martedì 2 giugno 2020

Giuseppe Conte.

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Non c’è tempesta che possa piegare questa bandiera, simbolo della nostra comune appartenenza, dei nostri valori fondativi. Uniamo e concentriamo tutte le nostre energie nello sforzo condiviso di rialzarci e ripartire con la massima determinazione. Scacciamo via la tentazione delle inutili rincorse a dividerci e dello spreco di energie nel rimarcare i contrasti in questo momento di grande difficoltà.

Il 2 giugno del 1946 è nata la nostra Repubblica, che per la Costituzione è una e indivisibile. È stato il giorno di un nuovo inizio. Una intera generazione di donne e uomini, pur severamente provata dalla guerra, prese la ferma decisione di volgersi alle spalle sofferenze e distruzioni e, coraggiosamente, intraprese l’opera di ricostruzione del Paese, puntando con forza nella rinascita della intera comunità nazionale.


La ricorrenza di oggi ci restituisce alla memoria una grande testimonianza storica, una prova collettiva di grande coraggio e fiducia, come ci ha ricordato il Presidente Mattarella, che assume ancor più rilievo nel momento attuale, in cui avvertiamo forte la sofferenza per le persone care che abbiamo perso, ed è quantomai viva l’angoscia per i sacrifici personali, sociali ed economici che siamo chiamati ad affrontare. Non dimentichiamo quel senso di condivisione che ci ha guidato quando sembrava impossibile contenere la pandemia e intravvedere una uscita dalla fase più acuta dell’emergenza. Dobbiamo tutti raccogliere l’invito del Capo dello Stato a collaborare, pur nella distinzione dei ruoli e delle posizioni politiche. Servirà ancor di più adesso, mentre sosteniamo i nostri territori che vogliono ripartire, mentre siamo chiamati a ridisegnare il Paese dei nostri figli con scelte decise, difficili e coraggiose. È necessario che ognuno faccia la propria parte, come è sempre stato nei momenti più difficili della nostra storia.
L’Italia, la nostra comunità, è la nostra forza.


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I due anni di Conte: il premier-avvocato diventato politico. - Luca De Carolis

I due anni di Conte: il premier-avvocato diventato politico
Palazzo Chigi - Il primo giuramento nel 2018.
Da presunto uomo di paglia a presunto autocrate il passo è breve. Misura due anni, il tempo esatto (finora) di permanenza a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte, l’avvocato che doveva ballare a comando di Luigi Di Maio e Matteo Salvini e invece proprio no, la musica la detta lui, e da parecchio. Con il leghista che si è sfilato dal governo in agosto rimettendoci 10 punti nei sondaggi, e Di Maio che ora è ministro degli Esteri ma non più vicepremier, di quel Conte “che abbiamo portato lì con i nostri voti” come ricorda ogni volta che può.
Ma tanto il premier se ne sta lassù, anche se da settimane è tutto un vociferare di rimpasti, governi di unità nazionale e urne di settembre. “Conte sa che attorno a lui si muovono strane cose” sussurra un 5Stelle di governo. Nei sondaggi resta alto: convesso quindi politico. Ricuce e riparte. Lascia urlare e poi decide, specialmente in tempi di emergenza, perché Covid fa rima con Dpcm, quei pezzi di carta per regolare la vita del Paese firmati dal presidente del Consiglio. Così, giuristi e politici vari hanno urlato al dittatore, anche se i Dpcm nascono sulla base di un decreto legge. E viene un sorriso a rileggere commenti e agenzie di quel 1° giugno 2018 in cui venne nominato premier, e tutti a descriverlo come un vaso di coccio. Sei giorni dopo era alla Camera per il voto di fiducia al governo gialloverde, stravolto (“aveva dormito solo un’ora” racconterà poi un ministro). Tanto da aggrapparsi ai consigli di Di Maio, seduto lì accanto. “Posso dire che…?” si scorge in un video dell’epoca. E l’allora capo M5S replica secco: “No”. Un dazio in apparenza normale per l’avvocato che nell’ipotetico governo Di Maio, annunciato alla vigilia delle Politiche, venne presentato come il futuro ministro della Pubblica amministrazione. Invece era la carta coperta per Chigi. Vicino ai grillini ma grillino mai, e lo disse lui, alla festa del Fatto, il 2 settembre scorso: “Definirmi dei 5Stelle mi sembra inappropriato, non sono iscritto al M5S”. Eppure è popolarissimo tra la gente grillina, che in ottobre lo accolse come una rockstar alla festa per i 10 anni del M5S a Napoli. Anche se era intimo di tanto Pd già prima del governo, da ex docente a Firenze che il renzismo lo conosce. La sua forza risiede nei rapporti con il potere che non passa, con la Chiesa. “Non c’è un esponente Pd che abbia i legami che ha lui in Vaticano”, raccontava un notabile dem. Non gli impedì di deglutire in un amen il Salvini del “chiudiamo i porti”, ai tempi del governo gialloverde.
Anzi, fu lui il primo a scandire che l’allora ministro dell’Interno non andava processato per il caso della nave Diciotti “perché ha deciso tutto il governo”. Poi arrivò lo strappo di agosto, e il discorso di Conte in Senato che fu requisitoria contro Salvini. Giorni dopo, il governo giallorosa col Pd, Matteo Renzi e la benedizione essenziale di Beppe Grillo, rumorosamente contiano (si sentono spesso). Oggi come allora con l’Europa tratta lui. Di solito trova il punto di caduta, anche su rogne come la regolarizzazione dei lavoratori migranti. Però ha sbandato sul via libera alle messe, e la Cei gliel’ha fatto notare, per ricordargli da dove viene. E i ritardi sulla Cig sono una ferita. “Deve essere meno solo” dicono dai due lati di governo: e Renzi è un nemico. Conte sa che il tranello potrebbe essere in un rimpasto. Anche per questo ha subito “ingabbiato” il capo della task force Vittorio Colao. Se supera l’autunno, di anni da premier ne potrebbe festeggiare cinque. Farà meglio a riguardarsi.

È arrivato l’arrotino. - Marco Travaglio

Civitanova Marche, apre il mega ospedale di Bertolaso: tanti ...

Dopo tante tragedie, un po’ di buonumore ci voleva. Ma qui si esagera. Avete presente il pianto greco di Salvini che, passato dal citofono al telefono, chiama Mattarella perché Palamara sparlava di lui col procuratore di Viterbo? A parte il fatto che non si capisce dov’è il problema se due pm che mai si sono occupati né si occuperanno di Salvini sparlano di Salvini (fra l’altro sui suoi attacchi alla Procura di Agrigento, non sui suoi processi), l’aspetto comico è che Salvini fino all’altroieri voleva vietare per legge la pubblicazione di intercettazioni penalmente irrilevanti. E, come lui, tutti i partiti e i giornali di destra e sinistra che ora commentano le intercettazioni penalmente irrilevanti di Palamara (quelle rilevanti non riguardano il Csm, l’Anm e le correnti, ma le accuse di corruzione). Cioè: se fosse dipeso da Salvini, le chiacchiere sul suo conto di Palamara non sarebbero mai uscite e lui non avrebbe mai potuto piagnucolare. Per fortuna di Salvini, Bonafede non diede retta a Salvini e non vietò di pubblicarle. Il fatto poi che, a pubblicarle, oltre a noi che abbiamo sempre combattuto le leggi-bavaglio, siano Verità, Libero, Giornale, Messaggero, Corriere e Stampa, che han sempre sostenuto tutti i bavagli, e Repubblica che combatteva quelli di B. e plaudiva quelli del Pd, aggiunge un tocco di surrealismo al paradosso.
Ma, dicevamo, qui con le risate si esagera. L’altroieri tutti i giornali tranne il nostro anticipavano (in esclusiva) succulenti stralci di un nuovo capolavoro letterario che sta per abbattersi sulle librerie. L’autore non è Bruno Vespa, il cui annuale bestseller in forma di anticipazioni inizia a molestare le agenzie di stampa e le redazioni verso fine novembre: è l’Innominabile. Che del prezioso incunabolo, come nota Luca Bottura, ha recapitato a ciascuna testata un brano “personalizzato” per i rispettivi lettori. Impresa agevolata dalla natura “componibile” del Cazzaro Transformer, buono per tutte le stagioni, i palati e gli stomaci (un po’ meno per gli elettori): un attacco ai magistrati per La Verità, un allarme su Conte dittatore per il Giornale, una critica al giustizialismo del Pd per Libero, una stoccata alle banche per Il Tempo, un farfugliamento sugli aiuti alle imprese per Repubblica, un delirio su inchieste parlamentari sulla gestione del Covid per il Corriere, un appello suicida al “ritorno della competenza” per La Stampa, un inno alle scuole private per Avvenire e l’ideona (davvero inedita) di un Ponte sullo Stretto di Messina per il Giornale di Sicilia. Mancavano soltanto un elogio del Ficus benjamina per Cose di Casa e un progetto di legge di Iv contro le ragadi per Riza Psicosomatica. Ma, dicevamo, con le risate si esagera.
Ci sono pure le avventure di Guido Bertolaso che, da quando fu richiamato dal Sudafrica per salvare l’Italia e poi più modestamente la Lombardia, dal Coronavirus e appena arrivato si beccò il Coronavirus, non cessano di appassionare. Il pover’uomo, di cui si erano perse le tracce dopo i trionfi dell’ospedale alla Fiera di Milano costato 50 milioni (12 posti letto, in gran parte vuoti) e di quello gemello a Civitanova Marche costato appena 8 milioni (dunque totalmente deserto), è stato segnalato l’altro giorno in quel di Trapani e poi a Palermo. Problema: la Sicilia è inaccessibile in base ad apposita ordinanza del camerata presidente Musumeci. Soluzione: inventarsi una missione istituzionale qualsiasi per il globetrotter delle disgrazie. Infatti l’assessore all’Economia s’inventa che San Guido è il nuovo responsabile dell’emergenza Covid nell’isola, visto che quello vecchio è stato arrestato. Ma si scorda di coordinare la balla col presidente Musumeci, che lo sbugiarda a stretto giro: “Bertolaso è a Trapani per ormeggiare la sua barca”. Insomma fa il turista, anche se non potrebbe farlo, salvo finire in quarantena (e allora perché Musumeci ha pranzato con lui al ristorante?). Polemiche a non finire all’Ars, spente dall’assessore alla Salute con un’altra panzana, che però sbugiarda quella del presidente: “Bertolaso poteva entrare perché è qui per ragioni di lavoro”. Quale? Boh.
Alla fine, a mettere ordine fra le cazzate della Regione, provvede Bertolaso: “Sono stato invitato ufficialmente dal presidente della Regione per dare una mano”. A far che? “A studiare il modo migliore per consentire ai turisti di venire qui tranquilli e sicuri e ai siciliani di evitare di essere contaminati”. Un po’ come in Lombardia e nelle Marche, dove a furia di stringere mani e parlare vis à vis a questo e quello senza distanziamento, né mascherina, né guanti, contagiò se stesso e mandò tutti in quarantena. Ora darà “una mano”, si spera coi guanti, in qualsiasi cosa. Perché ha questo di bello: non avendo competenze su quasi nulla (è un chirurgo specializzato in malattie tropicali africane, piuttosto rare in Italia), può fare tutto con la stessa enciclopedica incompetenza. E spaziare dal Covid al turismo, ma anche volendo dall’astrofisica alla prestidigitazione. Quando finirà in Sicilia, già ce lo vediamo in giro per l’Italia sull’Ape Piaggio col megafono a tutto volume: “Donne, è arrivato Bertolaso! Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto! Donne, è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio! Aggiustiamo gli ombrelli! E ripariamo cucine a gas: se fanno fumo, noi togliamo il fumo! E se non avete il Covid, ve lo regaliamo noi!”.

Forza Italia, l’ex parlamentare Pittelli intercettato: “Tremonti prendeva 5 milioni a emendamento”. - Lucio Musolino

Forza Italia, l’ex parlamentare Pittelli intercettato: “Tremonti prendeva 5 milioni a emendamento”

“Noi lavoravamo. Io, Pecorella (Gaetano l’ex deputato, ndr) e altri lavoravamo fino alle 4 di mattina”.
“E quelli coglionavano… e sì, eh”.
“Hai capito?… Facevano i soldi questi”.
Quando parla l’avvocato Giancarlo Pittelli, il principale indagato dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, spesso fa riferimento al periodo in cui è stato parlamentare di Forza Italia. In più di un’intercettazione finita nel fascicolo della maxi-operazione, Pittelli tira in ballo Giulio Tremonti, l’ex ministro dell’Economia nei vari governi Berlusconi.
Oggi il penalista è accusato di essere il massone al servizio del boss Luigi Mancuso e un concorrente esterno della ’ndrangheta di Limbadi. Ma dal 2001 al 2013 ha frequentato la politica che conta: è stato deputato, senatore e poi di nuovo deputato. Dodici anni vissuti tra Roma, sempre in contatto con i vertici di Forza Italia, e Catanzaro dove continuava a svolgere la sua professione e dove organizzava cene cui accorrevano anche magistrati e colonnelli dei carabinieri. Il trait d’union era sempre lui: Giancarlo Pittelli che i pm, guidati dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, definiscono “la cerniera tra i due mondi” in una “sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico, il professionista e il faccendiere”.
Oltre a boss, ufficiali dell’Arma, magistrati e politici, nella sua rete di relazioni c’erano diversi imprenditori. Ad alcuni ha proposto di entrare nel cosiddetto “affare Copanello”, il progetto di un complesso alberghiero che doveva sorgere in una frazione del Comune di Stalletì (Catanzaro): due ettari e mezzo di terreno che Pittelli, anni prima, aveva tentato di vendere a un costruttore presentatogli da un “generale della Guardia di finanza di Torino”.
L’affare sfumò e su quel terreno l’ex senatore si è ritrovato un’ipoteca di un milione di euro. Il 12 maggio 2018 organizza un pranzo, al ristorante “La Perla” di Soverato, con alcuni imprenditori interessati all’acquisto. A quel tavolo si parla anche di politica. Il trojan inoculato nel suo cellulare fornisce agli inquirenti numerosi aneddoti di palazzo e racconti inediti sui suoi anni da parlamentare. Pittelli si sfoga con Marcella Tettoni, consigliere comunale di Pisano, in provincia di Novara, arrivata a Catanzaro come amministratrice di diverse aziende nel Nord Italia: “Ti posso raccontare soltanto – sono le parole di Pittelli – che quando io stavo in Parlamento e noi votavamo le leggi… c’era Tremonti che si faceva pagare gli emendamenti, lo sai… Non lui direttamente, ma Milanese”.
Nelle carte dell’inchiesta “Rinascita” non compare il nome per intero e forse sarà un’altra Procura a valutare se il Milanese, indicato da Pittelli come longa manus di Tremonti, sia quel Marco Milanese consigliere e braccio destro dell’ex ministro dell’Economia. Lo stesso che nel 2018 in Cassazione ha ottenuto la prescrizione dopo la condanna a 2 anni e 6 mesi di carcere per traffico di influenze sul Mose di Venezia.
Un mese dopo il pranzo a Soverato, Pittelli torna a parlare di Tremonti. Lo fa con i boss Luigi Mancuso e Saverio Razionale durante un incontro che lo stesso avvocato ha definito un “summit”. Al mammasantissima di Limbadi e al capo locale di San Gregorio d’Ippona, il 12 giugno 2018 Pittelli spiega quanto è stato faticoso il ruolo di parlamentare di Forza Italia: “Lavoravamo fino alle 4 di mattina…”. Non era così per tutti: altri “facevano i soldi… Hanno fatto i soldi con… Tremonti si prendeva…”. “Quel cornuto – lo interrompe il boss Razionale – è uno scemo”. Pittelli ci tiene a finire il concetto sull’ex ministro: “Si prendeva 5 milioni a emendamento”.
Raggiunto telefonicamente, Tremonti si mette a ridere. Gli chiediamo un commento e torna subito serio: “Cosa vuole che le dica? Pittelli dice che ho preso 5 milioni a emendamento. Farò una citazione e richiesta di risarcimento danni nei suoi confronti. Mi ha dato una buona idea. Applicherò la stessa tariffa che mi accusa di avere adottato per gli emendamenti: gli chiederò 5 milioni di euro che poi devolverò per la lotta al Covid-19”.