parte del denaro destinato all’Africa per l’acquisto di partecipazioni societarie della ‘Eventi 6 srl’ di Rignano sull’Arno – società riconducile a familiari dell’ex premier Matteo Renzi (di cui è cognato) – per un totale di 187.900 euro, della Quality Press Italia srl per 158mila euro, e di Dot Media srl per 4mila euro.
Contestualmente l’avvocato Federico Bagattini lascia l’incarico di difensore di Andrea Conticini, per cui i pm Luca Turco e Giuseppina Mione contestano un ipotesi di riciclaggio di circa 350mila euro. A dare l’annuncio della rinuncia all’incarico lo stesso Bagattini: “La propagazione alla stampa della richiesta di rinvio a giudizio quando ancora il professionista si trovava in una fase di attesa rispetto alle determinazioni del pubblico ministero – si legge in una nota diffusa dal legale – crea grave e insuperabile imbarazzo nei confronti del cliente, rispetto al quale erano state fornite notizie conformi alle attività di recente compiute dal suo difensore. “In questo modo – prosegue – è stata svilita la professionalità del difensore al quale, a tutela della propria onorabilità e delle ragioni del proprio cliente, non resta che rinunciare all’incarico”. Andrea Conticini, a differenza dei fratelli, dopo aver ricevuto la notifica della chiusura indagini aveva chiesto e ottenuto di essere interrogato dai pubblici ministeri titolari dell’inchiesta, e aveva risposto alle loro domande. 
L’avvocato Federico Bagattini resta al momento difensore di Alessandro e Luca Conticini.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/07/04/cognato-di-renzi-e-fratelli-pm-chiedono-rinvio-a-giudizio-per-i-milioni-destinati-ai-bambini-africani-e-poi-spariti/5301361/
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ArcelorMittal, i pupazzi e il Movimento. - Tommaso Merlo



Senza neanche sapere le vere intenzioni di AncelorMittal, i pupazzi del vecchio regime si sono scatenati contro il Movimento 5 Stelle accusandolo di mandare all’aria il paese. Il solito terrorismo mediatico. Pupazzi da talk-show e da carta stampata, tutti uniti nel solito intento di annientare il Movimento in nome di un ritorno alla “serietà” politica di un tempo. Pupazzi. Appunto. Quando Di Maio fu costretto a mandare giù l’accordo già blindato da Calenda, i pupazzi si misero a starnazzare contro il Movimento reo di essersi rimangiato le promesse elettorali. Di Maio in realtà fece verificare l’accordo di Calenda, vi trovò anomalie ma non sufficienti per recedere. Nonostante questo, Di Maio riuscì a strappare ad AncelorMittal condizioni molto più favorevoli di Calenda sia per i lavoratori che in termini ambientali. Poi certo, in campagna elettorale il Movimento era stato troppo “ottimista” su quel bubbone d’acciaio, ma una volta al governo fece il possibile considerando i patti già siglati, le pressioni delle lobby e la cooperazione con la Lega per cui gli italiani vengono “prima” ma solo in campagna elettorale. I pupazzi del vecchio regime colsero comunque anche quell’occasione per colpire il Movimento e far contente le lobby che gli pagano lo stipendio. E cioè i burattinai che con la complicità dei pupazzi hanno sempre usato i guanti nel trattare il bubbone tarantino. 

Anni in cui perfino la legge è stata sospesa sotto quelle ciminiere. Sospesa mentre gli operai morivano dentro allo stabilimento e le loro famiglie a casa respirando veleni. Oggi si sta scoprendo che Ancelor-Mittal non è altro che la solita banda di predatori economici che comprano e vendono stabilimenti con fossero auto usate. L’ennesima dimostrazione di cosa sia il cinico capitalismo che sta distruggendo il mondo. Potentati internazionali talmente imponenti da influenzare la politica di governi democraticamente eletti. Potentati frutto di una disuguaglianza ormai indecente che permette a poche persone senza volto e senza cuore di poter ricattare intere regioni grazie alla carota dei posti di lavoro e al bastone degli investimenti. Il tutto in nome del profitto. Ad ogni costo. 

Anche a quello di calpestare la vita delle persone e dell’ambiente. Perché il cinico capitalismo che sta distruggendo il mondo è così. Vede solo il valore delle proprie azioni, vede quote di mercato e commesse. Vede solo soldi e non gli bastano mai. Non vede vite umane. Non vede l’ambiente. Non vede la scia di dolore e di morte e di devastazione che si lascia alle spalle. Tutti fastidiosi effetti collaterali. Un quadro agghiacciante. Potentati economici sempre più forti, governi sempre più deboli e sotto i poveracci che per mettere qualcosa nel piatto ai propri figli sono disposti a sacrificarsi. Un ricatto agghiacciante. La storia del bubbone tarantino con l’aggravante tutta italiana di un verminaio legislativo e istituzionale e politico che ha piantato la solita cagnara per anni, ma alla fine ha permesso ai padroni del bubbone di fare sempre quello che gli conveniva mentre all’estero rispettavano le regole. La solita cagnara autolesionista. Il Movimento è stata l’unica forza politica che ha tentato d’invertire perlomeno quell’ipocrita tendenza e come risultato è stato attaccato brutalmente dai pupazzi del vecchio regime. L’ennesima conferma di come ai pupazzi e ai loro burattinai non freghi nulla dell’Ilva, degli operai, dell’ambiente e tantomeno dei destini del paese. A loro interessa solo far fuori il Movimento e tornare a comandare.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/07/arcelormittal-i-pupazzi-e-il-movimento/
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Trattativa, tutto quello che Berlusconi non ha voluto spiegare in aula: dalle leggi anticipate a Mangano alle pressioni di Dell’Utri al governo. - Giuseppe Pipitone

Trattativa, tutto quello che Berlusconi non ha voluto spiegare in aula: dalle leggi anticipate a Mangano alle pressioni di Dell’Utri al governo

Le leggi "gradite" ai boss e raccontate in anticipo dall'ex senatore di Forza Italia allo stalliere di Arcore, i soldi che sempre il suo storico braccio destro avrebbe continuato a versare a Cosa nostra anche dopo l'elezione a Palazzo Chigi: sono i temi contenuti nella sentenza di primo grado sui quali l'ex premier - dipinto nella stessa sentenza come una vittima della minaccia stragista - avrebbe potuto fare chiarezza, se non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere. 
Si è seduto allo stesso posto di Tommaso Buscetta: da quella sedia il boss dei due mondi svelò al mondo i segreti della mafia. Silvio Berlusconi, però, non era un pentito ma soltanto un teste assistito. Come tale aveva due opzioni: avvalersi della facoltà di non rispondere; oppure chiarire almeno una parte delle accuse e dei sospetti che da anni proiettano un’ombra sulla sua carriera d’imprenditore e politico. D’altra parte lo status di indagato di reato connesso l’ex premier lo ha incassato grazie al fatto che la procura di Firenze lo indaga per reati atroci come le stragi di Milano, Roma e Firenze del 1993, e gli attentati falliti a Maurizio Costanzo e a Totuccio Contorno. Accuse gravissime: non valeva la pena cogliere l’occasione del viaggio a Palermo per chiarire ogni cosa? Anche perché nella sentenza di primo grado della Trattativa l’ex premier viene dipinto come una vittima della minaccia stragista rivolta da Cosa nostra allo Stato. Se a Palermo avesse scelto l’opzione numero due avrebbe dovuto soltanto dire la verità, mentre accusa e difesa non avrebbero potuto porre domande su questioni lontane dai fatti oggetto del processo. Anche quando il teste assistito decide di rispondere, infatti, gli viene sempre garantita la possibilità di rimanere in silenzio per evitare che faccia dichiarazioni auto accusatorie.
Il silenzio con 12 parole – Garanzie che non sono bastate a Berlusconi. Che alla fine ha scelto l’opzione numero uno, la via del silenzio, formalizzata con dodici parole: “Su indicazione dei miei avvocati, mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Nessuno spazio alle battute e neanche alle immagini dato che da uomo di televisione ha evitato accuratamente di farsi immortalare all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, l’astronave verde costruita per il Maxiprocesso. Dalle sbarre mancava solo che spuntasse il fantasma di Vittorio Mangano, stalliere ad Arcore e capomafia a Porta Nuova, anche lui tra gli imputati dello storico procedimento istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sarà stato per il potere evocativo dei luoghi che l’ex premier ha optato per un veloce blitz nel capoluogo siciliano: arrivato in aeroporto pochi minuti prima della deposizione, è andato via subito dopo.
Fuga dalle domande – In mezzo, appunto, ha pronunciato quelle dodici parole che ha usato per spiegare al giudice Angelo Pellino l’intenzione di avvalersi della facoltà di non rispondere. La stessa facoltà che Berlusconi aveva già esercitato nel 2002: all’epoca i giudici che stavano processando Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra andarono a Palazzo Chigi per interrogare lo storico datore di lavoro del loro imputato. Anche quella volta l’allora presidente del consiglio decise di non dire nulla. Dell’Utri sarebbe poi stato condannato a sette anni, una pena che finirà di scontare tra poche settimane. Ed è proprio per evitare di finire in carcere di nuovo che l’ideatore di Forza Italia ha citato l’amico Silvio. Un’occasione che l’uomo di Arcore avrebbe potuto sfruttare a suo vantaggio e spiegare una serie di circostanze, mentre nello stesso tempo dava un aiuto al compagno di una vita.
Ha mai avuto pressioni mafiose tramite Dell’Utri? – Così non è stato. La domanda che con tutta probabilità Francesco Centonze, legale di Dell’Utri, avrebbe voluto fare all’illustre testimone è rimasta senza risposta: presidente, nel 1994 il suo governo ha mai ricevuto minacce mafiose tramite Dell’Utri? D’altra parte era la stessa ordinanza con cui nel luglio scorso la corte aveva dato il via libera alla sua audizione a recitare l’oggetto della trasferta siciliana di Berlusconi: “Riferire quanto sa a proposito delle minacce mafiose subite dal governo da lui presieduto nel 1994 mentre era premier”. Dell’Utri, infatti, è stato condannato in quanto cinghia di trasmissione delle intimidazioni provenienti dai boss mafiosi e indirizzati a Palazzo Chigi. Come la pensa Berlusconi al riguardo lo ha già detto il 20 aprile del 2018, il giorno della sentenza di primo grado: “Non abbiamo ricevuto nel 1994, né successivamente, nessuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti”. È per questo motivo che l’avvocato di Dell’Utri avrebbe voluto proiettare il video con quella dichiarazione di Berlusconi in aula, per sopperire al silenzio dell’eccellente testimone.
Solo tutta la verità – Se però avesse accettato di rispondere alle domande della difesa del suo storico braccio destro, il leader di Forza Italia avrebbe dovuto farlo anche con l’accusa. E avrebbe dovuto dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Sul banco dei sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera c’erano alcuni fogli con una serie di quesiti da sottoporre al teste, nel caso quest’ultimo avesse optato per l’opzione numero due. Domande non collegate alle stragi del 1993, accuse che fanno di Berlusconi un indagato di reato connesso e sulle quali l’ex premier avrebbe potuto non rispondere in ogni caso per evitare di auto indiziarsi.
Cosa sapeva delle leggi “gradite” ai mafiosi? – Il leader di Forza Italia, però, sarebbe stato con tutta probabilità interpellato su alcuni momenti del suo primo esecutivo. Per esempio: perché tra presentato tra la fine del 1994 e i primi mesi del 1995 che aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi? Per l’accusa è una delle contropartite chieste da Cosa nostra al governo Berlusconi grazie all’intercessione di Dell’Utri. La stessa pubblica accusa voleva approfondire questo passaggio quando l’estate scorsa ha chiesto di riaprire il dibattimento. La storia di quella legge è raccontata nelle motivazioni della sentenza di primo grado della Trattativa. “C’è pieno riscontro sul fatto che effettivamente, poco prima del Natale del 1994, e cioè il 20 dicembre 1994, fu definito dalla competente Commissione parlamentare il testo di legge, contenente anche alcune modifiche legislative attese e ‘gradite’ dai mafiosi , che si prevedeva di approvare e, dunque, trasformare in legge, già nel successivo mese di gennaio del 1995″, scriveva la corte d’assise. Cosa ricorda Berlusconi di quel testo di legge, non approvato solo a causa della caduta prematura del suo primo esecutivo? E quella norma era in qualche modo legata al decreto Biondi, il cosiddetto “salvaladri” – poi non convertito e decaduto – che oltre ad aprire le gabbie ai tangentisti conteneva al suo interno una norma per imporre ai pm di svelare agli avvocati i nomi dei mafiosi indagati?
Era solo uno stalliere? – A proposito della minaccia “trasmessa” da Dell’Utri a Palazzo Chigi, se Berlusconi avesse risposto avrebbe potuto essere interpellato anche su altro. A cominciare dai rapporti tra il suo storico braccio destro e Mangano, il capomafia assunto come stalliere a Villa San Martino nel 1974. “La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore, mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”, era scritto già nella sentenza definitiva di condanna dell’ex senatore a sette anni per concorso esterno. “Cercavamo uno stalliere per badare ai cavalli, in Lombardia non ne trovammo nessuno”, è sempre stata la versione dell’ex presidente del consiglio, quando non è andato oltre definendo “eroe” il boss di Porta nuova.
Leggi pro mafia in anteprima alla mafia? – Stalliere o non stalliere, di certo anche vent’anni dopo l’assunzione a villa San Martino, Mangano ha continuato a sentire Dell’Utri: secondo i giudici del processo di primo grado il fondatore di Forza Italia (che nel ’94 non si candidò direttamente alle politiche) anticipava a Mangano il contenuto di leggi “gradite” ai boss che il governo stava preparando. “Ci si intende riferire – è scritto nella sentenza – al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”.
Chi fu a fare quelle leggi a favore dei boss? – In pratica, secondo i giudici, Mangano era a conoscenza dell’attività legislativa del governo Berlusconi ben prima che ne fossero informati gli stessi ministri. E ne era a conoscenza nonostante si trattasse di un’attività “mai pubblicizzata e, anche per la sua tecnicalità, non ricavabile dalla lettura di giornali”. Era vero? E Berlusconi lo sapeva? O Dell’Utri agiva in autonomia, nonostante non facesse parte del governo e in quel periodo neanche del Parlamento? Oppure è stata una “manina” oscura a mettere sul tavolo del Consiglio dei ministri quelle norme, poco prima di raccontarne il contenuto a Mangano? Berlusconi, purtroppo, ha scelto di non rispondere. E quindi restano al momento solo le parole scritte della corte d’assise: “Il fatto che Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per ‘tranquillizzare‘ i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece”.
Soldi a Cosa nostra: ne sapeva nulla? – Sui rapporti Berlusconi-Dell’Utri-Cosa nostra si è indagato e scritto moltissimo. Solo per rimanere sui temi al centro del processo, l’ex premier ha perso l’occasione di chiarire se è vero quanto la corte d’Assise ritiene provato nel verdetto di primo grado: è vero che l’amico Marcello ha pagato per anni i mafiosi per conto di Arcore? “È incontestabilmente dimostrato dal ricordato esborso, da parte delle società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro, poi, effettivamente versate a Cosa nostra. Dell’Utri, infatti, senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme recapitate ai mafiosi”, c’è scritto nelle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza. Che l’ex senatore sia stato il garante “decisivo” dell’accordo tra l’ex premier e Cosa nostra era già stato stabilito in via definitiva dalla Cassazione nella sentenza Dell’Utri. Il primo grado della Trattativa, però, va oltre: “È determinante rilevare che tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994 perché ciò dimostra inconfutabilmente che ancora sino alla predetta data Dell’Utri, che faceva da intermediario, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti con i mafiosi, attenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versare e a Cosa nostra”. Berlusconi avrebbe continuato a pagare i boss anche dopo l’elezione a Palazzo Chigi: è davvero così? Il leader di Forza Italia è il primo presidente del consiglio finanziatore diretto della piovra? L’ex premier ha preferito non rispondere. Ancora una volta, gli interrogativi rimarranno tali.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/11/12/trattativa-tutto-quello-che-berlusconi-non-ha-voluto-spiegare-in-aula-dalle-leggi-anticipate-a-mangano-alle-pressioni-di-dellutri-al-governo/5558229/
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Governo Conte 2. Il premier è vivo, ma i giallo-rosa no. - Marco Travaglio

Governo Conte 2 Il premier è vivo, ma i giallo-rosa no

I primi 2 mesi: I “ministri ombra” del Fatto Quotidiano giudicano, dicastero per dicastero, gli errori, le scelte fatte e quelle da fare dell’esecutivo 5S-Pd-Leu-Iv.
Un governo si giudica da quello che fa e non fa, in base a quello che può fare nelle condizioni date e in rapporto a quello che faceva chi c’era prima e da quello che potrebbe fare chi verrà dopo. Il Conte 2 – che in questo inserto i nostri “ministri ombra” giudicano dicastero per dicastero – è nato due mesi fa in 10 giorni fra tre forze politiche (poi diventate quattro) che si erano combattute e insultate fino al giorno prima. Ma collegate da alcuni esili fili comuni: la necessità di formare l’unica maggioranza parlamentare possibile per non darla vinta alla pretesa di Salvini di votare subito per prendere il potere, anzi i “pieni poteri”; l’esigenza di dare all’Italia una manovra di Bilancio per evitare l’esercizio provvisorio, neutralizzare l’aumento dell’Iva, placare gli speculatori e dunque lo spread; l’opportunità di sedere al tavolo della nuova Commissione Ue; la volontà di governare sino a fine legislatura, di rispondere all’ansia di novità più volte espressa dagli italiani con un cambiamento diverso da quello di una “destra” troglodita e sfasciatutto e, nel frattempo, di preservare il Quirinale da un B. o da una Casellati.

Viste le premesse, un livello minimo di litigiosità e renitenza fra i giallorosa era fisiologico. Ma, dopo l’arrivo del partitucolo renziano, le conseguenti convulsioni nel Pd e l’aggravarsi post-Umbria del marasma nei 5Stelle, quel livello è diventato patologico e cacofonico. Una rissa quotidiana che si manifesta più sui giornali e in tv che nei Consigli dei ministri, ma che sta oscurando le cose buone fatte o almeno impostate nei primi 60 giorni. Tant’è che è bastata la crisi dell’Ilva, chiaramente estranea a responsabilità del Conte 2, e anche del Conte 1 (nato quando il contratto con Arcelor Mittal era purtroppo irreversibile), per metterlo in pericolo. Ora i giallorosa sono a un bivio: o staccano la spina e vanno volontariamente al macello delle urne, consegnando i pieni poteri a Salvini; o la piantano di segare l’albero su cui sono (e siamo) seduti. Approvando senza stravolgerla la legge di Bilancio, la migliore con le poche risorse disponibili. E subito dopo riunendosi in conclave per mettere a punto un programma più dettagliato: un vero contratto come quello che tiene in piedi le Grosse Koalition tedesche, che vincoli i quattro partiti ad approvarlo nei termini e nei tempi previsti, senza consumarsi a ogni provvedimento in eterne discussioni a Palazzo Chigi e poi di nuovo sui media. Conte ha già dimostrato di essere non solo l’unico, ma anche il migliore premier possibile di questa maggioranza (chi si era scordato la sua lezione a Salvini del 20 agosto in Senato se l’è ricordata l’altroieri vedendolo a Taranto fra gli operai dell’ex Ilva). E Mattarella ha già fatto sapere che questo sarà l’ultimo governo della legislatura. Dopo ci sono soltanto le urne, cioè Salvini.

I giallorosa se ne facciano una ragione e comincino a comportarsi come i conducenti di un treno che deve viaggiare per tre anni e mezzo, accantonando i social e i sondaggi e ponendo le basi per quei risultati che, per essere veri, necessitano di una prospettiva di anni, non di giorni o settimane. Altrimenti, se hanno in mente altri mesi di lenta agonia, dicano subito chiaro e tondo che preferiscono finirla qui. Se il futuro che hanno in mente per l’Italia è un governo Salvini con pieni poteri, è inutile rimandarlo: prima arriva, prima ce ne liberiamo.

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Andrea Scanzi: “Conte a Taranto: la sincerità è rivoluzionaria”. - Andrea Scanzi



Mi è capitato, ieri, di imbattermi in un post dell’attore Massimo Wertmüller. Faceva così: “Noi rimpiangeremo amaro, secondo me, lo rimpiangeremo tutti, pure quelli che oggi credono agli asini che volano, quelli che lo offendono o lo deridono, questo governo. (…) Rimpiangeremo questo premier che è andato non come istituzione, ma come uomo, ad affrontare le sacrosante ragioni degli operai dell’Ilva senza avere nemmeno responsabilità nella storia passata dello stabilimento”. Fatico a dargli torto.

Wertmüller ha poi parlato del Cazzaro Rosé: “Intanto Renzi si palesa oggi come uno che cerca consensi a destra, spostandosi a destra. E allora io vi chiedo, lo chiedo soprattutto a quelli, anche amici cari, che lo difendevano se non come un possibile ‘meglio’ certamente come un ‘meno peggio’, uno che ha SEMPRE avuto un DNA così, anche quando non fece, come invece ha fatto oggi, un partitino che opera all’interno di un governo di cui fa parte e contro di esso (!!!), cioè Viva Italia, o Italia Viva, non cambia, ma quando era lì a dirigere la sinistra, che disastri può aver fatto all’interno di essa? E ci si chiede ancora perché ci fu una emorragia di voti, perché tanti andarono via delusi da quella sinistra?”. E anche qui fatico proprio a dargli torto, anche se sparare su Renzi è tanto giusto quanto facile (oggi; ieri, quando era potente, se osavi non essere renziano ti facevano la guerra in ogni dove. Lo so io, lo sa questo giornale. Un tempo osceno e tremendo).

Torniamo però a Giuseppe Conte. Chi tra voi ha buona memoria, e già solo per questo appartiene a una minoranza vieppiù sparuta, ricorderà quante gliene dissero quando si affacciò alla politica. Non aveva neanche cominciato, e vai di mitraglia: millantatore e mitomane (per via del curriculum “gonfiato”). Burattino telecomandato (da Di Maio, Salvini e credo pure Stocazzo). Fascista sotto mentite spoglie poiché prono alla peggiore destra razzista squadrista nazista (e bla bla bla). Un fuoco di fila continuo che arrivava spesso (non sempre) dalla stessa gente che fino a ieri aveva celebrato proprio Renzi, ovvero il punto più basso nella storia della sinistra (ehm) italiana. Chi osava dire che il Salvimaio era bruttino parecchio, ma che in mezzo a quel mazzo moscio si stagliasse il miglior presidente del Consiglio (per distacco) dai tempi di Prodi, veniva macellato dalle solite firme stantie. Poi è successa una cosa che avrebbe dovuto rendere felici quei (non di rado a ragione) critici feroci: Conte ha demolito Salvini in un agosto dove il primo sembrava Maradona nell’86 e il secondo Nardella nei 3mila siepi con le Crocs verdi ai piedi. Solo che, invece di trovare a quel punto coraggio e decenza per dire “Ops, forse lo abbiamo sottovalutato!”, alle bombe di ieri si è sostituita la galleria dei musi lunghi e dei malmostosi a caso.

L’astio per Conte – nel frattempo nei sondaggi il politico più amato dagli italiani, a conferma di come certi “intellettuali” abbiano il polso del Paese di un criceto morto – e per i 5 Stelle ha continuato a guidarli. E dunque accecarli. Persino dopo la visita a Taranto di Conte, quasi rivoluzionaria per la sincerità esibita nel mettere a nudo la drammatica impotenza della politica di fronte a certi rovesci devastanti della Storia (e dell’uomo), nulla è cambiato. Opinionisti e opinioniste, va da sé senza lettori né idee, ma con posto fisso in tivù, continuano ad abbaiare alla Luna. Alimentando quella stessa destra che dicono di voler contrastare. Eccome se lo rimpiangeremo, e lo rimpiangeranno, questo presidente del Consiglio. Ma sarà troppo tardi.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/12/andrea-scanzi-conte-a-taranto-la-sincerita-e-rivoluzionaria/
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Lupi per agnelli. - Marco Travaglio



La nota faccia da renzi che risponde al nome di Renzi ci accusa di censurare un’archiviazione: quella dell’indagine nata a Firenze nel 2015, poi trasferita in parte a Milano su vari appalti sospetti, famosa perché costò il posto al suo ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi (Ncd). Lupi non era indagato, dunque con l’archiviazione non c’entra. Ma i giornali di destra e dunque Renzi frignano per il povero innocente perseguitato dall’ennesimo complotto mediatico-giudiziario. Forse è il caso di rammentare perché Lupi diede le dimissioni e Renzi le accettò, visto che non lo ricordano nemmeno loro. Dalle intercettazioni venne fuori che: Lupi aveva chiamato Ercole Incalza, capostruttura del suo ministero, per dirgli: “Deve venirti a trovare mio figlio” (Luca, neolaureato in cerca di lavoro); Incalza e l’imprenditore e abituale appaltatore Stefano Perotti si erano interessati a incarichi professionali per Lupi jr.; Perotti aveva regalato al giovanotto un Rolex da 10 mila euro. Lupi, cuore di papà, fece benissimo a dimettersi e Renzi ad accompagnarlo alla porta. Per quei fatti che, a prescindere dalla rilevanza penale, ponevano un’evidente questione morale e di opportunità: un ministro non può accettare favori o regali da dirigenti e clienti del suo ministero. L’essere indagato o meno non c’entra: c’entrano i fatti, mai smentiti neppure dall’archiviazione. Che riguarda gli indagati, dunque non Lupi, e non parla di lui.

Eppure il Giornale titola: “‘Dimissionato senza motivo’. L’amara rivincita di Lupi” . E Libero: “Archiviata l’inchiesta sui Rolex. Chi ripaga il male? Lupi si era dimesso per nulla senza essere indagato. Prosciolto nel 2018” (parola di Renato Farina, ciellino come Lupi ma pregiudicato a differenza di Lupi, convinto che si indagasse sul Rolex e che si possa prosciogliere uno che non è mai stato inquisito). E il Riformatorio: “Lupi e i suoi fratelli vittime innocenti dei tagliagole a 5Stelle” (per Tiziana Maiolo il pm era Di Maio). Renzi però li supera e strilla contro “i gazzettini del giustizialismo che fischiettano e fanno finta di nulla davanti all’ennesimo scandalo che scandalo non era”, anziché “scusarsi” con Lupi. Che, rivela Renzi, “era totalmente estraneo alla vicenda ma decise di dimettersi lo stesso”. Ma tu guarda: era estraneo e lui, anziché respingerne le dimissioni, le accolse al volo. Perché non si scusa lui? Sarebbe una bella scena: un politico che si vergogna di una delle poche cose giuste fatte in vita sua, cioè far dimettere un non indagato in nome della questione morale, poi corre a rimediare imbarcando una dozzina di indagati e condannati in nome della questione immorale.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/12/lupi-per-agnelli/
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L’alleato di Salvini è omertoso. - Tommaso Merlo



L’alleato di Salvini attraversa l’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo. Come hanno fatto centinaia di mafiosi nella sanguinaria storia malavitosa italiana. Si vedono solo le gambe. Sono storte e il passo è incerto. L’alleato di Salvini non ha voluto si vedesse il suo volto. Forse per vergogna o forse per evitare di finire carne da macello social. Mossa boomerang. L’autocensura rende ancora più drammatica la scena. L’Italia intera guarda le gambe di quel vecchio prendere posto davanti ai giudici. Non sono gambe qualunque, sono le gambe del tre volte presidente del consiglio che dovrebbe testimoniare sulla trattativa stato-mafia, una delle pagine più inquietanti della nostra storia e che lo vede assoluto protagonista. Mafia e politica che cooperano per spartirsi l’Italia. L’alleato di Salvini recita poche e striminzite parole. Si avvale della facoltà di non rispondere. E cioè tiene la bocca chiusa. E cioè sceglie l’omertà. Ancora una volta. Invece di mettersi a disposizione della Giustizia, invece di cogliere l’occasione per dimostrare la propria estraneità, invece di scandalizzarsi per essere ingiustamente tirato in ballo, invece di prendersela per essere anche solo accostato ad un mafioso qualsiasi, l’alleato di Salvini sceglie di non collaborare, sceglie di portarsi i suoi indicibili segreti nella tomba. Un silenzio che echeggia per tutto il paese. Un silenzio che vale più di mille bugie che sarebbero comunque uscite dalla sua bocca. Perché se davvero non aveva nulla da nascondere, l’alleato di Salvini avrebbe parlato eccome, avrebbe sfoderato la sua logorroica parlantina predicando per ore ed ore la sua totale estraneità alla vicenda. Ed invece neanche una parola. Muto. Evidentemente non può parlare. Troppo rischioso. Confessare tutta la verità su quegli anni bui, per l’alleato di Salvini significherebbe ammettere che la propria intera esistenza è stata buttata via inseguendo spaventosi disegni di potere. Significherebbe venir sommerso dai rimorsi e dai sensi di colpa fino ad essere costretto a togliersi finalmente la maschera e guardare i propri cari e i milioni di cittadini che hanno creduto in lui negli occhi. Davvero troppo. Meglio recitare la propria parte fino all’ultimo, meglio evitare l’incontro con la propria coscienza fino a quando il destino deciderà di abbassare il sipario. La scena dell’aula bunker dura pochi istanti ma è molto intensa. I giudici prendono atto. L’alleato di Salvini è omertoso e se ne torna a Roma col suo jet privato. È indagato anche a Firenze per le stragi del 1993 e altri processi lo tormentano. È inseguito dai giudici. È inseguito dai suoi incubi. Da una vita intera. È questa la sua vera condanna. La fuga perenne. Dal suo passato, da se stesso. Anche la politica è una condanna per lui. Ne ha bisogno. Gli serve per continuare la sua fuga. Ormai perde colpi e il suo partito è ridotto all’osso, ma non si può fermare. Ci sono nuove regionali a breve e poi forse le politiche e poi forse un posto di rilievo nel nuovo governo tutto di centrodestra. Magari quello di padre nobile. Coi suoi avvocati ed inservienti sulle poltrone strategiche. In una democrazia sana ad un personaggio del genere non sarebbe concesso nemmeno di avvicinarsi alle istituzioni. In Italia invece, dopo aver varcato l’aula bunker, per lui si potrebbero riaprire le porte del potere nella nuova veste di alleato di Salvini.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/11/lalleato-di-salvini-e-omertoso/
i glicini di cetta at 07:42 Nessun commento:
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