i glicini di cetta

Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.

giovedì 30 gennaio 2020

L'acqua su Marte era simile a quella degli oceani terrestri


Rappresentazione artistica degli oceani di Marte (fonte: NASA/GSFC)

I dati di Curiosity rafforzano la ricerca di tracce di vita.

L'acqua che un tempo bagnava la superficie di Marte aveva un pH e una salinità simili a quelli degli oceani terrestri che pullulano di forme di vita. A indicarlo sono le analisi condotte dal rover Curiosity della Nasa su alcuni sedimenti argillosi prelevati nel cratere Gale. I dati, che rafforzano ulteriormente la ricerca di tracce di vita sul Pianeta Rosso, sono pubblicati sulla rivista Nature Communications da un gruppo internazionale guidato dal Tokyo Institute of Tecnology.

Gli esperti hanno analizzato i dati mineralogici e chimici che Curiosity aveva inviato sulla Terra dopo aver passato al setaccio alcuni sedimenti di smectite, un minerale argilloso trovato nel cratere Gale in cui si nasconderebbe l'impronta lasciata dall'antica acqua marziana.

Lo studio ha passato in rassegna vari parametri, come la salinità dell'acqua (ovvero la concentrazione di sali disciolti), il pH (la misura della sua acidità o alcalinità) e quello che viene chiamato 'stato ossidoriduttivo', ossia la tendenza a perdere o acquisire elettroni (in altre parole, la misura dell'abbondanza di gas come l'idrogeno, proprio di ambienti riducenti, o di ossigeno, tipico di ambienti ossidanti).

I risultati indicano che i sedimenti argillosi del cratere Gale si sarebbero formati in presenza di acqua liquida lievemente salina e con un pH vicino a quello degli oceani della Terra. Siccome i nostri mari ospitano una miriade di forme di vita, è plausibile che anche l'antica acqua marziana potesse ospitare vita, per lo meno microrganismi. Alle prossime missioni il compito di trovarne le prove.

http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/spazio_astronomia/2020/01/23/lacqua-su-marte-era-simile-a-quella-degli-oceani-terrestri-_9cd79915-3ef9-415e-bc41-1ecfa2f7227b.html?fbclid=IwAR3OAi_1FtJrIcE9A5F6jAZOdHmSw2TBDyuR58PmnjIRAMFG5rFkoa-WipU

i glicini di cetta at 18:52 Nessun commento:
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Siamo senza speranza.

Risultato immagini per torre di babele"

Fatta una buona legge, dopo due giorni viene cancellata. Non abbiamo più speranze, siamo in mano a delinquenti che pur di non mollare il potere, si affidano anche alle organizzazioni mafiose per restare a galla e continuare a depredare il paese (lo constatiamo giornalmente leggendo i giornali e ascoltando le notizie).
Disgustoso vedere come stiano lottando per mantenere i propri privilegi invece di provvedere a legiferare per tirarci fuori dal baratro in cui ci hanno fatto cadere. Hanno avuto la sfacciataggine di ripristinarsi i vitalizi mentre a noi tolgono tutto!
A chi serve la prescrizione? A chi ha soldi e buoni avvocati per ottenerla, non certo a noi miserabili cittadini ai quali già è tanto se viene garantito un lavoro, peraltro, malpagato.
A chi serve che si mantenga la concessione autostradale ai Benetton? Solo a chi riceve oboli per mantenersi in politica, e che poi usa come ben sappiamo....
E chi vota questi miserevoli e pietosi esseri che non rinunciano a nulla?
Chi ha interesse ad avere ricambiato il favore, naturalmente; "do ut des" è la formula che va per la maggiora al momento.
Come l'apparire più che l'essere, come non usare le buone maniere per non passare da fessi, come non rispettare le regole per lo stesso motivo...
Non sappiamo neanche educare i nostri figli che, privi di freni e abbandonati a se stessi, emulano i peggiori delinquenti.
Stiamo decadendo sotto tutti i punti di vista, siamo un paese da terzo mondo per libertà di opinione, per cultura, per informazione, per mala sanità, e chi più ne ha più ne metta.
Peccato, eravamo conquistatori del mondo, esportavamo cultura, ...
Ora siamo l'ombra di noi stessi e senza alcuna speranza di cambiamento. C.

i glicini di cetta at 15:17 Nessun commento:
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Prescrizione, la Camera rinvia in commissione la legge di Forza Italia che cancella la riforma Bonafede: i renziani non partecipano al voto.

Prescrizione, la Camera rinvia in commissione la legge di Forza Italia che cancella la riforma Bonafede: i renziani non partecipano al voto

A Montecitorio approvata con 72 voti di vantaggio la richiesta di Pd, M5s e Leu per rimandare in commissione la legge del berlusconiano Costa. Italia viva non vota. La deputata che attaccò Gratteri: “Sono del Pd ma voterò con Forza Italia per cancellare la riforma.

I renziani non partecipano al voto ma la maggioranza regge comunque. La Camera dei deputati ha rimandato in commissione Giustizia la proposta di legge presentata dal berlusconiano Enrico Costa. Una norma agitata da settimana come una spada di Damocle sulla tenuta del governo e che essenzialmente prevede la cancellazione della riforma Bonafede, cioè lo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. “Ci manca un ultimo miglio e un rinvio potrebbe darci la possibilità di percorrerlo. Sarà la cartina di tornasole per vedere se troveremo un accordo”, ha detto Federico Conte, deputato di Leu, chiedendo all’aula di rinviare la proposta ammazza riforma. Maggioranza avanti di 72 punti. Renziani non votano – Alla fine la richiesta di rinvio in commissione è passata con 72 voti di vantaggio. Nonostante al voto non abbiano partecipato i deputati di Italia viva. “Siamo disponibili al confronto nella maggioranza e apprezziamo l’apertura manifestata dal ministro Bonafede stamattina. Abbiamo presentato due emendamenti al Milleproroghe sull’abolizione dello stop alla prescrizione, che saranno esaminati tra una decina di giorni: useremo questo tempo per capire se si sta pensando a fare un lavoro serio per varare modifiche condivisibili”, ha detto in aula la deputata Lucia Annibali, capogruppo in commissione Giustizia di Italia viva. Anche il Senato ha approvato la risoluzione di maggioranza sulla relazione del ministro della Giustizia. Il via libera dall’Aula di Palazzo Madama è arrivato con 146 voti favorevoli, 109 contrari e due astenuti. Bocciata la risoluzione delle opposizioni. L’altra risoluzione, proposta dalle opposizioni e con parere negativo del governo, è stata bocciata con 147 no, 105 sì e due astenuti.
Il dibattito sul rinvio – “Noi non abbiamo cambiato idea perché consideriamo la legittima iniziativa di Costa come un tentativo di colpire la stabilità del Governo. Noi appoggiamo il rinvio in commissione perché è in corso un lavoro sui tempi dei processi”, ha detto in aula il responsabile giustizia Pd Walter Verini. Contrari al ritorno in commissione, ovviamente, i parlamentari di Forza Italia. “La proposta di legge in esame è in quota opposizione non si capisce infatti la richiesta, se non strumentale, di rimandarla in commissione. Non si possono nascondere le divisioni della maggioranza con un rinvio. Non è pensabile che questa proposta non venga esaminata e valutata, l’aula deve avere la possibilità di esprimersi”, ha detto la capogruppo dei berlusconiani, Maria Stella Gelmini. Con il rinvio di oggi, dunque, il dibattito sulla giustizia incassa un nuovo rinvio. Utile al governo per mettersi d’accordo sia sulla prescrizione che sulla riforma del processo. Quest’ultima è stata promossa, almeno a parole, dai rappresanti di Pd e Leu. La riforma Bonafede, che invece prevede lo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, non riesce a mettere d’accordo la maggioranza. Una mediazione era stata trovata dal premier Giuseppe Conte: in pratica consiste in due meccanismi diversi della prescrizione a seconda che gli imputati siano stati condannati o assolti alla fine del processo di primo grado. Ma anche in questo caso i renziani hanno fatto muro.

La deputata anti Gratteri: “Io Pd voterà con Forza Italia” – La giornata si era aperta con la maratona giudiziaria organizzata dai penalisti davanti Montecitorio. Molti i renziani presenti, ma anche qualche esponente del Pd. “Sono del Pd ma voterò a favore della proposta Costa“, ha detto la deputata dem Vincenza Bruno Bossio, intervenendo alla manifestazione dei penalisti italiani, in piazza Montecitorio, contro la riforma del guardasigilli Alfonso Bonafede dal titolo ‘Imputato per sempre? No grazie’. Una dichiarazione delicata quella di Bossio visto che nel frattempo, dentro alla Camera dei deputati è cominciata la discussione della proposta di legge presentata dal responsabile giustizia di Forza Italia, Enrico Costa che cancella la riforma della prescrizione. “La mia è una battaglia da cittadina ed anche all’interno del Pd che deve ritornare alle battaglie riformiste contro le subalternità. Io sono una per adesso all’interno del Partito democratico ma temo che in aula ce ne sono tanti altri. Vi dico: datemi una leva e vi solleveremo il mondo”.

La deputata che attaccò Gratteri – La parlamentare del Pd era finita al centro delle polemiche dopo l’ultimo maxi blitz di ‘ndrangheta della procura di Catanzaro, quando aveva attaccato su facebook il procuratore Nicola Gratteri. “Gratteri arresta metà Calabria. È giustizia? No è solo uno show! Colpire mille per non colpire nessuno. Anzi si. Colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi”, aveva scritto sui social, prima di cancellare il post e ricevere le critiche del suo partito, il Pd. Bossio, infatti, è la moglie di Nicola Adamo, altro esponente dem colpito da un divieto di dimora nell’inchiesta che il 19 dicembre ha portato agli arresti 330 persone. La posizione della Bossio lascia sospeso un interrogativo: ci saranno altri esponenti dem che intendono votare con Forza Italia? Al momento sembra di no. La maggioranza, tra l’altro, si è dimostrata compatta quando c’è stato da votare la risoluzione di maggioranza per l’approvazione della relazione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: è passata con 309 sì e 200 no.

I renziani con i penalisti – Anche i renziani hanno votato la risoluzione di maggioranza per l’approvazione Bonafede. Gli esponenti di Italia viva, però, hanno più volte spiegato di essere pronti a votare la legge Costa, e infatti hanno partecipato alla manifestazione dei penalisti davanti alla Camera. “Attendiamo rispettosi ma fermi una presa di opposizione definitiva del Partito democratico”, dice Gian Domenico Caiazza, presidente Unione camere penali intervenendo alla maratona oratoria a Piazza Montecitorio. Da dove lo stesso Enrico Costa ha chiesto il voto segreto: “In aula siamo convinti che la maggioranza si possa dividere e con i voti segreti si possa approvare la nostra proposta, ma sembra che la maggioranza voglia buttare la palla in tribuna facendo tornare il provvedimento in commissione. Non potranno comunque giocare a ping pong per sempre, prima o poi l’aula dovrà esprimersi”. “Quella sulla prescrizione è una battaglia di civiltà. Non facciamo un passo indietro”, ha detto Maria Elena Boschi dalla manifestazione dei penalisti in piazza Montecitorio. Giacomo Portas, indipendente che fa parte d’Italia viva, è arrivato a dire che “se oggi il voto sulla prescrizione venisse rinviato, il ministro Bonafede, se avesse un pò di dignità, si dovrebbe dimettere”.

Renzi: “Votiamo proposta Costa” – Lo stesso Matteo Renzi, in mattinata, ha annunciato il voto dei suoi per cancellare la riforma Bonafede, attaccando i 5 stelle a Radio Capital: “Non inseguire il giustizialismo sulla prescrizione o la follia di chiedere una revoca impossibile per Autostrade“. Ecco quindi la proposta di Renzi: “Anziché l’obbrobrio voluto da Bonafede e Salvini vogliamo il ritorno alla proposta Orlando, come propone l’ex ministro Costa. Spero che la voti anche il Pd“. Quindi annullare lo stop alla prescrizione dopo il primo grado, entrato in vigore il primo gennaio. In alternativa, Renzi propone il cosiddetto ‘lodo Annibali‘, dal nome della deputata di Iv che ha firmato l’emendamento al Milleproroghe, ovvero un rinvio della riforma Bonafede al prossimo anno. “Invece del lodo Conte o lodo Bonafede c’è il lodo Annibali, è nel Milleproroghe che tra dieci giorni si vota”, incalza Renzi.

La relazione di Bonafede – Nel frattempo il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha parlato proprio nell’Aula di Montecitorio, spiegando che “sulla prescrizione ci sono divergenze nella maggioranza e su quelle ci stiamo confrontando. Il cantiere è aperto, il confronto è serrato e leale”. Il ministro ha illustrato la relazione annuale sull’amministrazione della giustizia. Nel suo discorso ha definito la riforma del processo penale un “cantiere aperto” e ha deciso di non affrontare il nodo prescrizione. Il ministro ha parlato della nuova norma solo elencando i punti cardine della cosiddetta Spazzacorrotti: “E’ intervenuta – ha ricordato – in materia di lotta alla corruzione, inserendo l’agente sotto copertura tra gli strumenti investigativi, il Daspo ai corrotti, le norme in materia di trasparenza dei finanziamenti ai partiti, l’irrigidimento del regime detentivo dopo la condanna definitiva nonché un nuovo regime di prescrizione entrato in vigore il primo gennaio”. Nel suo discorso alla Camera invece Bonafede ha sottolineato gli “oltre otto miliardi e mezzo di euro” stanziati nel 2019 e i “quasi nove miliardi” previsti dalla manovra 2020 per l’amministrazione della giustizia. “La mole degli investimenti in questione dimostra concretamente che la giustizia non è più una voce ordinaria di bilancio, ma una vera e propria priorità dell’ordinamento nazionale”, ha detto il ministro. “La forte accelerazione al percorso già avviato sull’innovazione tecnologica ha gettato le fondamenta di una politica legislativa di sostanziale velocizzazione dei processi civili e penali e del sistema amministrativo generale”, ha poi sottolineato Bonafede esponendo le linee guida sulla giustizia in Aula alla Camera. “Una volta attivata l’implementazione degli investimenti – ha aggiunto – è stato possibile confrontarsi, all’interno della maggioranza, sulle riforme del processo civile e del processo penale, con l’obiettivo di intervenire in maniera chirurgica sui tempi morti e sulle disfunzioni del processo, senza dar vita all’ennesimo capitolo di una inutile e decennale stratificazione legislativa. Ritengo sia stato e debba continuare ad essere proprio questo l’elemento di massima discontinuità di questa maggioranza con quella con l’ha preceduta: la capacità di sapere affrontare le grandi riforme che consegneranno ai cittadini una giustizia celere ed efficiente“, ha detto il ministro.

Renzi fa muro anche su concessioni ad Autostrade – Mentre Bonafede parlava alla Camera, da Radio Capital arrivavano gli attacchi di Renzi: “Condivido totalmente per la prima volta da anni quel che dice Orlando. Quando dice (al governo e al M5s, ndr) ora si cambia passo io sono felicissimo, stappo una bottiglia di quello buono”, ha detto il leader di Italia Viva. “M5s vive una fase di profonda difficoltà, secondo me il loro è un declino inesorabile – ha aggiunto – ma non credo che i parlamentari vogliano far finire questa legislatura perché il Parlamento non lo rivedono più. Bisogna rispettare i loro numeri alle Camere, ma non ci inchiniamo alla cultura populista e demagogica“. Oltre a chiedere una marcia indietro sulla prescrizione, Renzi ha criticato anche la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, su cui il governo è al lavoro dopo il crollo del Ponte Morandi. “Devono pagare quelli di Autostrade e tanto, ma no a una revoca che giuridicamente non sta né in cielo né in terra”, ha detto Renzi a Circo Massimo. Nella sua agenda “riformista” ha inserito tra le altre cose “cantieri per 120 miliardi da aprire e semplificazione totale della pubblica amministrazione attraverso la digitalizzazione“. Il leader di Italia Viva è convinto infatti che la vittoria alle urne in Emilia-Romagna abbia “il nome e il cognome” di Stefano Bonaccini, un renziano. E ha annunciato anche le sue liste per le prossime regionali: “Ci presenteremo con il nostro simbolo in Toscana sostenendo con grande convinzione Eugenio Giani candidato del centrosinistra, in Puglia invece non andremo con il centrosinistra se avrà come candidato Emiliano. Speriamo ci sia un bel candidato in Liguria, che è una partita recuperabile”.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/01/28/prescrizione-la-camera-rinvia-in-commissione-la-legge-di-forza-italia-che-cancella-la-riforma-bonafede-i-renziani-non-partecipano-al-voto/5687390/?fbclid=IwAR0IskeSxi3LKooDE1O8JY8u4ZKrPial5AoKURpIsb8KFsUUuxJmJlrTJpA
i glicini di cetta at 14:21 Nessun commento:
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‘Ndrangheta, “se vi dico che ho problemi, domani sono morto”: nelle parole ai pm la paura degli imprenditori. Poi la scelta di denunciare. - Lucio Musolino

‘Ndrangheta, “se vi dico che ho problemi, domani sono morto”: nelle parole ai pm la paura degli imprenditori. Poi la scelta di denunciare

Ci sono anche le storie delle vittime sotto scacco del clan Labate nell'operazione “Helianthus”, della procura di Reggio Calabria. Al centro dell'inchiesta c'è la cosca che decideva ogni cosa al Gebbione, il quartiere di Reggio tra il torrente Sant’Agata e il torrente Calopinace. Prima davanti ai magistrati facevano resistenza, terrorizzate "al solo pensiero di dover pronunciare” il nome del boss. Poi hanno raccontato con le lacrime agli occhi le estorsioni subite. Il gip: "Dopo anni di omertoso silenzio, hanno finalmente deciso di rialzare la testa e di ribellarsi all’imposizione mafiosa.”
“Dottore, se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto!”. E poi: “Dottore, vedete che poi non torniamo più a casa“. E ancora: “Se vi dico che non torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. Piangevano, davanti ai pm raccontavano con le lacrime agli occhi che quel nome, il nome del boss al quale dovevano chiedere il permesso per lavorare, loro non avevano intenzione di farlo. “Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi, non hanno niente da perdere”. “Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”. Alla fine, però, hanno trovato il coraggio di denunciare. E raccontare ai magistrati anni di minacce, estorsioni e taglieggiamenti. “L’impresa viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere. Questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata“. L’alternativa? “La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita”. Ci sono anche le storie degli imprenditori sotto scacco della ‘ndrangheta nell’operazione “Helianthus”, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e dai pm Stefano Musolino e Walter Ignazitto. Al centro dell’inchiesta c’è la cosca Labate: 14 gli arrestati citati nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip Pasquale Laganà e notificata in carcere al boss Pietro Labate. Con l’accusa di associazione mafiosa ed estorsione, la squadra mobile ha arrestato pure Orazio Assumma, il braccio destro del boss che decideva ogni cosa al Gebbione, il quartiere di Reggio tra il torrente Sant’Agata e il torrente Calopinace.
L’inchiesta contro i “Ti mangio” – Le porte del carcere si sono spalancate pure per il cognato del boss, Rocco Cassone, Santo Gambello, Antonio Galante, Caterina Cinzia Candido, Francesco Marcellino, Fabio Morabito, Domenico Foti e Domenico Pratesi. In manette sono finite anche le nuove leve dei “Ti Mangiu”: i due omonimi Paolo Labate, di 38 e 36 anni, cugini e figli rispettivamente di Pietro e Nino Labate. Nei confronti di quest’ultimo, che si trova ricoverato in una struttura sanitaria, il gip ha disposto gli arresti domiciliari, così come per Santo Antonio Minuto detto “U Ceduzzu”. Ritenuto vicino alla cosca, Minuto gestisce una pescheria ed è accusato di essersi rivolto a Fabio Morabito e a Nino Labate per impedire a due fratelli di aprire un’altra pescheria nelle vicinanze. L’inchiesta Secondo il gip Pasquale Laganà, gli imprenditori che hanno denunciato il boss, “dopo anni di omertoso silenzio, hanno finalmente deciso di rialzare la testa e di ribellarsi all’imposizione mafiosa”. Durante la conferenza stampa, il procuratore Bombardieri non ha dubbi: “Gli imprenditori hanno dimostrato di voler fare questo salto di qualità e denunciare le cosche. Devono sapere che noi ci siamo e lo Stato c’è”. Nelle carte dell’inchiesta si riassume il percorso che ha portano molti di loro a ribellarsi al pizzo.
L’estorsione: “Sei uno scostumato” – È il 25 ottobre 2019 quando ai pm Musolino e Ignazitto l’imprenditore Francesco Presto racconta, con le lacrime agli occhi, la visita ricevuta dal boss Pietro Labate e dal suo uomo di fiducia, Orazio Assuma. “Sei uno scostumato” si è sentito dire dal boss e dal suo luogotenente che un giorno si erano presentati al cantiere dove la sua azienda edile stava costruendo un complesso immobiliare nel quartiere Gebbione, considerato il feudo dei “Ti mangiu”, come sono soprannominati i Labate. “Mi hanno rimproverato, mi hanno preso a male parole – ha spiegato Presto – mi hanno detto che sono andato a casa loro, che prima che andavo là gli dovevo chiedere il permesso, che sono scostumato, avete capito che mi hanno detto? Perché uno gli deve chiedere pure il permesso per lavorare, avete capito? Siamo in queste condizioni, avete capito? Che gli dovevo chiedere il permesso…che il lavoro era loro, che dovevano farlo loro, che loro si erano accaparrati il lavoro da prima… gli ho detto io ‘Ma scusate io vi sto offrendo il lavoro?’ dice ‘No tu stai zitto! Sei uno scostumato!… dice che gli dovevo dare 200mila euro ‘se fate il lavoro e se non lo fate’”.
L’imprenditore ai pm: “Vi affido la mia famiglia” – Prima di raccontare ai pm le angherie subite, l’imprenditore fa qualche resistenza. Ha paura di essere ucciso, teme per i suoi parenti, piange e lo dice senza mezzi termini. Le sue parole sono la “dimostrazione plastica” del terrore che i Labate provocano nella zona sud di Reggio Calabria: “Dottore ma se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto! Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi dottore, non hanno niente da perdere… vedete che non torniamo più a casa! Se vi dico che non torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. La Procura insiste e Presto, prima di parlare, si rivolge ai magistrati con una richiesta: “Vi affido la mia famiglia”. Per i pm, Francesco Presto è “letteralmente terrorizzato al solo pensiero di dover pronunciare” il nome del boss. Il pm Musolino lo convince a fidarsi: “Non vi preoccupate, state tranquillo, ditemi tutto quello che dovete dire, la libertà vera vi viene da questa cosa qua e vi garantisco che lo potete fare. Non vi preoccupate, ce le sappiano gestire, vogliamo che restate a Reggio e che lavorate a Reggio Calabria”.
“Non ho dormito per mesi” – Solo dopo essere stato tranquillizzato dal sostituto della Dda, l’imprenditore capisce che è arrivato il momento di alzare la testa e spiega ai pm cosa è successo nel suo cantiere quando sono iniziati i lavori per il complesso residenziale. Un giorno all’improvviso da un garage è spuntato il boss Pietro Labate. “Forse era pure latitante, non ricordo, ho avuto paura… sono rimasto. – racconta l’imprenditore costretto a pagare il pizzo – Dottore io non ho dormito per mesi, non è una cosa che uno può accettare però non avevo altre cose da fare, il cantiere era iniziato… Ma come si torna indietro? Come si torna indietro? Che devo fare? E ho dovuto pagarli, dargli i soldi… veniva il signor Assumma a prenderseli… sempre lui, anzi il signor Labate mi ha detto che glieli dovevo dare solo a lui”.
“Così funziona il pizzo a Reggio Calabria” – Le minacce sono sempre le stesse, e vengono registrate dalle cimici della squadra mobile di Reggio Calabria, diretta da Francesco Rattà: “Tu come fai, come ti permetti”. “Qua mi devi dare conto… qua non ne fai né tu e neanche il padre eterno”. Le carte dell’inchiesta raccontano come il clan controllasse un pezzo di città: per muovere un mattone, aprire un negozio o semplicemente respirare, nel quartiere Gebbione serviva quello che i pm definiscono il “nulla osta” dei Labate. I “Ti mangiu” lo hanno preteso anche dall’imprenditore Francesco Berna, coinvolto l’estate scorsa nell’operazione Libro nero contro la cosca Libri. Ai pm, Berna ha raccontato come “Vecchia Romagna”, il soprannome di Domenico Foti, ha costretto lui e il suo socio, l’imprenditore Francesco Siclari, “a pagare a titolo di “pizzo” la somma di 20mila euro” per i lavori di un complesso immobiliare ricadente nella zona di influenza dei Labate. “L’impresa – fa mettere Berna a verbale – viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere… cioè questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata, cioè non esiste, può esistere il piccolo lavoretto che non… va sotto… che passa sotto traccia, nel senso che nessuno si avvicina… ma se si tratta di cantieri dove ci sono fabbricati da realizzare o lavori pubblici da fare, difficilmente in pratica uno riesce a scappare al tentativo di estorsione, all’estorsione vera e propria… La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita. Dipende dai rapporti che ci sono con i soggetti… chi è il soggetto che ti viene davanti, no? E si presenta”.
“La mattina ho paura a uscire di casa” – Convocato in Procura, l’imprenditore Francesco Siclari dice di non aver mai ricevuto richieste di denaro da parte dei Labate. Come Presto, anche lui ha paura e, in un primo momento, nega quanto dichiarato dal suo socio Francesco Berna. Poi però si fa coraggio e, ai due pm che lo interrogano, racconta come sono andate le cose: “Un giorno dice Francesco (Berna, ndr) ‘sai qua sicuramente saremo costretti a pagare un caffè’”. Il realtà, il “caffè” era il pizzo preteso dai Labate. Come ha spiegato il responsabile della sezione Reati contro il patrimonio della squadra mobile Giuseppe Izzo, i “Ti Mangiu erano in grado di costringere chiunque a consegnare loro il denaro”. “Abbiamo dato 20mila euro… io ho un nodo qua dottore. La pretesa era più alta…era 30mila euro… Dal 31 luglio ad oggi, tremo… io la mattina ho paura di uscire di casa. Prima che esco mi affaccio dal balcone, guardo la macchina, mi sveglio di notte e tutta una serie di cose perché ho pensato ‘ora questi da chi vengono?’ Da me. Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/01/30/ndrangheta-se-vi-dico-che-ho-problemi-domani-sono-morto-nelle-parole-ai-pm-la-paura-degli-imprenditori-poi-la-scelta-di-denunciare/5689235/?fbclid=IwAR0XXwQWAXtK588YIOLn-apRQVulV7vu5Fz-JVzX2lDgbyDSHvwtE_ccaaQ
i glicini di cetta at 13:59 Nessun commento:
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Caso Foodora: la Cassazione difende i rider, la politica i loro padroni. - Alessandro Somma



Dopo tre anni di battaglia legale, i rider di Foodora ottengono finalmente giustizia: sono lavoratori subordinati, e non autonomi come vuole la piattaforma. Si tratta di una vittoria significativa, di un segnale importante per il capitalismo digitale e per la voracità con cui punta allo sfruttamento del lavoro. È però un segnale debole, perché al coraggio dei giudici corrisponde l’inadeguatezza della politica, se non la sua complicità con i nuovi padroni, a beneficio dei quali ha edificato e presidiato il quadro delle regole entro cui hanno potuto prosperare. Regole che si avviano a divenire il punto di riferimento per una complessiva riforma del lavoro sempre più ridotto a merce.

Il coraggio dei giudici.
Nel 2017 alcuni fattorini addetti alla consegna di pasti, i cosiddetti rider, chiedono al Tribunale di Torino di riconoscere la loro condizione di lavoratori subordinati. Foodora, il loro datore di lavoro, sostiene però che i rider sono lavoratori autonomi in quanto per le consegne non utilizzano mezzi messi a disposizione dall’impresa: la bicicletta e lo smartphone sono di loro proprietà. Inoltre non hanno alcun obbligo contrattuale di rispondere alle chiamate: sono come i Pony Express degli anni Novanta[1], che la Corte di Cassazione aveva negato fossero lavoratori subordinati facendo leva proprio su questo aspetto[2].

Il Tribunale decide a favore di Foodora[3], motivo per cui i rider impugnano davanti alla Corte d’appello di Torino, che accoglie in parte le loro richieste. I giudici non riconoscono i rider come lavoratori subordinati, in quanto manca tra essi e il loro datore una relazione di “potere gerarchico disciplinare”, e tuttavia non ritengono che essi siano pienamente lavoratori autonomi. Appartengono a un terzo genere, quello dei lavoratori autonomi “etero-organizzati”, a cui un recente provvedimento riserva un trattamento particolare in quanto, pur non essendo subordinati, neppure sono liberi da condizionamenti: forniscono “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. A queste condizioni, stabilisce il provvedimento, “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”[4]. Non però tutta la disciplina, ma solo alcuni aspetti comunque importanti: secondo i giudici l’estensione non vale per le norme sul licenziamento, mentre vale per quelle su “sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza”. Il che porta nel nostro caso ad applicare i livelli salariali previsti dal Contratto collettivo nazionale della logistica[5].

La decisione d’appello viene impugnata da Foodinho, che nel frattempo ha acquisito Foodora[6] e si rivolge alla Corte di Cassazione chiedendo di decidere nel senso già indicato dal Tribunale di Torino. La Corte ha appena reso la sua decisione, vien da dire a soli due anni e mezzo dal ricorso che ha originato il primo grado di giudizio, accogliendo le richieste dei rider ben oltre quanto aveva fatto la Corte d’appello di Torino.

I giudici di legittimità hanno innanzi tutto inquadrato la filosofia di fondo che ispira i più recenti interventi in materia di lavoro alla luce delle recenti “innovazioni tecnologiche”. Hanno per un verso evidenziato un favore per l’estensione del contratto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato come “forma contrattuale comune”[7], e per un altro rilevato la tendenza a colpire gli abusi di chi punta a impedire il riconoscimento della subordinazione ricorrendo a espedienti: ad esempio far apparire autonomo il lavoratore comunque qualificato che subisce “l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione”.

Più precisamente i giudici distinguono tra “autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto”, ovvero la loro libertà di rispondere o meno alle chiamate, e autonomia nella “fase funzionale di esecuzione del rapporto”, ovvero nel momento in cui hanno accettato la chiamata. E proprio di questa seconda autonomia non si trova traccia nell’attività dei rider, che sono tenuti a pagare una penale se non consegnano il cibo entro un termine definito, e che sono inoltre obbligati ad assolvere a compiti specifici: come sostare in punti prestabiliti per attendere gli ordini, controllare la corrispondenza tra l’ordine ricevuto e il cibo ritirato dal ristorante e notificare l’avvenuta consegna. A queste condizioni il rapporto di lavoro del rider non può considerarsi di un tipo intermedio tra l’autonomo e il subordinato: è direttamente subordinato perché presenta le caratteristiche che il legislatore ha inteso valorizzare “in una prospettiva anti-elusiva”, ovvero per colpire le condotte dei datori di lavoro intenzionati ad aggirare le tutele ricondotte al vincolo di subordinazione. Con il risultato che ai rider non si applicano solo alcune disposizioni in materia di lavoro subordinato: essi beneficiano “della disciplina integrale del lavoro subordinato”[8].

L’inadeguatezza della politica

Le argomentazioni della Corte di Cassazione appaiono decisamente forzate laddove identificano una volontà del legislatore di tutelare il lavoro subordinato a tempo indeterminato, se non altro perché la ricavano dal Jobs Act: non certo un baluardo per la tutela dei lavoratori. La forzatura è però un espediente retorico utile a produrre un risultato di tutto rispetto dal punto di vista di chi vuole contrastare l’attacco al lavoro che caratterizza le politiche degli ultimi decenni. E che ha visto proprio nel Jobs Act un simbolo dell’attuale involuzione, ben rappresentato dalla sostanziale abolizione della reintegra dei lavoratori licenziati senza giusta causa: come un tempo previsto dal celeberrimo art. 18 Statuto dei lavoratori.

Il tutto mentre si è oramai affermato quanto viene definito in termini di capitalismo delle piattaforme: il capitalismo potenziato dall’utilizzo delle tecnologie digitali, nel quale la piattaforma si manifesta come nuova forma di impresa e i suoi dipendenti come i nuovi sfruttati. Mettendo così in luce la sostanza di quanto viene rappresentato come la marcia verso un radioso futuro di progresso: in realtà una rovinosa regressione verso un ordine economico e un mercato del lavoro di tipo ottocentesco[9].

Sarebbe in effetti bastato concentrarsi sull’uso delle tecnologie da parte delle piattaforme per far emergere il lavoro dei rider come un lavoro di tipo subordinato, oltretutto con caratteristiche se possibile più marcate di quelle che caratterizzano la tradizionale relazione di lavoro. Si sa infatti che le piattaforme utilizzano algoritmi per gestire ogni singolo aspetto del servizio offerto, inclusi evidentemente i rapporti con i rider. Con il risultato che questi possono formalmente rifiutare le chiamate, ma di fatto la scelta se e quando farli lavorare dipende dalla loro incondizionata disponibilità al servizio, oltre che dalla velocità di esecuzione e magari dalle valutazioni dei clienti, verificate attraverso un penetrante sistema di controllo: tanto da ritenerlo un vero e proprio taylorismo digitale[10].

Se così stanno le cose, la politica dovrebbe intervenire per incidere in profondità sul modo di intendere e disciplinare il lavoro, per restituirgli la funzione attribuitagli dalla Costituzione. Lì rappresenta il fondamento del patto di cittadinanza, per cui attraverso il lavoro si assolve al dovere di “svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4), e si ottiene in cambio una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36), oltre al “pacco standard di beni e servizi il cui possesso” rende il lavoratore “un cittadino nella pienezza delle sue prerogative”[11].

Invece la politica rincorre le trasformazioni del capitalismo, spesso per assecondarle e più raramente per contrastarle con provvedimenti del tutto inadeguati alla sfida posta del mercato e dai suoi operatori affamati di profitto: in parte perché non incidono in modo significativo sul fenomeno che intendono disciplinare, e in parte perché giungono di norma fuori tempo massimo. Per non dire dei casi in cui si annunciano con grande enfasi provvedimenti destinati a restituire dignità al lavoro, riposti però nel cassetto dopo aver constatato la contrarietà delle imprese, e deciso di non fare nulla per opporvisi. Come nella vicenda del cosiddetto decreto dignità voluto dall’allora Ministro del lavoro Luigi di Maio, che in un primo momento comprendeva una disposizione di questo tenore: è lavoratore subordinato “chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore, pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione di un orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta, se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato della prestazione e se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia la propria ma del datore di lavoro”[12].

Recentemente il legislatore ha invece inteso allineare la disciplina del lavoro a quanto stabilito dalla Corte d’appello di Torino, escludendo così la possibilità di considerare i rider lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Un provvedimento ha in effetti ampliato le ipotesi in cui si estende al lavoro autonomo la disciplina del lavoro subordinato, definite con esplicito riferimento al lavoro digitale, ovvero ai casi in cui “le modalità di esecuzione della prestazione” lavorativa “siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”. Come sappiamo, l’estensione riguardava prima “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Ora le prestazioni di lavoro devono essere solo “prevalentemente personali” e inoltre non si fa più riferimento alla necessità che il lavoro sia etero-organizzato con specifico riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro[13]. Da rilevare che qui si intende il lavoro digitale in genere e quindi non solo quello svolto dai rider, ma che l’equiparazione non coinvolge la tutela in caso di licenziamento, e ovviamente la garanzia delle libertà sindacali e del diritto di sciopero.

Lo stesso provvedimento si è poi occupato di “lavoro tramite piattaforme digitali” nei casi in cui non ricorrono gli estremi per la parziale estensione della disciplina del lavoro subordinato. Qui non ci si rivolge però ai lavoratori delle piattaforme in genere, bensì solo ai “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore” assimilati: i soli rider. A questi ultimi si riconoscono alcune prerogative importanti, come il diritto alla “copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” e il divieto di retribuzione a cottimo: i rider “non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”[14].

La complicità della politica.
Si dirà che queste misure sono forse inadeguate e destinate a incidere su una frazione minima del mondo del lavoro sconvolto dalla digitalizzazione, ma che comunque vanno nella direzione giusta: preludono a un possibile cambio di rotta. Sono però misure che necessitano sovente di numerosi interventi per renderle efficaci o addirittura applicabili: come nel caso delle tutele assicurative, che richiedono ulteriori precisazioni per poter finalmente incidere sulla vita dei rider.

Il punto però è un altro. Quella digitale si presenta come una tipologia di lavoro sottoposta a forme di controllo particolarmente penetranti, in quanto tale chiaramente rientrante nello schema della subordinazione. Evitare di riconoscerlo significa impedire l’attivazione delle tutele accordate ai tradizionali rapporti di lavoro: le tutele individuali, quelle previste in caso di licenziamento in testa, ma anche e soprattutto quelle collettive. Il mancato riconoscimento della subordinazione impedisce cioè ai lavoratori digitali di accedere all’organizzazione e alla lotta sindacale, contribuendo così a mantenerli in uno stato di cronico e irrimediabile isolamento di fronte al mercato. A condannarli a reagire in modo automatico agli stimoli di questo: a subire la legge del libero incontro di domanda e offerta di lavoro, senza poter opporre alla logica della concorrenza quella della giustizia sociale.

Il lavoro digitale senza il riconoscimento della subordinazione è insomma un lavoro spoliticizzato, incapace di alimentare il conflitto redistributivo, plasmato a immagine e somiglianza di un ordine economico che degrada l’inclusione sociale a inclusione nel mercato. Un lavoro elevato a punto di riferimento per il complesso delle riforme che non riguardano i soli settori più direttamente interessati dallo sviluppo tecnologico: la miseria del lavoro digitale simboleggia e anticipa la miseria del lavoro in una società nella quale il circuito della politica si è condannato ad assecondare i desiderata provenienti dal circuito dell’economia. Una società plasmata da leggi dello Stato ricalcate sulle leggi del mercato, spesso ottenute con il ricorso alla violenza e all’illegalità, come ampiamente documentato dalle vicende che hanno riguardato il settore del trasporto pubblico non di linea sconvolto dalle pratiche della piattaforma Uber[15].

Il tutto mentre il ricatto occupazionale viene incentivato anche dalla libera circolazione dei fattori produttivi, vero e proprio mantra posto a fondamento dell’ordine economico. È la libera circolazione dei capitali a rappresentare il rischio maggiore, dal momento che consente e anzi incentiva aperture e chiusure di imprese in funzione di quanto viene loro di volta in volta offerto dagli Stati. I quali alimentano così la spirale perversa di una competizione al ribasso tra chi attira più investitori abbassando i salari e le tutele del lavoro, oltre alla pressione fiscale sulle imprese, quest’ultima alla base del crescente ridimensionamento dei sistemi di welfare.

Per non dire poi della complicità che la politica mostra nel momento in cui asseconda le privatizzazioni e le liberalizzazioni, magari sul presupposto che in questo modo viene incrementata la concorrenza e con essa la qualità ed efficienza dei beni e dei servizi a beneficio dei consumatori. La concorrenza passa però dalla precarizzazione e svalutazione del lavoro e non anche dall’innovazione tecnologica, utilizzata semmai per moltiplicare i profitti delle imprese. Oppure per alimentare un’altra spirale perversa: quella per cui occorre abbattere il costo di beni e servizi per renderli accessibili a consumatori che sono allo stesso tempo lavoratori sempre più precari e impoveriti.

Insomma, il problema della politica non è solo l’inadeguatezza degli interventi volti a fronteggiare le trasformazioni del capitalismo, e a monte a comprenderli nella loro reale portata. Il problema della politica è la sua complicità con i nuovi volti del capitalismo, il costante allineamento alle sue mutevoli necessità, segno di uno Stato che ha deciso di stare dalla sua parte e di sacrificare il lavoro sull’altare di questa scelta di campo. Da questo punto di vista la decisione della Cassazione con cui si è riconosciuto al lavoro dei rider il carattere della subordinazione, è un notevole contributo a riaffermare le ragioni del lavoro. Resta però una goccia nel mare e quindi un contributo irrilevante se la politica non muterà rotta: se non lo farà subito, e se non lo farà in modo radicale.

NOTE

[1] V. S. Bonetto, Il caso Foodora, in A. Somma (a cura di), Lavoro alla spina e welfare à la carte. Lavoro e Stato sociale ai tempi della gig economy, Milano, 2019, p. 131 ss. Sergio Bonetto, assieme a Giulia Druetta, è l’avvocato che ha difeso i rider Foodora in tutti e tre i gradi di giudizio.

[2] Corte di Cassazione, 20 gennaio 2011 n. 1238.

[3] Tribunale di Torino, 7 maggio 2018 n. 778.

[4] Art. 2 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81.

[5] Corte d’appello di Torino, 4 febbraio 2019 n. 26.

[6] Foodinho è stata poi ceduta a Gloovo.

[7] Formula utilizzata dall’art. 1 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81.

[8] Corte di Cassazione, 24 gennaio 2020 n. 1663.

[9] A. Somma, Il diritto del lavoro dopo i Trenta gloriosi, in Lavoro e diritto, 2018, pp. 307 ss.

[10] S. Bellucci, E-Work. Lavoro, rete, innovazione, Roma, 2005.

[11] U. Romagnoli, Autonomia e subordinazione del diritto del lavoro, in Lavoro e dritto, 2016, p. 568.

[12] Disposizione ovviamente scomparsa dal testo approvato: decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, convertito con modificazioni nella legge 9 agosto 2018 n. 96.

[13] Art. 1 decreto legge 3 settembre 2019, n. 101 così come convertito nella legge 2 novembre 2019 n. 128.

[14] Ibidem.


[15] E. Mostacci e A. Somma, Il caso Uber. La sharing economy nel confronto tra common law e civil law, Milano, 2016.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/caso-foodora-la-cassazione-difende-i-rider-la-politica-i-loro-padroni/

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La politica va rinnovata, se non buttiamo fuori dal parlamento quella pletora di fancazzisti ignoranti, arroganti e corrotti, non avremo ciò che ci spetta di diritto, perchè è bene che si sappia: senza di noi il paese va in bancarotta, siamo noi a mantenere l'impalcatura, loro, i politi, sono solo dannose sanguisughe. C.
i glicini di cetta at 13:27 Nessun commento:
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