Un anno fa, ad aprile, Milano era il Salone del mobile, la mostra di fiori sui Navigli, le maratone che tagliavano la città, lo Yogafestival a Citylife, il Gran Ballo di Primavera alla Balera dell’Ortica. C’erano il Rum Festival, il Miart, Tommaso Paradiso che cantava “Felicità puttana” al Forum. Era la Milano dell’immaginario comune, la città in cui le cose succedono, l’Europa è più vicina, il nuovo arriva prima. Era “la città in cui si vive meglio” secondo una classifica di quei giornali che misurano il benessere coi numeri. Beppe Sala, sindaco moderno e benvoluto, posava su una copertina di Style con il Duomo sullo sfondo e il titolo “Città aperta”. Una profezia sbagliata. Del resto, perfino gli scienziati, neanche un anno dopo, si sono rivelati indovini fallibili.
Milano, poi, non è la città delle Cassandre. Qui il domani è un grattacielo nuovo, il quartiere riqualificato, le Olimpiadi invernali. Un anno dopo, Milano è una città che si guarda sulle pareti specchiate del Palazzo Unicredit e non sa più chi è. Malconcia e incredula, la città che mastica il futuro, che farà, che sarà, che non si ferma, si trova per la prima volta a maneggiare ciò che non conosce: il presente. In una narrazione capovolta, per giunta, in cui restano le fotografie di chi dalla “città delle occasioni” è scappato sul primo treno. O sul primo jet. La narrazione capovolta della città che trainava il resto dell’Italia e che ora ne è la zavorra.
Roccaforte del virus, Milano è la città che per ultima uscirà dalla paura dei contagi. E non è detto che gli altri, quelli che ormai i contagi li hanno azzerati o quasi, la aspetteranno. Cosa è successo? Cosa succede a Milano? Succede che la coda dei contagi è lunga perché Milano – almeno un po’ – poteva farcela. Il virus le è girato intorno per settimane, ha aggredito prima il basso lodigiano, la Val Seriana, Brescia, Bergamo. Era chiaro che Milano non potesse godere di una immunità miracolosa, ma era altrettanto chiaro che con un contenimento efficace, si sarebbero potuti limitare i danni.
Si poteva giocare con un anticipo di quasi un mese, e invece no. Anziché dall’onda anomala che si frange senza lasciare scampo, Milano è rimasta sommersa dall’onda lunga. Il sorpasso dei contagi rispetto alla città di Bergamo con le sue bare portate via dall’esercito è avvenuto il 30 marzo. Un mese e 8 giorni dopo il paziente 1 di Codogno. Una vita, durante un’epidemia. Vuol dire che in quei 40 giorni, per tirare su il ponte levatoio, ci si è messo troppo. Vuol dire che di Milano non si sono comprese le fragilità, forse distratti dalle narrazioni sulla città performante (aggettivo osceno, molto milanese, che non a caso arriva dal linguaggio finanziario), dall’idea radicata che la sanità nel capoluogo lombardo fosse il meglio che si potesse chiedere.
A Milano, del resto, ci sono i grandi ospedali pubblici, i gruppi privati più stimati, con all’interno Facoltà di Medicina e poli didattici di università. Ci sono le eccellenze, i luminari, gli esperti, i reparti. Ci sono decine e decine di Rsa, alcune delle quali, come gli ospedali, sono una sorta di città nelle città. Migliaia di pazienti, di dipendenti, di operatori sanitari, di addetti alle pulizie e di parenti che da lì entrano ed escono tutti i giorni. E poi le case di riposo. Piene e numerose, perché qui a Milano i figli sono pochi, gli anziani sono tanti e gli stipendi sono alti.
Non esiste neppure un censimento attendibile delle case di riposo e delle Rsa a Milano. Una specie di giungla urbana invisibile, in cui il Coronavirus ha trovato il suo parco giochi. Qui stava la fragilità di Milano. Qui andavano alzate le barricate. È l’ultima flebo, più che l’ultimo aperitivo, ad aver esposto mortalmente la città. Mentre noi fotografavamo gli ultimi irresponsabili sui Navigli o in Sempione nel weekend del 6 marzo, il virus passava di letto in letto e poi dallo stetoscopio del medico giovane al vecchietto della stanza 5, dal laccio emostatico sul braccio della ragazza immunodepressa all’infermiera del piano terra, dal pigiama della signora in cardiologia allo sfigmomanometro della dottoressa che quest’anno se ne va in pensione. E che, prima di dimettere il ragazzino del reparto all’ultimo piano, ha stretto la mano a quei genitori simpatici, che la chiamavano a tutte le ore.
Il virus entrava nelle case di riposo con i figli delle domenica, viaggiava tra coperte, vassoi di paste, baci e termometri. E poi, con loro, tornava a casa. I parenti e il personale ospedaliero, chi amava e chi curava, è stato l’inconsapevole traghettatore della malattia. Andava difesa, Milano, con quel prezioso anticipo che ha avuto. Bisognava iniziare a usarli con serietà, quei numeri snocciolati a caso nei bollettini di Gallera. Contare pazienti, dipendenti di ospedali, Rsa, case di riposo e avere paura. Prevedere. Schivare il più possibile. Pretendere report dettagliati, trasparenti da tutti.
È anche l’assenza di paura che ha fregato questa città. È la sfrontatezza fessa, perennemente stampata sulla faccia di Gallera. È l’arrogante debolezza di chi non convive con l’idea che si possa perdere. Quella paura che forse ha salvato il Sud. E poi gli interessi. Tante, troppe Rsa hanno taciuto, perché se avessero parlato avrebbero dovuto chiudere. Idem troppe case di riposo, che hanno privato figli e nipoti di informazioni importanti, che hanno atteso settimane prima di ammettere il disastro. I tamponi al personale si sono fatti poco o per niente ovunque, perché va detta una verità semplice, impronunciabile: meglio un medico, un infermiere malato che un reparto senza più personale.
Non si sono tamponati i cittadini, ma si è tamponato il disastro con la propaganda, con l’ospedale di plastica dorata da inaugurare a favore di telecamera, con le colpe da attribuire ai milanesi a giorni alterni. Quelli in cui i numeri erano pessimi “i milanesi vanno troppo in giro, la app dice che ci sono troppi movimenti sospetti dopo le 23”, quelli in cui erano migliori “bravi i milanesi, i vostri sacrifici sono premiati”. Nessuno, intanto, che dica la verità: a Milano si muore ancora tanto perché il virus è entrato dove ha trovato i bersagli più fragili. Tant’è che le terapie intensive, nonostante i morti siano sempre tanti, si stanno svuotando: è perché il novantenne in casa di riposo non lo intuba nessuno. Muore lì.
Non è stato il runner, il colpevole. È nell’abbandono a cui è stata destinata questa città, la colpa di questa dolorosa coda finale. Una città che oggi, 15 aprile, conta 15.000 contagiati contro gli 11.000 di Brescia e i 10.000 di Bergamo, e lo dico sapendo quanto poco valgano i numeri in questa farsa tragicomica di bollettini inaffidabili. Saremo gli ultimi, qui a Milano, ad uscirne. E ne usciremo più tardi, senza aver sfruttato il tempo e l’esperienza maturata nelle settimane che hanno preceduto l’onda lunga. Ne usciremo perché siamo stati in casa. Perché i virus, senza essere portati in giro dall’ospite, non vanno da nessuna parte. Ne usciremo perché abbiamo avuto rispetto e abbiamo avuto paura. Ne usciremo in un cimitero di morti e di morti viventi. Di sopravvissuti che sono stati abbandonati, di malati in casa che si sono auto-imposti quarantene e hanno messo un piede fuori senza sapere se erano ancora positivi. Di famiglie intere che si sono infettate perché “a Milano requisiremo hotel e strutture per isolare gli infetti” e invece balle. Ne usciremo per ultimi, sfiniti e affranti, con la sensazione che qualcosa – almeno qualcosa- qui si sarebbe potuto salvare. Si poteva proteggere. Si poteva risparmiare.
Ne usciremo con una narrazione nuova, da inventare. O forse, per un po’, finalmente senza narrazioni. E no, non basta comprare pagine di giornale per riscrivere la storia di questa primavera. Dovremo rinunciare agli slogan fighetti, all’utilizzo compulsivo di quel verbo insopportabile, “ripartire”, perché non partiremo, non correremo. Dovremo, come prima cosa, imparare a usare di nuovo le gambe. Dovremo coprirci gli occhi perché il sole ci farà male. Dovremo fare i conti con i nostri debiti e con le nostre paure, andare a trovare i nostri morti, tornare a sorridere, sotto la mascherina, ai vicini che torneranno dalle case al sud e dalle ville in montagna.
Lavoreremo in un modo nuovo, stupendoci – forse – di quanto Milano possa offrire a se stessa, prima ancora che agli altri. E quando torneremo a votare, dovremo ricordare tutto, dovremo conservare la memoria primitiva del dolore del fuoco che brucia il dito, la prima volta. Ci racconteranno, tra un po’, che abbiamo vinto. Non abbiamo vinto nulla, qui a Milano. E non dovremo permettere a nessuno di costruire carri del vincitore in dieci giorni, con le immagini in time-laps da pubblicare sui social. Dovremo tornare ad imparare e a correggere, perché forse avevamo smesso.
Dovremo tornare al presente e a guardare ciò che è davanti a noi, perché prima di “ripartire” c’è da sistemare. Non dovremo tornare quelli di prima. Dovremo tornare migliori. Perché Milano ha perso. E dovremo prenderci cura di lei. Mi piacerebbe che si ricominciasse, in questa meravigliosa città, con il tono lucido, rigoroso, sobrio di chi tornò, appunto, sapendo che c’era un cimitero troppo affollato, alle sue spalle, per concedersi sbavature gioviali. Mi piacerebbe che si ricominciasse con un: “Dunque, dove eravamo rimasti?”. Niente di più.