sabato 17 luglio 2021

I veri anti-italiani. - Marco Travaglio

 

Da una settimana i migliori pennivendoli del bigoncio ci accusano di essere anti-italiani e anti-patriottici perché non ci siamo uniti al coro di retorica per la vittoria della Nazionale (anzi di Draghi) agli Europei di calcio e alle notti magiche inseguendo il Covid. Il caso vuole che proprio un anno fa, il 17 luglio 2020, iniziasse il Consiglio d’Europa decisivo sul Recovery Fund. E fu chiaro a tutti chi fossero gli anti-italiani: non chi tifava contro una squadra di calcio, ma chi tifava contro il proprio Paese piegato e piagato dalla pandemia. Riavvolgiamo il nastro e facciamo un po’ di nomi e cognomi.

23 marzo 2020. Dopo 12 giorni di lockdown, il premier Giuseppe Conte convince i leader di Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Irlanda, Lussemburgo e Slovenia a firmare una “Lettera dei Nove” al presidente del Consiglio Europeo Charles Michel per proporre un piano di ricostruzione finanziato con gli Eurobond (o “Coronabond”).

26 marzo. Renzi e Salvini, in Parlamento, invocano la caduta del governo e un’ammucchiata guidata da Draghi. I patrioti de La Verità titolano: “Conte pronto a svendere l’Italia. Vuole ricorrere al Mes, una trappola che ci consegnerà alla troika”. Uscito dalla bolgia parlamentare, Conte si collega con Bruxelles per il Consiglio Ue: non finisce a botte solo perché i leader sono in videoconferenza. Germania, Austria, frugali del Nord e fronte Visegrad pro Mes, Italia e gli altri otto pro Recovery (spalleggiati da Lagarde e Sassoli). Conte: “Se qualcuno di voi pensa ai meccanismi del passato, non si disturbi: ve li potete tenere, l’Italia non ne ha bisogno e farà da sé”. Merkel: “Giuseppe, il Mes è lo strumento che abbiamo, non capisco perché tu voglia minarlo…”. Conte: “Angela, state guardando alla realtà di oggi con gli occhiali di dieci anni fa. Il Mes è stato disegnato nella crisi dell’euro per Paesi che hanno commesso degli errori”. Macron: “Il Mes serve per gli choc asimmetrici su singoli Paesi. Questa pandemia è uno choc simmetrico: ci riguarda tutti”. Rutte: “Non siamo pronti per gli Eurobond, dobbiamo tenere in serbo delle armi in caso di scenari peggiori”. Sánchez: “Perché, cosa può esserci di peggio della strage che oggi attanaglia l’Europa?”. Qualcuno, visto lo stallo, propone un rinvio, ma Conte batte i pugni: “Le conseguenze del Covid vanno affrontate domattina, non nei prossimi mesi. Altrimenti cosa diremo ai nostri concittadini che ci chiederanno che senso ha questa casa comune? Non avremo risposte”. E blocca il summit col veto, rifiutando con Sánchez di sottoscrivere qualunque conclusione, finché non ottiene l’impegno dell’Eurogruppo a proporre il Recovery Fund entro due settimane.

27 marzo. Anziché fare fronte comune col governo, che dopo anni di parole al vento difende gli interessi dell’Italia in Europa, la destra “sovranista” e la stampa “indipendente” si scatenano. Non contro il Covid, ma contro Conte. Anche a costo di falsificare, anzi ribaltare il senso del vertice Ue e di un intervento di Draghi in favore della proposta di Conte e degli altri otto governi Ue. Stampa: “Cresce il partito di Draghi”. Repubblica: “Bellanova: ‘Serve una classe dirigente all’altezza. Draghi ha sguardo lungo e coraggio’”. Messaggero: “La spinta di Draghi”. Foglio: “Il manifesto di Draghi è un perfetto programma di governo”, “Montezemolo: alleanza trasversale per salvare l’Italia”. Giornale: “Chiamate Draghi”. Verità: “Giuseppi non è capace, chiamate subito Draghi”, “Conte finge di vincere dopo aver fallito”. Libero: “L’Ue ci prende in giro e non decide nulla. Il premier fa l’offeso”.

2 aprile. Visto che molti governi dicono no agli Eurobond per la diffidenza dei loro elettorati sul nostro debito-monstre, Conte decide di chiarire la sua proposta anzitutto alle opinioni pubbliche con una serie di interviste a tv e giornali europei (Financial Times, El País, De Telegraaf, Die Zeit, Ard, La Sexta, Süddeutsche Zeitung). E apre le prime crepe nel fronte del nord. Ma i suoi peggiori nemici sono l’establishment italiano e i suoi giornaloni, che fanno il tifo contro il governo impegnato nell’eurobattaglia mortale.

10 aprile. Salvini scatena l’inferno. Siccome tutti i ministri delle Finanze Ue hanno deciso di eliminare una serie di condizionalità dal Mes (senza che nessuno chieda il prestito), parla di “Caporetto” per l’Italia: “Non ci sono gli Eurobond di Conte, ma c’è il Mes. Sfiduciamo Gualtieri”. La Meloni accusa l’esecutivo di aver firmato il Mes, nottetempo e di nascosto, e Conte di “alto tradimento” e “spergiuro”. Le destre, sui social, aizzano a ribellarsi contro il governo che “svende l’Italia”.

11 aprile. Conte incontra la stampa e risponde a una domanda sulle accuse delle due destre: “Il Mes esiste dal 2012 (grazie al governo B. con Lega e Meloni, ndr), non è stato istituito ieri o attivato la scorsa notte, come falsamente e irresponsabilmente dichiarato – faccio nomi e cognomi – da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Questo governo non lavora col favore delle tenebre. Non abbiamo firmato alcuna attivazione del Mes, l’Italia non ne ha bisogno e lo ritiene inadeguato. Per la prima volta abbiamo messo nero su bianco il Recovery. Abbiamo bisogno di tutti i cittadini italiani. Le menzogne ci indeboliscono nella trattativa”. E subito parte una canea assordante: non contro chi lancia le fake news, ma contro il premier che osa smentirle.
(1 – continua)

ILFQ

Violenze al G8: con la “Cartabia” zero condanne. - Marco Grasso e Alessandro Mantovani

 

Il massacro della scuola Diaz, i depistaggi e i verbali falsi firmati da funzionari ai vertici della polizia italiana, secondo Amnesty International “la più grave violazione dei diritti umani in un Paese democratico avvenuta nel Dopoguerra”. Gli orrori della caserma di Bolzaneto, dove vennero portati i manifestanti arrestati illegalmente, torturati per giorni, umiliati, costretti a ripetere slogan fascisti e nazisti da uomini (e donne) delle forze dell’ordine. E ancora: ricordate Alessandro Perugini, l’esperto vicecapo della Digos in jeans e maglietta gialla che tira un calcio a un ragazzino allora minorenne, che poi compare insanguinato e con un occhio tumefatto? O l’ex questore di Genova, Francesco Colucci, processato per falsa testimonianza per aver tentato di proteggere gli imputati della Diaz e l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro? Tutti e due prescritti.

Nei giorni in cui si celebra il ventennale del G8 di Genova del 2001, la riforma della Giustizia del ministro Marta Cartabia sta per approdare in Parlamento. La norma cancella la legge dell’ex guardasigilli M5S Alfonso Bonafede, che per i fatti successivi al gennaio 2020 sospende la prescrizione dopo la condanna in primo grado. E di fatto la reintroduce, chiamandola però “improcedibilità”: i processi si fermano se durano più di due anni in appello e uno in Cassazione. Che ne sarebbe stato dei processi per il G8? Nessuno, con quelle regole, sarebbe arrivato in fondo.

La “macelleria messicana”.

Il copyright è di Michelangelo Fournier, uno dei funzionari finiti a processo. Coniò anche la grottesca definizione di “colluttazioni unilaterali”. In altre parole: le botte le avevano date solo i poliziotti a 93 persone indifese e inermi, arrestate per reati inventati. La ciliegina sulla torta furono due bottiglie Molotov, portate nella scuola proprio dai poliziotti (e incredibilmente sparite durante il processo: le custodiva la polizia). Sono state la chiave di un processo terribile, condotto da due pm, Enrico Zucca e Francesco Cardona, trattati con sufficienza da gran parte dei media e dalla politica, osteggiati dalla polizia (molti degli agenti picchiatori non sono mai stati identificati) e poco sostenuti anche dal capo della Procura.

Di tutte le accuse di lesioni personali rivolte a pubblici ufficiali per il G8 di Genova la prescrizione non ne ha lasciata in piedi neanche una. Si sono prescritte perfino le lesioni gravi contestate ai capisquadra del reparto ex Celere di Roma, gli uomini di Vincenzo Canterini e di Fournier. Prescritte le calunnie e gli arresti illegali. Furono condannati solo i responsabili del gigantesco depistaggio, cioè coloro che firmarono (o da capi ispirarono) i falsi verbali della Diaz. Non proprio tutti: il quindicesimo firmatario non fu mai identificato, nessuno ne fece il nome, un caso limite di ufficiale di polizia giudiziaria rimasto anonimo… Però il processo è finito con la condanna a quattro anni di un dirigente come Francesco Gratteri, che 20 anni fa guidava lo Sco – il Servizio centrale operativo, l’élite investigativa della polizia –, era stato promosso prefetto da imputato e studiava da capo della polizia. Tre anni e otto mesi al suo vice Gilberto Caldarozzi e a diversi dirigenti e funzionari delle Squadre mobili.

Cosa sarebbe accaduto con la riforma Cartabia? L’appello (2010) si è tenuto entro due anni dal primo grado (2008). Ma la durata del processo di Cassazione (arrivato nel 2012, dopo 1 anno e 11 mesi) avrebbe fatto saltare in aria ciò che ne rimaneva. Con la riforma di Bonafede, invece, le condanne di primo grado per lesioni sarebbero potute diventare definitive.

Le sevizie nella caserma.

I manifestanti arrestati alla scuola Diaz furono trasferiti alla caserma di Bolzaneto, l’altro grande black-out costituzionale di quei giorni. Persone sotto custodia dello Stato subirono abusi e vessazioni terrificanti: costretti a stare in piedi per ore, nella posizione del cigno o della ballerina, picchiati e umiliati, seviziati, costretti a ripetere slogan antisemiti o inneggianti alla dittatura di Pinochet, detenute denudate e oggetto di insulti a sfondo sessuale. Come nel caso Diaz il processo, condotto dai pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, scontava l’assenza, in Italia, di una legge sulla tortura. E come nel processo Diaz, la sentenza di primo grado (il 14 luglio 2008) fu complessivamente più favorevole agli imputati (agenti, funzionari e medici di polizia penitenziaria, più carabinieri e poliziotti): 16 condannati, 29 assolti; riconosciuti solo una trentina dei 120 capi di imputazione. In secondo grado la sentenza fu pronunciata il 5 marzo 2010 (meno di due anni dopo): quasi tutti colpevoli. Ma la maggior parte dei reati erano ormai prescritti. Particolare non trascurabile: chi viene condannato per reati prescritti è comunque responsabile in sede civile, infatti stanno versando i risarcimenti anticipati dai ministeri dell’Interno e della Giustizia. Con la riforma Cartabia, su questo punto, non si sa ancora: cosa accadrà alle vittime quando una condanna di primo grado finirà nella tagliola dell’improcedibilità?

Nel caso Bolzaneto, però, nemmeno la legge Bonafede avrebbe evitato le prescrizioni: la stesura finale non sospende la prescrizione in caso di assoluzione in primo grado. Se invece fosse stata in vigore la riforma Cartabia, il processo sarebbe stato dichiarato improcedibile in Cassazione, con l’azzeramento anche delle sette condanne rimaste in piedi. La più alta al poliziotto Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi), responsabile della divaricazione fino all’osso della mano di un giovane manifestante. Nessuna prescrizione, invece, per le accuse di devastazione e saccheggio che hanno portato a condanne fino a 15 anni per una decina di manifestanti.

La ferita alla democrazia italiana, invece, è stata certificata da due condanne della Corte europea per i diritti umani: era stata tortura, sia a Bolzaneto che alla Diaz. E così, solo nel 2017, l’Italia si è dotata di una legge in materia, per quanto discutibile nel merito. Mancano tuttora, però, le norme necessarie ad allontanare i responsabili dai corpi di appartenenza e a rendere riconoscibili gli agenti attraverso codici alfanumerici, come reclama la stessa Corte europea. Per i giudici di Strasburgo non c’è dubbio: la tortura non deve andare in prescrizione, è un reato troppo grave che giustifica anche lunghi processi. L’Italia per ora ha fatto solo il minimo.

ILFQ

Ecco perché il Green pass è costituzionale e può limitare alcune libertà. - Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani

 

La Costituzione tutela la salute come interesse della collettività ed è quindi ammissibile limitare la libertà di chi non si vaccina, ma le cure vanno garantite a tutti.

I punti chiave


Alla sola ipotesi di introdurre anche in Italia il possesso del green pass per consentire l’accesso a stadi, ristoranti e altri luoghi pubblici si è risposto soprattutto con slogan. L’idea è stata liquidata come uno scherzo dal leader della Lega, definita addirittura «raggelante» da Giorgia Meloni, in insanabile contrasto con la libertà individuale «sacra e inviolabile». Dall’altra parte, non manca chi auspica una soluzione del genere come una sorta di giusta punizione per i reprobi che si sono sottratti al dovere etico di vaccinarsi e propone addirittura di far pagare le cure a chi si ammala «per colpa sua».

Tutto ciò distrae da una questione che è, invece, terribilmente seria e davvero merita di essere sottratta alla propaganda, specie ora che la maggioranza degli italiani ha ricevuto almeno la prima dose e quindi una prospettiva del genere diventa assai più concreta.

Quando la campagna vaccinale stava per partire ci eravamo chiesti se lo Stato avrebbe potuto costringere i cittadini alla profilassi. Anche allora, infatti, alcuni si opponevano per principio sventolando il vessillo della libertà, quasi mai però declinandone un significato intellegibile.

Cosa dice la Costituzione.

Nella nostra Costituzione, dicevamo, la salute non è tutelata solo come diritto fondamentale del singolo ma altresì come interesse della collettività. Ciò consente l’imposizione di un trattamento sanitario se diretto «non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri», come ha stabilito la Corte costituzionale nel 2018.
D’altro canto, la Costituzione stessa consente di introdurre limiti alla libertà di circolazione proprio per motivi di sanità. Intravediamo quindi lo spazio per istituire, per legge, non tanto una prescrizione, un trattamento sanitario obbligatorio, quanto qualcosa che somigli a un onere.

Per chi scatta l’obbligo del vaccino.

Si potrebbe subordinare alla vaccinazione l’esercizio di professioni che impongono il contatto con molte persone, a maggior ragione quando si tratta di persone fragili. Pensiamo a medici, insegnanti, forze dell'ordine.
Alla medesima condizione potrebbe essere sottoposta la partecipazione a eventi o contesti in cui il contagio rischia di diffondersi con rapidità, come concerti, stadi, discoteche e persino ristoranti o mezzi di trasporto pubblico.
Non vedremmo particolari difficoltà a estendere simili limitazioni alla frequentazione di scuole o luoghi di culto, qualora si dimostrasse che appunto si tratta di contesti ove il virus circola in modo più veloce.

E ciò non solo per evitare la diffusione di focolai, ma anche per consentire alle persone che non possono usufruire del vaccino per ragioni di salute – che sarebbero ovviamente esonerate dall'onere del “green pass” – di esercitare quei diritti che altrimenti sarebbero loro preclusi per elementari ragioni di prudenza.

Le condizioni per l’obbligo.

Certo, tutto ciò ad alcune condizioni: che la scienza garantisca, entro i confini in cui può farlo, la sicurezza dei vaccini e la loro indispensabilità per superare la pandemia; che sia diffusa una campagna di capillare informazione circa i molti benefici e i lievi rischi; che sia consentito a chiunque intenda vaccinarsi di farlo.

Questo scrivevamo mesi fa e questo sottoscriviamo oggi quando quelle condizioni che allora auspicavamo sembrano essersi tutte verificate. Sicché non vediamo difficoltà a che il Parlamento introduca limitazioni per chi avrebbe potuto vaccinarsi e ha scelto di non farlo. Ci pare infatti che una simile iniziativa corrisponda a un bilanciamento fra beni giuridici ben orientato dal punto di vista costituzionale. In particolare, di fronte a una pandemia che mette a serio rischio la vita, bene primario in assenza del quale gli altri beni nemmeno esisterebbero, questi ultimi ben possono essere compressi per tutelare il primo.

Vale il principio di ragionevolezza.

Come si opera questo bilanciamento? In base ad alcune regole note, declinate seguendo il principio di ragionevolezza. Possiamo ricordarne alcuni: i beni collettivi possono fare premio su quelli individuali; in base al principio di solidarietà, le persone più deboli debbono essere tutelate; in base a quello di responsabilità, chi si è posto in una posizione di rischio che avrebbe potuto evitare senza difficoltà, può essere, in una certa misura, meno tutelato di chi quella stessa posizione di rischio non ha potuto evitare; infine, situazioni emergenziali possono giustificare una maggiore compressione, per il tempo strettamente necessario, di alcuni diritti fondamentali.

Lo ribadiamo: la legge può limitare, senza comprimerla del tutto, la libertà di movimento e di riunione di chi, potendo vaccinarsi, non l’ha fatto per sua libera scelta, contro l’opinione della comunità scientifica. Ciò, al fine di debellare il virus e garantire l’esercizio pieno di tali libertà alle persone escluse dalla profilassi per motivi di salute.

In quest’ottica qualcuno addirittura ipotizza di escludere dalle cure chi abbia rinunciato alla prevenzione. Non condividiamo una simile soluzione, almeno oggi in cui non esiste una scarsità di risorse tali da imporre scelte drammatiche. Accettare questa impostazione significa porsi su una china pericolosa e in contrasto con l’idea della salute come diritto assoluto, di cui si gode indipendente dalle scelte di vita. All’estremo, infatti, seguendo questa “strada” gli ospedali potrebbero “respingere” chi ha avuto una condotta di vita poco sana, oppure a chi si è messo in pericolo o a chi ha attentato alla propria vita.
E noi preferiamo vivere in un Paese che si prende cura di fumatori obesi, appassionati di sport estremi e aspiranti suicidi.

IlSole24Ore

La Germania devastata dalle inondazioni, oltre 130 morti.

 

In totale i morti in Europa sono 157.


Si aggrava il bilancio delle vittime del maltempo che sta devastando in questi giorni Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Svizzera. Il Paese più colpito è la Germania dove il numero delle persone morte a causa delle alluvioni è salito a 133.

In totale i morti in Europa sono 153. Lo riferiscono fonti ufficiali tedesche. La polizia di Coblenza ha fatto sapere che "secondo le ultime informazioni disponibili 90 persone hanno perso la vita" nella regione della Renania-Palatinato, una delle più colpite. A queste si aggiungono le 43 vittime nella Renania Settentrionale-Westfalia e le 24 persone morte in Belgio. 

"Nessuno può dubitare che questa catastrofe dipenda dal cambiamento climatico". Lo ha detto il ministro dell'Interno Horst Seehofer, parlando allo Spiegel. "Un'alluvione con così tante vittime e dispersi io non l'ho mai vissuta prima". Il ministro ha promesso aiuti per le aree colpite, e sollecitato maggiore impulso alle politiche ambientali.

"I nostri pensieri sono con le famiglie delle vittime delle devastanti alluvioni in Belgio, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi e con coloro che hanno perso la casa. L'Ue è pronta ad aiutare". Così la Commissione europea in un tweet, precisando che "i paesi interessati possono rivolgersi al meccanismo di protezione civile dell'Unione europea".

Il commissario per la gestione delle crisi Janez Lenarčič ha dichiarato che "l'Ue è pienamente solidale con il Belgio in questo momento difficile e sta fornendo un sostegno concreto. Esprimiamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari". L'Ue sta anche fornendo la mappatura satellitare di emergenza Copernicus con mappe di valutazione delle aree colpite.

Le vittime delle alluvioni che hanno colpito il Belgio salgono ad almeno 24. Lo hanno reso noto le autorità belghe, sottolineando la difficoltà di raggiungere un gran numero di persone a causa di blackout e interruzioni delle reti telefoniche. Dalla serata di ieri il tempo è migliorato in tutto il Belgio e il livello dei fiumi si sta abbassando. Sono circa 120 i comuni colpiti, principalmente nel sud e nell'est del Paese. Il primo ministro belga, Alexander De Croo, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si trovano ora nelle aree più colpite per incontrare residenti, soccorritori e funzionari locali.

ANSA

Il covid arriva a Tokyo 2020, 15 positivi ai Giochi. -

 

Tra soli sei giorni l'inizio delle Olimpiadi.


Il primo caso di coronavirus è stato registrato nel Villaggio Olimpico di Tokyo, quando mancano solo sei giorni all'inizio dei Giochi: lo hanno reso noto oggi gli organizzatori. "C'e' stata una persona nel Villaggio.

E' stato il primo caso nel Villaggio che è stato segnalato durante i test", ha detto Masa Takaya, il portavoce del comitato organizzativo delle Olimpiadi. Le autorità non hanno reso nota l'identità della persona, che è stata portata in un hotel e messa in isolamento, ha spiegato il portavoce. Da parte sua la presidente di Tokyo 2020, Seiko Hashimoto, ha detto che "stiamo facendo tutto il possibile per prevenire qualsiasi focolaio di Covid. Se dovessimo ritrovarci con un focolaio, ci assicureremo di avere un piano in atto per rispondere".

In tutto sono 15 i contagi da Covid riscontrati a Tokyo tra persone legate in vari modi ai Giochi, tra cui il primo caso di Covid segnalato all'interno del villaggio olimpico che riguarda, precisa l'organizzazione, una persona proveniente dall'estero e non un atleta, di cui non è stata rivelata nè l'identità nè lo stato di salute. Le altre persone infettate sono 7 lavoratori a contratto, sei dipendenti del comitato organizzatore locale e due rappresentanti dei media. Dei positivi, 8 sono arrivati a Tokyo dall'estero da meno di due settimane, 7 risiedono in Giappone. Non è chiaro se queste persone abbiano avuto accesso al Villaggio olimpico.

 A meno di una settimana dall'inizio delle Olimpiadi, Tokyo registra un nuovo massimo giornaliero dei casi di Covid in quasi sei mesi. Il governo metropolitano della capitale ha segnalato 1.410 positività: si tratta del livello più alto dal 21 gennaio, con una tendenza in continua ascesa che ha superato quota 1.000 per il quarto giorno consecutivo.  L'amministratore delegato di Tokyo 2020, Toshihiro Muto, ha detto che da un test condotto nel Villaggio olimpico è emersa una positività, ma il caso è solo uno dei 15 riscontrati nella giornata di sabato tra i lavoratori impegnati nell'organizzazione della manifestazione sportiva e vario personale legato ai Giochi. Si tratta del numero di contagi più alto registrato nell'entourage olimpico dal primo luglio, quando il comitato ha iniziato a compilare le statistiche, e non include gli atleti impegnati nei camp pre-estivi. Dal primo luglio ci sono stati un totale di 45 infezioni di coronavirus segnalati dagli organizzatori. Aperto dallo scorso martedì, il villaggio olimpico è composto da 21 palazzi capaci di ospitare fino a 18 mila letti. Il presidente del Comitato olimpico internazionale (CIO), Thomas Bach, in Giappone dall'8 luglio, ha garantito al premier giapponese, Yoshihide Suga, che l'85% degli atleti è immunizzato. La cerimonia di apertura delle Olimpiadi è in programma il 23 luglio, allo Stadio nazionale di Tokyo. (

ANSA