domenica 14 febbraio 2021

Il governo Dragarella. - Marco Travaglio



 

Siccome ogni Restaurazione ha i suoi rituali, non avrebbe guastato se il governo Dragarella avesse giurato in uniforme da Congresso di Vienna: parrucche imbiancate con codini e fiocchi neri, volti incipriati e impomatati, marsine a coda, culotte, scarpe a punta. Invece i nuovi (si fa per dire) ministri erano tutti in borghese, per non farsi riconoscere. Avevamo promesso un giudizio sul governo quando ne avessimo visti i ministri (per il programma c’è tempo: uscirà dal cilindro di Super Mario un minuto prima della fiducia, o forse dopo, fa lo stesso: è il ritorno della democrazia dopo la feroce dittatura contiana, come direbbe Sabino Cassese). E il momento è arrivato.

Ministri. Il bottino di 209 miliardi del Recovery se lo pappano il premier, il suo amico Giorgetti (Mise) e i suoi tecnici, cioè gli uomini delle lobby: Franco (Mef e Bankitalia), Cingolani (renzian-leopoldino di Leonardo- Finmeccanica che Grillo ha scambiato per grillino) e Colao (Morgan Stanley, McKinsey, Omnitel, Vodafone, Rcs, Unilever, Verizon, con breve parentesi di incompetenza quando lo chiamò Conte per il piano-fuffa Fase-2 e ora tornato il genio di prima); più Giovannini (ottimo prof di statistica alle Infrastrutture). Del resto Draghi se ne infischia e lascia pasturare i partiti con i loro nanerottoli, scelti aumma aumma dai Quirinal Men: so’ criature.

Pandemia. Speranza resta alla Salute, per la gioia di Salvini e dei teorici della “dittatura sanitaria” e del “riaprire tutto”. Ma arriva la Gelmini alle Regioni al posto di Boccia, protagonista di epici scontri con gli sgovernatori. Sarà uno spasso vederla genuflessa alle loro mattane. Al suo fianco, come viceministro, vedremmo bene Bertolaso. E, commissario al posto di Arcuri, troppo efficiente sui vaccini, il mitico Gallera: era stanco, ma si sarà riposato.

Discontinuità. Undici ministri, la metà del governo Draghi, vengono dal Conte-2: i 9 confermati più Colao più il neotitolare dell’Istruzione Bianchi, capo della task force dell’Azzolina per la scuola (tecnico del congiuntivo, dice “speriamo che faremo bene”, ma non è grillino, quindi è licenza poetica). E ora chi la avverte la Concita del “basta ministri scadenti, arrivano quelli bravi”? Fatti fuori Conte, Bonafede, Gualtieri, Amendola e regalato il Recovery ai soliti noti, si digerisce tutto.

Cielle. I garruli squittii di Cassese a edicole unificate indicano che, dopo il lungo digiuno del Conte-1 e del Conte-2, qualche protégé l’ha piazzato. Tipo Marta Cartabia, Guardasigilli di scuola ciellina (come la ministra dell’Università, Cristina Messa), ma pure napolitaniana e mattarelliana, celebre per l’abilità di non dire nulla, ma di dirlo benissimo, fra gridolini estatici di giubilo.

Di lei si sa che sogna “una giustizia dal volto umano” (apperò) e una “pena che guarda al futuro” (urca). Ora, più prosaicamente, dovrà dare subito il parere del governo sul ritorno della prescrizione, previa seduta spiritica con Eleanor Roosevelt che – assicura il Corriere – è “tra le figure femminili ‘decisive’ per la sua formazione” (accipicchia).
Pd. Sistemati tutti i capicorrente Franceschini (al quinto governo), Guerini e Orlando, prende pure l’Istruzione con il finto tecnico Bianchi, due volte assessore dem in Emilia-Romagna: 4 ministri come il M5S, che però ha il doppio di seggi.
5Stelle. Machiavellici alla rovescia, sapevano che senza di loro il Pd e Leu si sarebbero sfilati e Draghi, per non finire ostaggio delle destre, avrebbe rinunciato. Bastava mettersi in attesa e, se proprio Grillo voleva entrare, dettare condizioni minime: Giustizia, Lavoro, Istruzione, Mise o Transizione Ecologica. Invece han detto subito di sì, presentandosi a Draghi con le brache calate e le mani alzate. E hanno ammainato le loro bandiere Bonafede, Azzolina e Catalfo (con Reddito e Inps). Risultato: SuperMario li ha sterminati e pure umiliati, con i pesanti ma inutili Esteri a Di Maio, Patuanelli degradato dal Mise all’Agricoltura, più i Rapporti col Parlamento e Politiche giovanili (sventata la Marina mercantile, ma solo perché non c’è più). Ciliegina sulla torta: la Transizione Ecologica, subito dimezzata, è finita a un renziano. Meno male che Draghi era grillino: figurarsi se non lo era. Insomma: aperta finalmente la scatoletta di tonno, i 5Stelle hanno scoperto che il tonno erano loro.
FI-Lega. Il capolavoro del Rignanese, prima di tramutare Iv da ago della bilancia a pelo superfluo, è aver riportato Salvini e B. al governo. Il resto l’han fatto Draghi e Mattarella, regalando alla destra un governo tutto nordista e i ministeri politici più lucrosi: Mise e Turismo (Giorgetti e Garavaglia), Pa (Brunetta), Regioni (Gelmini) e Sud (Carfagna, con i fondi di coesione Ue, nel fu serbatoio di voti dei 5Stelle).
Ps. Nota per gli storici della mutua che vaneggiano di “fallimento della politica come nel 1993 e nel 2011” e paragonano l’avvento di Draghi a quelli di Ciampi e Monti. Nel ‘93 Ciampi arrivò mentre gli italiani lanciavano le spugne ad Amato e Conso per il decreto Salvaladri e le monetine a Craxi per l’autorizzazione a procedere negata dal Parlamento al pool di Milano. Nel 2011 Monti arrivò mentre due ali di folla maledicevano B. che saliva al Quirinale a dimettersi e poi fuggiva dal retro dopo aver distrutto l’Italia per farsi gli affari suoi. Nel 2021 Draghi arriva mentre Conte esce da Palazzo Chigi a testa alta fra gli applausi e le lacrime. Mica male, per un fallito.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/14/il-governo-dragarella/6100843/

La lezione della sociologa Guillaumin: “Sesso e razza sono un’invenzione del potere.” - Angelo Molica Franco

 

Pubblicato in Italia un saggio del 1992: secondo l'attivista femminista (scomparsa pochi anni fa), tutto parte dal corpo, che viene studiato quale costruzione sociale, materiale e simbolica, che genera una differenza essenzializzata, carica di sfruttamento, oppressione, discriminazione.

Non fu il solo, Michel Foucault, nel Novecento a occuparsi dello stretto e ambivalente legame che intercorre tra sesso e potere. Pionieristica e poco tradotta in Italia, l’opera della sociologa Colette Guillaumin (1934-2017) è stata una ricerca incessante per scindere, teorizzare e scardinare i rapporti di dominazione. Ancorché obliata, fu una delle intellettuali che più hanno coadiuvato la riflessione sul rapporto tra corpo, sesso e razza.

Al centro delle sue riflessioni, due temi intrinsecamente connessi: l’ideologia razzista intesa come una costruzione e rappresentazione che tende a naturalizzare le differenze sociali e, dall’altra, i rapporti fra i sessi, intesi come effetto storico-sociale di una particolare forma di “razzizzazione”. In un contesto, come quello odierno, in cui la lettura biologica del mondo sociale continua a guadagnare terreno, la sua critica della legittimazione naturalista dei rapporti sociali di razza e sesso costituisce uno degli apporti maggiori e mai inattuali della studiosa. Se oggi, infatti, l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura ha guadagnato terreno in alcuni ambiti delle scienze umane, è grazie a Guillaumin.

Per questo, le vanno doverosamente versate alcune righe biografiche: Guillaumin è stata sociologa e antropologa, ricercatrice presso il Centre National de la Recherche Scientifique en France (Cnrs) e docente ospite presso le università di Amiens, Ottawa, e Montréal. Negli anni ’70 e ’80 ha fatto parte del collettivo di Questions Feministes e della redazione di Le Genre Humain, ambedue riviste francesi. I suoi titoli più noti sono L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel (1972); Sexe, Race et Pratique du Pouvoir (1992). Quest’ultimo, ripreso e rilanciato con grande fermento negli anni 2000 dal grande editore francese Gallimard, è uscito in Italia: Sesso, razza pratica del potere (edizioni ombre corte, a cura di Sara Garbaroli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, pp. 245, euro 22).

Guillaumin, dunque, è stata tra le più inflessibili teorizzatrici dei nessi tra sessismo e razzismo. Tutto parte dal corpo, che viene studiato quale costruzione sociale, materiale e simbolica, che genera una differenza essenzializzata, carica di sfruttamento, oppressione, discriminazione. Esso viene determinato dal corpo “altro” (cioè il corpo dell’altro e dell’altra) e dalle ideologie sessiste e razziste. Il tentativo teorico di Guillaumin è quello di snidare il luogo dove si situa il fenomeno razzista e sessista prima ancora delle sue manifestazioni materiali. Quale sia dunque il sistema di sensi e significati che vede attivi contemporaneamente il razzizzante e il razzizzato. Guillaumin spiega si tratta di schermi di relazione inconsapevolmente interiorizzati con ciò che è socialmente designato e dunque avvertito come differente. “Vale a dire – scrive la sociologa – che non è all’ordine del contenuto, sia esso di immagini o di valori, che si fa riferimento, ma a quello dell’organizzazione ideologica latente”. Essere altri per natura – per questioni di razza e di sesso – induce a ricevere un trattamento di appropriazione, esclusione e dominio.

La visione di Guillaumin è radicale: le razze e i sessi non esistono al di fuori della biologia. Sono “fatti sociali” ma non realtà. Sono il razzismo e il sessismo come ideologie che producono la nozione di “razza” e di “sesso”; non sono il “sesso” e la “razza” a produrli. Le razze al pari dei sessi sono “costruzioni sociali” e il razzismo come il sessismo una struttura ideologica legata alla naturalizzazione dei fenomeni sociali. Guillaumin combatte la strana e diffusissima idea che le azioni di un gruppo umano, di una classe, siano “naturali”, che cioè siano indipendenti dai rapporti sociali, e che preesistano a tutta la Storia, a tutte le condizioni concrete determinate. Ogni gesto, attuato o subito, fisico o mentale, anche il più innato, è un risultato. Ed è qui che mette in luce la doppia esistenza di un “sistema dei marchi” (assimilabile al concetto di “ghetto” e “ghettizzazione”). Da una parte c’è l’applicazione, dall’esterno, di un marchio alla persona, per rendere visibile l’appartenenza a un gruppo sociale: un esempio, l’abbigliamento; altro esempio, le persone possono essere marchiate con un segno permanente, direttamente sul corpo, come gli schiavi e i deportati. Dall’altra parte, esiste quel marchio che strumentalizza elementi somatici a fini sociali, economici e politici. Il concetto di marchio, che classifica e divide gli individui all’interno di una gerarchia, è basilare per la formazione dell’ideologia razzista e sessista.

L’analisi che fa della nozione di differenza è implacabile. “Dietro l’idea di differenza – scrive Guillaumin – si cela la dominazione: in altre parole l’ideale che tutti appartengano allo stesso universo, che tutti possiedano lo stesso referente ma in termini di differenti forme dell’essere, per sempre fissate”. L’autrice, dunque, già negli anni 80 metteva la società in guardia rispetto al pericolo ideologico del “diritto alla differenza culturale” perché il rischio che si correva era di sottolineare troppo le specificità culturali dei gruppi dominanti rispetto alle minoranze. Basta sfogliare un qualsiasi giornale e lanciare un’occhiata alla cronaca (italiana o estera) per comprendere quanto abbia avuto e abbia ancora ragione.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/10/la-lezione-della-sociologa-guillaumin-sesso-e-razza-sono-uninvenzione-del-potere/6093976/

E non solo, anche i partiti, le religioni, le suddivisioni dei territori in nazioni, ...
L'uomo vuole comandare, possedere e per farlo si inventa assurdi paletti.
Sappiamo tutti che per governare un paese non servono tanti partiti, basterebbero poche persone scelte e preparate che si assumano l'onere di governare, senza tendenze ideologiche o meno, perché tutti siamo in grado di capire ciò che serve alla comunità, senza bisogno di ricorrere alle ideologie.
Così vale anche per le religioni, i cui capi hanno come unico scopo recepire denaro, fare vita da nababbi e dettare legge.
Stessa cosa per le suddivisioni territoriali; con queste ultime l'uomo decide che altri uomini non possono percorrere liberamente tutti i luoghi della terra, che non è appannaggio dei pochi, ma di tutti.
E così si sono inventati anche che il colore della pelle cela differenze delle quali non si conosce la natura...
Siamo tutti uguali, la terra è di tutti, l religioni sono un'invenzione - lo stesso fatto che ce ne siano tante qualche dubbio dovrebbe crearlo anche in chi crede - i partiti sono le spiagge dorate di chi ambisce al comando, anche se di pochi individui, perché, come soleva dire un personaggio d'altri tempi, "comandare è meglio che fottere!"
C.

Marta Cartabia, la professoressa vicina a Cl che Napolitano nominò alla Consulta: chi è la ministra della giustizia del governo Draghi. - Giuseppe Pipitone

 

La prima donna eletta presidente della Consulta è la nuova guardasigilli. Ordinaria di diritto Costituzionale alla Bicocca e poi alla Bocconi, vicina a Comunione e Liberazione e all'ex presidente della Repubblica, da tempo veniva accostata a ogni tipo di incarico istituzionale. Ora dovrà gestire riforme delicate come quella sulla giustizia civile - fondamentale per ottenere i fondi del Recovery - e penale, che già causarono la caduta dei governi Conte 1 e 2.

Da un paio d’anni la candidavano praticamente a qualsiasi cosa: presidente del consiglio dopo la caduta del governo gialloverde, guida dell’esecutivo tecnico che avrebbe dovuto condurre a elezioni dopo la caduta di quello giallorosso, capa dello Stato alla conclusione del mandato di Sergio Mattarella. Alla fine Marta Cartabia ha effettivamente trovato occupazione politica. Non sarà la prima donna a guidare un governo, non ancora almeno. Per il momento si dovrà accontentare di un ministero, seppur di peso come quello della Giustizia. Un dicastero delicato quello ereditato dal grillino Alfonso Bonafede e per il quale Mario Draghi ha deciso di affidarsi a una tecnica pura come l’ex presidente della Consulta. Una manovra che ricorda la nomina di Luciana Lamorgese agli Interni nel 2019. Scelta fatta per spoliticizzare il Viminale dopo l’ingombrante presenza di Matteo Salvini. In via Arenula, invece, è toccato alla prima donna eletta presidente della Consulta. Costituzionalista di rilievo internazionale e tecnica perfetta per ogni tipo di incarico politico. Va detto, però, che la giustizia penale e civile è un’altra cosa. E qualcuno già sostiene che come guardasigilli ci sarebbe stato bisogno di un tecnico più esperto di aule di tribunale che di stanze dell’università.

La giustizia che fa cadere i governi – Cartabia prende il posto di Bonafede, sovraesposto guardasigilli dei 5 stelle. Paga, sicuramente, le riforme (dalla Spazzacorrotti alla precrizione) che l’Europa chiede al nostro Paese da anni. Ma che ampie porzioni della politica italiana hanno sempre cercato di affossare. Non è un mistero, infatti, che gli ultimi due governi siano caduti proprio a causa della giustizia. Prima la Lega e poi Italia viva hanno staccato la spina ai due esecutivi di Giuseppe Conte per provare a neutralizzare le riforme dei processi, soprattutto quelli penali. Lo stesso Conte, dopo aver incassato la fiducia in Parlamento, si è dimesso alla vigilia della votazione della relazione sulla giustizia di Bonafede: il governo sarebbe sicuramente andato sotto. “Un voto contro Bonafede è un voto contro tutto il governo”, disse Luigi Di Maio: 48 ore dopo l’ormai ex presidente del consiglio andò al Quirinale per dimettersi. In venti giorni la crisi al buio aperta per colpa di Matteo Renzi ha imboccato una strada impronosticabile all’inizio. Dopo il fallimento del mandato esplorativo di Roberto Fico, Mattarella ha optato per un governo del presidente. E Draghi ha deciso di spoliticizzare i ministeri chiave, mettendoli in mano ai tecnici.

Le riforme in eredità – Fatto fuori Bonafede, però, restano le sue riforme. Che devono essere portate avanti. Durante le consultazioni Draghi ha citato tra le priorità quella sulla giustizia civile, che giace da circa un anno alla commissione giustizia del Senato. Alla Camera è invece ferma quella sul processo penale, che ha al suo interno il “lodo Conte” sulla riforma della prescrizione. Tutte leggi al momento bloccate e che il nuovo governo dovrà in qualche modo prendere in mano. Non si tratta di una libera scelta: la riforma per velocizzare i processi è necessaria per ottenere l’effettivo accesso ai fondi del Recovery. Senza considerare che secondo la bozza del piano del governo Conte ben 3 dei 209 miliardi sono destinati alle assunzioni per velocizzare i processi. È di tutto questo che dovrà occuparsi Cartabia, da anni considerata una riserva della Repubblica, costituzionalista di altissimo livello, ma lontana dalle logiche della giustizia penale.

Onida, gli Usa, Napolitano e Cl – Nata il 14 maggio del 1963 a San Giorgio su Legnano, nell’Alto milanese, ordinaria di diritto Costituzionale alla Bicocca e poi alla Bocconi, cresciuta alla cattedra di Valerio Onida, tra i suoi maestri la nuova guardasigilli può annoverare Joseph Weiler, direttore dello Straus Institute for Advanced Study in Law and Justice della New York University, una delle scuole di formazione giuridica più prestigiose del mondo, che Cartabia frequentò nel 2009. Weiler è un vecchio amico di Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che nel 2014 gli conferirà la cittadinanza italiana (all’epoca il giurista americano guidava l’European University Institute di Firenze) e che già tre anni prima aveva nominato Cartabia alla Consulta, facendone a soli 48 anni la componente più giovane di sempre. Risaliva a un anno prima, al 2010, l’applauditissimo intervento di Napolitano al Meeting di Rimini, l’evento annuale simbolo di Comunione e liberazione. Un ambiente, quello del movimento cattolico fondato da don Luigi Giussani, dove Cartabia è di casa fin dagli anni degli studi universitari. Insieme al marito, Giovanni Maria Grava, l’ex presidente della Consulta è considerata molto vicina a Cl: per dieci anni è intervenuta al Meeting di Rimini, l’ultima volta nel 2019. Sarà un caso ma l’estate scorsa pure il neo premier Draghi fu accolto con tutti gli onori alla kermesse ciellina. Risale al 2016, invece, la visita di Sergio Mattarella, altro importante interlocutore dell’attuale guardasigilli.

Le posizioni sui matrimoni omosessuali e sul suicidio assistito – Prima della nomina alla Consulta, tra l’altro, Cartabia era una delle firme del ilsussidiario.net, organo della Fondazione per la Sussidiarietà e interprete giornalistico della linea di Cl. Sul sito si trovano ancora i suoi interventi, molto critici sul suicidio assistito: “Quell’arbitrio che pretende di giudicare il mistero della vita”, è il titolo un articolo sul caso di Eluana Englaro. Definito dall’attuale guardasigilli come “un verdetto che riguarda anche ciascuno di noi che assistiamo impotenti alla fine di una vita”. “Matrimonio a ogni costo, la pretesa dei falsi diritti“, era invece intitolato un intervento di Cartabia sulla legge approvata dallo Stato di New York, che consentiva il matrimonio tra persone dello stesso sesso. “Chi scrive non esulta di fronte a questa decisione”, spiegava la futura presidente della Consulta. Che è stata la prima donna a essere eletta al vertice della Corte. “Si è rotto un vetro di cristallo, ho l’onore di essere un’apripista”, disse l’11 dicembre del 2019, giorno dell’elezione. Rovinato dalle proteste delle associazioni Lgbt, che l’accusavano di essere di parte per la sua provenienza dal mondo cattolico e per quelle posizioni sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. Critiche che la ferirono e alle quali rispose spiegando: “La Corte difende i diritti di tutti perché nella laicità positiva dello Stato“.

L’arrivo in via Arenula – Guida la Consulta per 270 giorni e ha il merito di svecchiarne l’immagine, aprendola all’esterno nonostante il suo mandato sia quasi parallelo all’esplosione della pandemia. “Abbiamo tutti vissuto un grande cambiamento. E sono veramente fiera di sottolineare che questa istituzione ha assicurato il pieno funzionamento della della giustizia costituzionale senza cedimenti e interruzioni”, dirà nel suo ultimo giorno da presidente, prima di tornare a insegnare. Oggi che diventa ministra, il primo a commentarne la nomina è Tommaso Cerno, senatore del Pd: “La scelta di Cartabia alla giustizia ci lascia perplessi come cittadini e come omosessuali viste le posizioni sostanzialmente reazionarie della guardasigilli va detto che tanto tuono che non piove”. E dire che Cerno è stato portato in Senato da Matteo Renzi, uno dei più appassionati cultori della nuova guardasigilli. Dicono che tra i due ci sia un legame, mai messo in risalto nelle relazioni pubbliche. Oggi Cartabia giura da ministra della giustizia di un governo che è il risultato della crisi politica provocata da Renzi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/13/marta-cartabia-la-professoressa-vicina-a-cl-che-napolitano-nomino-alla-consulta-chi-e-la-ministra-della-giustizia-del-governo-draghi/6096546/

Conte e l’uscita tra gli applausi. «Ma il mio impegno continua.» - Monica Guerzoni

 

L’ovazione dei dipendenti e la compagna al suo fianco. E lui annuncia un «percorso» per la «buona politica». «Torno a vestire i panni di semplice cittadino»

Entrato a Palazzo Chigi da perfetto sconosciuto o quasi, il primo giugno del 2018, l’avvocato Giuseppe Conte ne esce due anni e otto mesi dopo, salutato dagli applausi dei dipendenti, dalle lacrime del portavoce Rocco Casalino e dall’omaggio di una piccola folla che grida il suo nome in piazza Colonna.
Uscita di scena «da galantuomo» lo rimpiange il dem Goffredo Bettini, grande mediatore del mai nato governo Conte ter. La scena è di quelle che fanno felici i fotografi. Il premier che guidò un governo di centrodestra e uno di centrosinistra lascia il palazzo all’ora di pranzo, dopo aver consegnato la campanella a Mario Draghi con garbo istituzionale e sorriso di circostanza. Ultimo giro sul tappeto rosso, picchetto d’onore, poi Conte alza il braccio destro al cielo mentre la mano sinistra cerca quella della biondissima compagna Olivia Paladino. L’ormai ex premier alza gli occhi verso i dipendenti di Palazzo Chigi che lo acclamano da un minuto, mima un bacio con la mano sulla mascherina bianca, quindi sventola gli indici come per dire «ciao». Amareggiato? «Mai rammarichi, bisogna guardare sempre avanti — confiderà a Fanpage.it —. È stata una grande esperienza, spero di essermi migliorato anche come persona».

Quasi un appello agli elettori.

Che sia un arrivederci lo scrive nero su bianco nell’ultimo post su Facebook, dove ha accumulato tre milioni e 600 mila seguaci. Il messaggio è tutto rivolto agli italiani, che Conte ringrazia per «la forza e il coraggio» mostrati nella pandemia, per «il sostegno e l’affetto» che ha sentito su di sé e anche per le critiche. E ai quali promette con una certa enfasi che la sua carriera politica non è finita: «La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere. Con l’Italia, per l’Italia. Grazie».
Così si chiude il post e così, è l’auspicio del giurista pugliese nato a Volturara Appula l’8 agosto del 1964, si riaprirà appena possibile la sua esperienza politica: «Un percorso a misura d’uomo, volto a rafforzare l’equità, la solidarietà, la piena sostenibilità ambientale». Quasi un appello agli elettori perché ciascuno, quando sarà il momento, «partecipi attivamente alla vita politica» del Paese e si impegni a «distinguere la buona Politica, quella con la P maiuscola, dalla cattiva politica», che serve solo «ad assicurare la sopravvivenza di chi ne fa mestiere di vita».
E qui qualcuno potrebbe leggerci una frecciata a Matteo Renzi, che ha innescato la crisi e la caduta del suo secondo governo.


https://www.corriere.it/politica/21_febbraio_13/uscita-conte-gli-applausi-ma-mio-impegno-continua-26ae3476-6e43-11eb-a923-8177dd174962.shtml

Conte lascia palazzo Chigi tra gli applausi. Casalino in lacrime.


I dipendenti della presidenza del Consiglio, affacciati alle finestre, hanno omaggiato Conte con un lungo applauso.

Dopo il passaggio della campanella che segna l'insediamento del nuovo governo a Palazzo Chigi, l'ormai ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte si congeda dalla sede di governo con il saluto del picchetto militare dei Granatieri di Sardegna. Conte, visibilmente commosso, al termine degli onori militari nel cortile di palazzo Chigi, chiama vicino a se' la compagna Olivia Paladino. Dalle finestre del palazzo si affacciano decine di dipendenti che gli riservano un lungo applauso, al quale Conte risponde con un caloroso saluto. In strada un gruppo di sostenitori  grida slogan in favore dell'ex premier. 

Si commuove anche Rocco Casalino. Il  portavoce di Conte, mascherina bianca sul volto, non trattiene le lacrime. Qualche fotografo cattura l'immagine, che  ora sta rimbalzando sui social. 

https://www.rainews.it/dl/rainews/media/Conte-lascia-palazzo-Chigi-tra-gli-applausi-con-la-compagna-casalino-in-lacrime-4f103d4f-044b-4201-8dc1-a39ff3991fb5.html#foto-1

Conte, Draghi e la lezione di Goria, il commercialista di Asti che cominciava a piacere troppo. - Gianfranco Rotondi

Former Premier Giuseppe Conte waves after the handover ceremony with the new Prime Minister Mario Draghi at Chigi Palace, the premier's office, in Rome, Italy, 13 February 2021. ANSA/FABIO FRUSTACI


Ero un ragazzo democristiano quando l’Italia era governata da Gianni Goria, commercialista meno che cinquantenne di Asti. Era stato per anni il ‘golden boy’ della sinistra democristiana del Nord, un misto di popolarismo piacione e competenza tecnocratica.

Il suo momento era venuto dopo le elezioni politiche del 1987, susseguite al lungo governo di Bettino Craxi, interrotto dalla rivendicazione democristiana di una ‘alternanza’ alla guida dell’esecutivo. Allora queste erano le usanze. Alle elezioni la Dc aveva retto, l’onda lunga socialista era stata poco più di una risacca, e Craxi dovette cedere alla Dc la guida del governo, puntando però su una figura di profilo minore, meno ingombrante di un De Mita o di un Andreotti. E nacque l’unico governo di Gianni Goria, carico come una portaerei di tutti i notabili democristiani, da Giulio Andreotti a Fanfani a Colombo a Donat Cattin. Rileggere su Wikipedia la composizione di quel governo mi dà lo struggimento di quando ad Avellino sfoglio l’album del matrimonio dei miei genitori.

Goria fu pari alla sua fama: veloce, tecnocratico, competente. Si circondò di gente giovane e attrezzata. Uno glielo presentò Bruno Tabacci, suo consigliere politico e già ras lombardo della sinistra dc: Tabacci introdusse alla corte di Goria il giovane Mario Draghi, già carico di onori curricolari nonostante la verdissima età.

Goria governò l’Italia per un annetto scarso, districandosi tra capricci socialisti e democristiani ,e infrangendosi su un incidente parlamentare relativo alle scelte in materia di nucleare.

I corridoi di piazza del Gesù raccontavano altro, in verità. Capannelli di notabili dorotei sussurravano che quel premier alzava un po’ troppo la cresta: ‘è giovane e bello ma non si starà montando la testa?’ si chiedevano le vecchie zie Dorotee. E qua e là nel partito saliva l’angoscia per un capo di governo che convinceva ogni giorno di più, e - cosa supremamente vietata ai democristiani - piaceva persino alle donne.

Per Goria iniziò una vita grama che divenne tempestosa quando anche a via del Corso - sede del Psi - si scrutarono sondaggi favorevolissimi al premier di Asti. Erano gli anni in cui Bettino covava una riforma presidenzialista cucita addosso alla sua popolarità, figuriamoci se poteva accettare l’imprevisto di un premier democristiano più popolare di lui.

Le cucine socialista e democristiana prepararono il benservito a Gianni Goria, a meno di un anno dal suo giuramento. E Gianni tornò ‘il commercialista di Asti’, come lo chiamava Donat Cattin con la tipica sua diffidenza per chiunque entrasse in politica con fama tecnocratica.

Trentaquattro anni dopo si insedia a palazzo Chigi il più giovane e brillante collaboratore di Gianni Goria. Chissà se Mario Draghi avrà pensato all’analogia tra il suo mèntore democristiano e il suo predecessore grillino: come a Goria, anche a Conte è stato fatale lo ‘specchio delle sue brame’ che lo segnalava come il più popolare del reame grillino.

E puntuale è giunto lo sfratto, assai meno garbato di quello ricevuto da Goria, che rimase nel pantheon correntizio, e più tardi fu anche riportato al governo.

Passano le repubbliche, ma non i vizietti del ceto politico: se si accede al governo senza una propria truppa, è vietato essere popolari.

https://www.huffingtonpost.it/entry/conte-draghi-e-la-lezione-di-goria-il-commercialista-di-asti-che-cominciava-a-piacere-troppo_it_6027d897c5b680717ee80332

Governo, Conte passa la campanella a Draghi. Fatto fuori da una manovra di palazzo, esce tra gli applausi dei dipendenti di Chigi.

 

Il premier che ha ottenuto i 209 miliardi della Ue sostituito da chi vuole garanzie per gestirli. Attraverso un'operazione politica guidata da Renzi e appoggiata dai maggiori gruppi economici ed editoriali del Paese. Una manovra che già nel maggio scorso il vicesegretario del Pd Orlando (oggi ministro del Lavoro) aveva pronosticato: "Nelle prossime settimane vivremo una serie di attacchi al governo finalizzati alla sua caduta, ispirati anche da centri economici e dell’informazione."

Sui social circola una battuta. Anzi non è una battuta: è una classifica. Mette in fila la lista dei presidenti del consiglio per durata del mandato. La top ten si chiude con Matteo Renzi, che a Palazzo Chigi è rimasto per 1024 giorni. Subito dietro, a trentasei giorni di distanza, c’è Giuseppe Conte. Eccola la battuta, non troppo ironica: è per questo che il leader di Italia viva ha fatto cadere il governo? È per questo che l’ex segretario del Pd ha provocato la crisi politica dal quale è nato l’esecutivo di Mario Draghi? Per tenere a distanza dal suo decimo posto l’inseguitore, distante poco più di un mese? Il diretto interessato, chiaramente, smentisce. Negli ultimi giorni, però, ha cominciato ad ammettere – quasi a rivendicare – di avere buttato giù la maggioranza che sosteneva Conte con l’unico obiettivo di sfrattare l’inquilino di Palazzo Chigi. Ma lo ha fatto, sostiene, solo perché voleva un governo guidato dall’ex presidente della Bce. “Tutti sapevano che Draghi era migliore di Conte, ma nessuno ha avuto il coraggio di lavorare in questa direzione”, si è vantato in una serie di interviste rilasciate alla stampa internazionale. “Questa era la mia strategia. Ho fatto tutto da solo, con il 3 per cento“, è arrivato a dire. Ammettendo dunque che tutte le richieste avanzate a Conte negli ultimi mesi – dal Mes al Recovery – erano assolutamente strumentali alla caduta dell’esecutivo.

Obiettivi raggiunto. Oggi Giuseppe Conte ha lasciato palazzo Chigi. Ha accolto il suo successore, proveniente dal giuramento del Quirinale, ha partecipato alla nota cerimonia della campanella, quindi è uscito dal palazzo che ospita la sede del governo. È uscito nel cortile dove lo attendeva il picchetto d’onore ed è stato applaudito dai dipendenti di Palazzo Chigi, che lo hanno salutato affacciandosi dalle finestre. Conte li ha ringraziati e, insieme alla compagna Olivia Paladino, è salito in macchina. Fuori dal Palazzo ha trovato una piccola folla, che si era riunita dall’altro lato della piazza e che ha intonato anche un coro “Conte Conte”.

Finisce così l’ultimo atto della “strategia” di Renzi. Che per la verità il leader d’Italia viva non ha portato avanti tutto da solo. Da tempo i principali settori di potere italiano bombardavano il governo Conte. Già nell’inverno scorso Italia viva aveva cominciato una guerra a bassa intensità: avrebbe probabilmente portato a una crisi con dodici mesi di anticipo, se non fosse scoppiata la pandemia. All’epoca il casus belli era la riforma della prescrizione, eterno campo minato che aveva già convinto Matteo Salvini a buttare giù il governo gialloverde. Dopo la pandemia, invece, la giustizia è stata soltanto uno dei prestesti utilizzati dai renziani per indebolire ogni giorno la maggioranza di cui facevano parte. Gli altri sono noti: la delega ai Servizi segreti che Conte non voleva cedere a un sottosegretario, il Mes, la cabina di regia del Recovery plan, la divisione dei fondi in arrivo da Bruxelles. Tutte istanze che sono scomparse da quando Sergio Mattarella ha dato l’incarico a Draghi. Anzi, con una giravolta tragicomica, i renziani sono arrivati a dire che adesso il Mes non serve più.

L’ennesima prova che suggerisce come l’unico vero obiettivo di Italia viva fosse sfrattare Conte da Palazzo Chigi. Un obiettivo perseguito in comunione d’intenti con diversi ambienti del potere italiano. A mettere in fila fatti e dichiarazioni d’archivio si può dire che Giuseppe Conte inizia a cadere quando ottiene da Bruxelles lo stanziamento degli ormai noti 209 miliardi di fondi per la ripartenza post pandemia. E qui va ricordata una cosa: è il premier uscente che ha consentito al nostro Paese di ottenere un risultato senza precedenti dall’Unione europea. È durante il suo mandato che l’Ue cambia diametralmente strategia, passando dall’austerità agli aiuti a fondo perduto per uscire dall’acrisi. Già dopo la fine del lockdown, quando si capisce che l’Europa avrebbe cambiato la sua politica economica per fronteggiare la crisi del Covid, che gli attacchi all’esecutivo s’intensificano. Appena si capisce che arriveranno miliardi di fondi europei si mette in moto una sorta di meccanismo. Sembra una teoria del complotto ma è l’oggetto di una denuncia di un esponetne della maggioranza. E non è un complottista grillino. “Nelle prossime settimane vivremo una serie di attacchi al governo finalizzati alla sua caduta, ispirati anche da centri economici e dell’informazione, non tanto per correggere come è lecito l’attività di governo ma per rivedere il patto di governo e riorganizzare la maggioranza”, dice il 16 maggio Andrea Orlando, vicesegretario del Pd e politico al di sopra di ogni sospetto: non faceva parte del governo Conte, mentre oggi entra in quello Draghi come ministro al Lavoro.

L’analisi del numero due di Nicola Zingaretti è lucida: l’obiettivo è far fuori il governo Conte per gestire i soldi che arriveranno dall’Europa. “Dobbiamo saperlo: gestire quei flussi finanziari fa gola a molti, e alcuni si prestano anche a operazioni politiche che vanno in questo senso. Ci parleranno della capacità comunicativa di Conte o dell’errore di questo o quel ministro, ma all’ordine del giorno c’è un altro tema, provare a vedere se si costruisce un’altra formula politica”. Quelli erano i giorni in cui Fca aveva chiesto 6 miliardi di prestiti con garanzia pubbblica, solo alcune settimane dopo aver ufficializzato l’acquisto di RepubblicaLa Stampal’Espresso e degli altri giornali e mezzi di comunicazioni del gruppo Gedi. Gli Agnelli cambiano direttore (via Carlo Verdelli dentro Maurizio Molinari) e linea editoriale: quello che un tempo era il principale quotidiano del centrosinistra italiano accentua – e di parecchio – gli attacchi nei confronti di un governo sostenuto da una maggioranza di centrosinistra. Una linea condivisa anche dagli altri principali giornali italiani: risalgono proprio a prima dell’estate i primi retroscena su un possibile cambio di governo, per virare su una formula a larghe intese. Il nome di Mario Draghi inizia ad aleggiare dietro a ogni pagina, quando editorialisti e commentatori iniziano ad auspicare l’arrivo di un premier “europeista“. E pazienza se è grazie a Conte, alla sua strategia tenuta durante i vari consigli europei, ai rapporti creati con gli altri leader dell’Unione, se alla fine Bruxelles ha deciso di stanziare per il nostro Paese la cifra di gran lunga più alta per la ripartenza post Covid.

L’estate trascorre così. L’autunno, invece, diventa caldo. Non tanto per la crisi economica che c’è e si sente, ma non provoca i pericolosi disordini sociali pronosticati – quasi auspicati – dai commentatori di ogni estrazione politica. La tensione si alza perché a settembre ci sono le elezioni regionali e il referendum sul taglio dei Parlamentari. Il centrodestra sembra avanzare, quasi ovunque Renzi corre separato dal Pd e dal M5s. A cinque giorni dal voto, Goffredo Bettini, lancia l’allarme: “Ci sono forze che vogliono normalizzare il Paese e colpire un governo libero, che non risponde a nessun potere esterno; che non accetta condizionamenti o diktat. A questo nostro profilo si oppone il “salotto buono” del capitalismo italiano che agisce anche comprando i giornali. E poi la Confindustria di Bonomi, molto aggressiva”, dice in un’intervista al Fatto Quotidiano. In cui fa esplicitamente il nome di Renzi : “Invece di lavorare per isolare la destra sovranista, favorendo una rottura con essa delle componenti moderate di Forza Italia, attacca il Pd. Di fronte alla responsabilità enorme di un buon utilizzo delle risorse del Recovery Fund, occorre parlare con una sola voce”. Secondo Bettini, però, quel tentativo di buttare giù Conte è “maldestro perché porterebbe alle elezioni ora, a cui solo la destra è interessata; oppure a un governo tecnico che umilierebbe ancora una volta la politica. Mi dispiace, su questo abbiamo già dato“. Il futuro dimostrerà che Bettini si sbagliava, anche se ci aveva visto giusto.

Il referendum sul taglio dei parlamentari passa, il Pd batte il centrodestra alle Regionali 4 a 3. A ottobre e novembre il possibile arrivo della seconda ondata di coronavirus impensierisce l’esecutivo Nel giorno dell’Immacolata, però, Matteo Renzi decide di azionare il telecomando che fa saltare in aria il governo Conte. Comincia da quel momento un lungo mese di minacce, tensioni, ricatti. Con le feste natalizie alle porte il Paese è attraversato dalla seconda ondata della pandemia. Italia viva sembra vivere fuori dal mondo: invece di parlare di Covid attacca l’esecutivo a ogni giorno e a ogni ora. Un escalation continua che porta prima al ritiro dei ministri, poi alle dimissioni del premier, quindi al mandato esplorativo di Roberto Fico, sabotato dai renziani. Alla fine ecco Draghi, il governo tecnico, le larghe intese. Nel nuovo esecutivo su 15 ministri politici, otto lo erano anche nel governo Conte 2, tre nel Conte 1, uno è Orlando, tra i primi sostenitori del presidente del consiglio uscente. Tra i tecnici viene confermata al Viminale Luciana Lamorgese, mentre va alla Transizione tecnoligica Vittorio Colao, l’uomo scelto sempre dall’ex premier come guida della task forze per studiare la ripartenza del post pandemia. Manca lui, Giuseppe Conte, che oggi lascia Palazzo Chigi: tra 36 giorni avrebbe superato il record di Renzi.

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