Il “Giornale” poi “Libero” - B. lo sceglie al posto di Montanelli: lui nega tutto, poi innesta la baionetta. Idolatra il pm, lo impallina e infine (querelato) si scusa.
A tavola è vegetariano. Alla macchina per scrivere, carnivoro. Il suo giornalismo è una forma mentale di body building, che nutre con le frustrazioni dei suoi lettori trasformate in estrogeni. Fuma la pipa, le sigarette, ma specialmente tutti i rancori che trova, contro i più ricchi e insieme contro i più poveri. I primi li maneggia con cautela, i secondi senza. Ama i gatti e i cavalli più degli uomini, e i meridionali più dei negri, in quest’ordine.
È nato una prima volta a Bergamo, vantandosene. La seconda a Milano, nello stanzone Cronaca del Corriere della Sera, quando nei minuti concitati della chiusura serale, qualcuno gridò: “Colleghi voglio un sinonimo di assassino!”. E dal fondo del salone, il cronista più giovane e allampanato levò in alto la mano e rispose: “Comunista!”. Risero tutti, compresi i comunisti. E uno di loro chiese: “Chi sarebbe questo spiritoso?”. Feltri. Vittorio Feltri.
Era l’anno 1977. Feltri, 34 anni, sorriso e cravatta da sbarbato di prima classe, era appena arrivato dai cugini minori del Corriere d’Informazione. Lo aveva voluto Piero Ottone, ma era diventato il cocco del suo vice, Franco Di Bella, fuoriclasse di storiacce di nera, proprio come il mitico Nino Nutrizio, il direttore della Notte, che aveva allevato il primissimo Feltri alla scuola dei titoli a scatola tipo: “Ecco la belva umana!”.
Al Corriere sbriga in fretta il suo lavoro di inviato speciale. Frequenta sarti, signore e ippodromi. Coltiva ambizione maggiori. E siccome gli viene facile semplificare il genere umano in amici e nemici, ha sufficienti attitudini per fare il direttore. Il suo primo successo è l’Europeo, settimanale di sinistra che a fine anni 80 viaggia ormai anonimo sulla scia di due corazzate, l’Espresso e Panorama. Lui cambia rotta, lo trasforma in un motoscafo armato silurante e in tre anni di polemiche e battaglie – anche contro la vecchia redazione – lo porta da 70 a 120 mila copie.
Stessa apoteosi quando sale in groppa a un cavallo quasi morto, l’Indipendente, quotidiano diretto da un educatissimo Ricardo Franco Levi che a forza di fingersi inglese stava perdendo gli ultimi lettori italiani. Al ronzino gli toglie il fieno e ci mette la birra. E siccome è l’anno 1992, quello dei portenti di Tangentopoli, costruisce, in nome del popolo, altari per Di Pietro e forche per tutti gli altri. Specie Bettino Craxi, che rinomina “il Cinghialone”, appena è sicuro che sia davvero caduto in trappola.
Il quotidiano supera le 100 mila copie, un miracolo editoriale. E anche un buon investimento visto che quando Silvio Berlusconi si toglie i guanti per scendere in politica e riempire il vuoto lasciato dai fuggiaschi della Prima repubblica, anno 1994, sceglie proprio Feltri per sostituire Montanelli alla guida de Il Giornale.
Un minuto prima dell’assalto, Vittorio fa l’offeso: “Io! Proprio io dovrei fare la pelle a Montanelli? È una cazzata!” Un minuto dopo innesterà la baionetta sul nuovo campo di battaglia, che è proprio l’opposto di quello di prima, stavolta accanto a Berlusconi, a Craxi, a “tutte le vittime di Tangentopoli”, contro Di Pietro torturatore, contro il presidente Scalfaro moralista, contro i giudici golpisti e i loro oscuri mandanti. Chi? Sempre loro, i “comunisti!”.
E siccome con la baionetta non ci taglia i tartufi, i titoli rotolano un tanto al chilo, da “Norberto Bobbio mandante morale dell’omicidio Calabresi”, fino a “La lebbra sbarca in Sicilia”, colpa dei negri invasori venuti a rubarci donne e salute. Tutti capolavori di sobrietà: “Velina ingrata” per Veronica Lario, “Patata bollente” per Virginia Raggi, ma anche “Veltroni paraculo” o “Renzi, per fermarlo bisogna sparargli”.
Per quanto si dichiari anarchico, monarchico, radicale, libertario e presidenzialista, Vittorio Feltri è un campione del giornalismo reazionario. Ogni epoca ha avuto i suoi e suonano più o meno tutti la stessa musica: spezzare le reni al nemico, qualunque sia il nemico. Nel suo caso con un imbattibile fiuto per i lettori: “Ho sempre scelto i più arrabbiati”. Ne ha trovati così tanti da raddoppiare quelli del Giornale, per poi fondarne uno in proprio, Libero, nell’anno 2000, col quale supererà le 220 mila copie, ma sempre facendo a pugni qualche volta con la legge, più spesso con la deontologia “dei parrucconi”, cioè l’Ordine dei giornalisti che lo radia e lo assolve ad anni alterni. Tutte medaglie per i suoi fan e per i suoi eredi, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti e l’agente segreto Betulla, il patriota Renato Farina, l’eroe dei Due Stipendi.
Insensibile alla coerenza, ogni volta che si è trovato a corto di argomenti o con troppe querele per quelli malamente usati, Feltri è stato capace di clamorose giravolte. La migliore con Di Pietro a cui aveva attribuito un “tesoro nascosto” di 5 miliardi di lire: tutti i dettagli in cronaca per settimane. Salvo concludere lo scoop in un giorno solo con una lettera di scuse in prima pagina, più altre due per smentire la lunga serie di bugie. Stesso copione nel caso Dino Boffo, il direttore del quotidiano cattolico Avvenire, contro il quale pubblica una falsa informativa della polizia, montando uno scandalo sessuale che pretendeva speculare a quello delle Olgettine di Berlusconi. Per poi smentire tutto, scusarsi, e per le dimissioni di Boffo, dirsi “addolorato”. Da allora “metodo Boffo” è diventato sinonimo di macchina del fango, il prototipo analogico degli odiatori digitali.
Col tempo Littorio è diventato un’icona del cattivismo: guai alla lagna del bene pubblico se interferisce con i miei privilegi privati. E man mano che la sua prosa si è fatta più greve e ripetitiva – come capitò al ringhio di Oriana Fallaci, sua somma ispirazione – è diventato più iracondo e insieme più fragile nelle sue sfuriate in pubblico, dove offre a spallate la sua dottrina del me ne frego. Dichiarandosi ricco, cinico e felice. L’eroe di un giornalismo carognone, il feltrismo, che narra l’Italia agli italiani, avvelenandoci ogni giorno un po’.