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martedì 26 gennaio 2021
Grazie, Presidente.
Oggi il premier si dimette: tentato dalle urne, ma proverà il Conte III. - Luca De Carolis
La scelta - Al Senato mancano i numeri per “salvare” Bonafede: l’ultimo tentativo per “rifare” i giallorosa.
Niente sfida in aula, niente partita all’ultimo voto. Ma le dimissioni, questa mattina, e poi le consultazioni al Quirinale, da domani pomeriggio. Una scommessa, una strada piena di rischi eppure obbligata, per provare a risorgere dalla terza crisi in tre anni: ancora a Palazzo Chigi, ancora da presidente del Consiglio. Con un Conte ter, con dentro perfino l’avversario, Matteo Renzi. Ma questa volta solo come uno dei tanti leader, non più decisivo, non più in grado di tenere in ostaggio la maggioranza. In un lunedì mattina romano di pioggia e brutti segnali, Giuseppe Conte prende atto di non poter più andare avanti. “I numeri per reggere in Senato non ci sono”, gli hanno appena detto gli sherpa del Movimento. Non ci sono abbastanza voti per salvare il Guardasigilli Alfonso Bonafede nell’ordalia prevista tra mercoledì e giovedì, cioè nella votazione sulla sua relazione sulla giustizia.
Italia Viva, la creatura di Renzi, è ferma sul no, e anche tanti possibili Responsabili hanno fatto sapere che una mano proprio non potranno darla, se in gioco ci sarà la testa del ministro della Spazzacorrotti e della riforma della prescrizione. “Non posso mandare Alfonso al macello”, riflette Conte con i suoi collaboratori, mentre le agenzie di stampa raccontano del dem Goffredo Bettini che improvvisamente tende la mano a Renzi e perfino tra i 5Stelle affiorano altri nostalgici del fu rottamatore. I numeri e i segnali dei partiti mettono l’avvocato di fronte alla realtà. Se cade Bonafede, addio governo. Ma senza i nuovi gruppi centristi e senza numeri solidi, per sopravvivere non possono bastare promesse generiche e un rimpasto chirurgico, magari scorporando qualche ministero. E allora, che fare? Il Pd gli indica la strada, un Conte ter con una maggioranza più larga. Con Renzi di nuovo dentro, ma normalizzato dai gruppi centristi che con un nuovo governo potrebbero prendere. È tutto un condizionale, “ma non c’è altra via” teorizzano i dem. L’avvocato però non è convinto. E per ore accarezza un’altra idea: dimettersi, sì, ma per andare alle urne in primavera da candidato premier dei giallorosa.
Puntare sulla sua popolarità ancora alta nei sondaggi, e liberarsi di Renzi. Ci pensa seriamente il premier, e ne discute con lo staff e i ministri più vicini. Ma il cerchio contiano si divide. “Non ci seguiranno, il voto non lo vuole nessuno” gli obiettano. Non il Quirinale, non certo i grillini fragili come non mai, e neppure il Pd che pure lo ha agitato fino a poche ore prima come minaccia anche per prendersi qualche renziano. Conte ascolta, riflette, telefona. E con il passare delle ore cambia idea, capisce che rischierebbe di ritrovarsi solo. Così accetta di andare a vedere il gioco, allargando la maggioranza. “Vediamo chi ci sta, ma Renzi non dovrà più essere centrale” è il senso dei suoi ragionamenti.
Servono numeri ampi, “per un’alleanza europeista”, come aveva scandito la scorsa settimana in occasione delle votazioni di fiducia. Ma Conte sa che non sarà una passeggiata. “Giuseppe nelle consultazioni rischia grosso” lo dicono in tanti tra i grillini. Convinti che Renzi non resisterà alla tentazione di dare il morso dello scorpione, ossia di fare un altro nome al Quirinale. “E poi i Responsabili, terranno? Chi può dirlo?”. Non può garantirlo neppure Conte, nella sera in cui nella Roma dei Palazzi circolano nomi per sostituirlo. E il più gettonato è quello di Di Maio. Terrebbe (quasi) unito il M5S e piacerebbe anche a Renzi. E a diversi dem non dispiace. Persone vicine al ministro degli Esteri negano: “Sono solo polpette avvelenate”. Ma tra i grillini se ne parla, parecchio. Invece altre fonti fanno il nome di Luciana Lamorgese, la ministra dell’Interno cara al Colle. Perché anche questa è una tesi diffusa, nei partiti: “Sarà stallo e alla fine sarà il Quirinale a dover trovare un nome”. Nell’attesa i giallorosa provano a reggere su Conte, “ma con soluzioni di chiarezza e non per vivacchiare” scandisce Federico Fornaro (LeU). La certezza è che stamattina Conte riunirà il Consiglio dei ministri per spiegare la sua scelta e poi salirà al Colle. “Un modo per condividere e per non sembrare solo in un passaggio così delicato”, spiegano. Dal Nazareno aspettano. E sussurrano: “Noi siamo sempre stati leali con Conte, certi grillini magari no…”. Segnali, da crisi.
Conte alla rovescia. - Marco Travaglio
Alla fine ci sono quasi riusciti. I poteri marci, con giornaloni e onorevoli burattini al seguito, non potevano perdere l’ultima occasione di mettere le zampe sui 209 miliardi del Recovery Fund piazzando a Palazzo Chigi l’ennesimo prestanome. Subito, con le larghe intese. O dopo le elezioni, che dovrebbero regalare Parlamento, governo, Quirinale e Costituzione alla cosiddetta destra, cioè agli stessi che hanno appena spedito la Lombardia in zona rossa perché ignorano la tabellina del 2. Gli italiani che attendono notizie sui vaccini, i ristori, il Recovery Plan e si ritrovano una crisi di governo assistono a questo spettacolo con un misto di sgomento e disgusto. Avevano appena ritrovato un po’ di fiducia nelle istituzioni per la partenza a razzo della campagna vaccinale e i contagi in calo qui e in aumento all’estero. Erano financo disposti a perdonare i trasformismi dei responsabili pur di neutralizzare i trasformismi degli irresponsabili. Ma il caso ha voluto che la risicata fiducia in Senato fosse seguita a stretto giro dalla relazione di Bonafede sulla giustizia: il marrano minaccia addirittura di impiegare 2,75 miliardi di Recovery per rendere più rapidi i processi e più capienti le carceri e, quel che è peggio, senza ripristinare la prescrizione. Una tripla minaccia a mano armata per chi vuole rubare in pace. Infatti alcuni che martedì avevano dato la fiducia al governo han subito precisato che una giustizia efficiente ed equa non la voteranno mai. Anche la crisi del Conte-1, per mano dell’altro Matteo, era scattata sulle due ragioni sociali del partito trasversale del marciume: affari (il Tav) e impunità (riforma dei processi e prescrizione). Ora la scena si ripete: affari (Recovery senza Conte e 5Stelle fra i piedi, né cabine di regia a controllare sprechi e mazzette) e impunità (riforma dei processi e prescrizione). Completa il quadro la candidatura di B. al Quirinale per bocca di Salvini. E in un sol giorno tutti i nodi vengono al pettine: nella crisi più demenziale e delinquenziale del mondo, tutto è possibile. Anche l’avverarsi delle barzellette più fantasiose: tipo un capo dello Stato pregiudicato, plurimputato, indagato per strage.
Oggi sapremo se i poteri marci faranno cappotto o verranno fermati in extremis. Basterebbe pochissimo, cioè che 5Stelle e Pd restassero fermi in blocco sulla linea decisa e ripetuta per dieci giorni: porte chiuse a chi ha scatenato la crisi, nessun altro governo, o Conte o elezioni. A quel punto i renziani che ancora credono al loro capo (accade anche questo) capirebbero che Iv ha chiuso e le urne sono dietro l’angolo. E magari si ricorderebbero chi li ha votati. Oppure andremmo alle elezioni e potremmo persino avere una lieta sorpresa.
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