In attesa della sentenza del processo di secondo grado ecco tutto quello che c'è da sapere sul processo di Palermo: dalle condanne di primo grado e la ricostruzione dell'accusa alle richieste delle difese, passando per quelli che possono essere i punti deboli del procedimento, come l'assoluzione in via definitiva di Mannino. E poi il silenzio di Berlusconi, citato come teste da Dell'Utri, il ruolo degli altri ufficiali dei carabinieri e le parole di Riina sussurrate a un agente di Polizia penitenziaria durante una pausa del procedimento di primo grado: "Erano loro che cercavano me”.
Lo Stato può processare se stesso? È la domanda che da oltre un decennio accompagna le indagini sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Dopo tre anni di indagini e cinque di processo, i giudici di primo grado avevano risposto affermativamente: non solo lo Stato può processare se stesso, o meglio alcuni suoi esponenti, ma li può pure condannare. E infatti il 20 aprile del 2018 la corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto aveva considerato colpevoli quasi tutti gli imputati del processo sul Patto segreto che durante la stagione delle bombe aveva portato lo Stato a cedere alla minaccia dei boss. Ora, però, tocca ai giudici del processo di secondo grado esprimersi. Nella tarda mattinata del 20 settembre la corte d’Assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino e con a latere Vittorio Anania, si è ritirata in camera di consiglio all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Dovrà decidere se dare ragione alla pubblica accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che ha chiesto di confermare tutte le condanne del primo grado. Oppure se ascoltare i difensori degli imputati, sconfessando dunque le oltre cinquemila pagine con le quali la corte d’Assise aveva motivato la sentenza del 2018.
Le condanne di primo grado – Quel giorno i giudici avevano condannato a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Totò Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.
Il reato contestato – Gli imputati condannati in primo grado sono stati tutti riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. In pratica sono stati condannati per aver veicolato al governo l’intimidazione della mafia: altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. La minaccia dei boss, secondo la sentenza di primo grado, è stata “trasmessa” in un primo momento dagli alti ufficiali dei carabinieri che presero contatti con Vito Ciancimino, e in un secondo momento da Dell’Utri, fondatore di Forza Italia e storico braccio destro di Berlusconi. E dunque mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inermi cittadini nelle stragi di Firenze e Milano, uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati il canale che ha condotto fino al cuore dello Stato la minaccia violenta dei corleonesi.
Il Maxi Processo e l’inizio della stagione delle bombe – È Riina l’uomo che decide di dichiarare guerra allo Stato quando diventano definitivi gli ergastoli del Maxi Processo istruito da Falcone e Borsellino. C’è una data che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992. Quel giorno a Roma la Cassazione condanna i boss mafiosi al carcere a vita: è la prima volta che succede, nonostante i politici avessero assicurato il contrario. È il “fine pena mai” lo spettro che scatena la furia del capo dei capi di un’organizzazione criminale all’epoca capace di un’enorme potenza di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare nelle campagne di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi“. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Il primo è Salvo Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero uno della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto a Giulio Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scriveva Falcone su La Stampa, poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci. “Fare la guerra per fare la pace“, è quello che andava dicendo in quel periodo Riina ai suoi soldati più fidati. Come Brusca, che in aula ha ricordato: “A fine giugno Riina disse: si sono fatti sotto, ci vuole un altro colpetto”. Era il 2013, invece, quando, durante una pausa del processo di primo grado, lo stesso Riina si era rivolto con queste parole a un agente di Polizia penitenziaria: “Ma io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”.
I punti deboli: l’assoluzione definitiva di Mannino – Chi è che si era fatto sotto con Riina? Chi erano quelli che cercavano il capo dei capi? Secondo l’accusa i carabinieri di Subranni e Mori, attivati da Calogero Mannino, intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Questo passaggio, che è poi il prequel della Trattativa, è il principale punto debole della ricostruzione operata a suo tempo dalla procura di Palermo e confermata dalla procura generale – fino a poco tempo fa guidata da Roberto Scarpinato – nel processo d’Appello. Mannino, infatti, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assolto in via definitiva. Nell’aprile del 2018, quando il giudice Montalto ha condannato gli imputati del procedimento principale, l’ex ministro della Dc era stato assolto solo in primo grado. La corte d’Assise dribblò quella sentenza così: “Subranni ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”. Ora però la sentenza di assoluzione di Mannino è stata confermata in via definitiva: non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò a combatterla. Seguendo questa ricostruzione i giudici definiscono la tesi dell’accusa “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”. Per cercare di confutare queste critiche, i sostituti pg Fici e Barbera hanno depositato agli atti del processo d’Appello una complessa e dettagliata memoria.
I dubbi sul reato e l’accelerazione dell’uccisione di Borsellino – L’altro punto che può rappresentare una crepa nella tesi della pubblica accusa è rappresentato dal reato contestato agli imputati. Non esiste infatti il reato di Trattativa, neanche quando si tratta d’interloquire con la mafia. E infatti ai mafiosi, ai carabinieri e a Dell’Utri viene contestata la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato: il reato che hanno compiuto è quello di aver veicolato la minaccia stragista di Cosa nostra fino al governo in carica in quel momento. E in questo modo hanno incoraggiato la convinzione di Riina: piazzare bombe era una buona strategia. “Al governo gli devo vendere morti, al governo morti gli devono dare”, diceva il capo dei corleonesi in una delle tante intercettazioni in carcere dell’inverno 2013. E’ per questo motivo, sempre secondo la corte d’Assise, che meno due mesi dopo Falcone salta in aria pure Borsellino. Per quale motivo, visto che dopo pochi giorni il Parlamento avrebbe dovuto votare il decreto sul 41-bis – il cosiddetto carcere duro per i mafiosi – e in quel momento una maggioranza in grado di approvarlo non c’era? Quel decreto sarà votato subito dopo la strage di via d’Amelio: a che pro dunque alzare il tiro, provocando la reazione dello Stato? Semplice: dopo la strage di Capaci a Cosa nostra era arrivato un segnale. “Non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”, è uno dei passaggi fondamentali delle motivazioni delle condanne di primo grado. “Le stesse menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa, consentono a Riina di dire che lo Stato si è fatto sotto e ciò induce ulteriore violenza“, ha detto il pg Fici durante la requisitoria.
Il ruolo di Dell’Utri, l’uomo cerniera – Comincia la Trattativa e tra gli oggetti dello scambio c’è pure la stessa libertà di Riina: che infatti viene arrestato nel gennaio del 1993 proprio dagli uomini di Mori. Sarà un caso, ma tra le frasi che il capo dei capi decide di farsi sfuggire chiacchierando con l’agente penitenziario, ci sono anche queste parole: “Io sono responsabile di tutte queste cose? A me mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono i carabinieri”. Di sicuro c’è solo che subito dopo l’arresto il covo di Riina a Palermo non viene perquisito proprio per decisione dei militari: due settimane dopo, quando finalmente gli investigatori entrano nella villa che aveva ospitato la latitanza del capo dei capi, non trovano nulla. Mani ignote hanno ripulito ogni stanza, svuotato la cassaforte e ritinteggiato persino le pareti. Il bastone del comando di Cosa nostra, con annessi documenti top segret e segreti inconfessabili, finisce nelle mani di Provenzano. Secondo la ricostruzione dell’accusa, dopo l’arresto di Riina e dei fratelli Graviano “i pezzi deviati dello Stato che avevano sostenuto la trattativa hanno garantito una latitanza protetta per Bernardo Provenzano“.
L’assoluzione post 1992 e i soldi a Cosa nostra – E’ in quel momento, mentre il sistema politico italiano veniva travolto da Tangentopoli e le bombe mafiose insanguinavano il Paese, che succede qualcosa di nuovo. “Nasce Forza Italia“, ha fatto notare la procura generale nella requisitoria, definendo Dell’Utri come l’uomo che in quel momento ha “curato la tessitura dei rapporti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta e il potere politico“. Problema: per i contatti con Cosa nostra successivi al 1992 Dell’Utri è stato già assolto in via definitiva, nella stessa sentenza che invece lo ha condannato per concorso esterno relativamente al periodo precedente. “I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica”, aveva commentato all’epoca l’ex senatore. Analisi assolutamente condivisibile e che infatti i giudici del processo di primo grado hanno condiviso. “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″, si legge nelle 5252 pagine delle motivazioni redatte dalla corte d’Assise. Che considera provato un fatto decisivo: i pagamenti da Berlusconi a Cosa nostra non si sono interrotti nel 1992 ma sono proseguiti “almeno fino al dicembre 1994″, quando cioè Berlusconi era entrato già a Palazzo Chigi. Il tramite di questo legame è sempre Dell’Utri, che “interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui con il medesimo Mangano, così che non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di pressione”.
Le leggi a favore dei boss raccontate ai boss – A leggere la sentenza di primo grado, in pratica, non solo il primo esecutivo guidato da Forza Italia portò avanti progetti di legge favorevoli a Cosa nostra, ma gli stessi mafiosi vennero a sapere di quelle norme molto prima dei ministri competenti. “Ci si intende riferire al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazine da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. La norma in questione, in pratica, aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi. Che cosa voleva dire tutto ciò? Per i giudici del primo grado che le richieste di Cosa nostra arrivarono a Palazzo Chigi: “Anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione – scrivono – e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”.
Il testimone B. non risponde – Una ricostruzione che naturalmente i legali di Dell’Utri contestano completamente. Per dimostrare che l’ex senatore non è un mafioso ma un manager appassionato di libri antichi – nonostante la condanna definitiva per concorso esterno – l’avvocato Francesco Centonze ha chiamato come teste proprio Berlusconi. L’ex cavaliere avrebbe dovuto difendere quello che è uno dei suoi amici più antichi. E invece ha preferito produrre una documentazione che attesta il suo status d’indagato da parte della procura di Firenze per le stragi del 1993 e avvalersi della facoltà di non rispondere. “E’ meglio che non dico quello che penso. Ricordo solo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte di assise d’appello di Palermo. Qui c’è la vita di Marcello in gioco”, disse in quei giorni Miranda Ratti, consorte di Dell’Utri. Non sono imputati in questo procedimento ma giocano un ruolo nella ricostruzione dell’accusa anche i fratelli Graviano. Mentre a Palermo si celebrava l’appello della Trattativa, Giuseppe Graviano ha tenuto il suo show davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria: ha parlato di “imprenditori del nord che non volevano fermare le stragi”, ha sostenuto di aver incontrato Berlusconi “almeno tre volte” a Milano mentre era latitante, di averlo conosciuto tramite suo nonno, che negli anni ’70 avrebbe finanziato l’uomo di Arcore con venti miliardi di lire. Accuse tutte da dimostrare, che per l’avvocato Niccolò Ghedini erano “palesemente diffamatorie”, anche se non si è poi avuta notizia di una denuncia da parte del legale dell’ex premier. Anche i sostituti pg di Palermo le hanno valutate come scarsamente credibili e non le hanno prodotte agli atti del processo. Nel frattempo la tranche dell’inchiesta sulla Trattativa in cui era ancora indagato lo stesso Graviano è stata archiviata perché è scattata la prescrizione.
Chi è il presidente della Corte d’Assise – È su questo che si basa il processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Un procedimento complesso, che dieci anni fa portò a uno scontro frontale tra la procura di Palermo e il Quirinale per il caso delle intercettazioni tra Mancino e Giorgio Napolitano. E che ha incrociato negli anni decine di indagini e processi celebrati da altre procure: l’ultimo è quello sulla cosiddetta ‘Ndrangheta stragista. Prima c’era stato il cosiddetto Borsellino quater, sulla strage di via d’Amelio, celebrato a Caltanissetta. Ma ci sono anche le indagini fiorentine sulle bombe del 1993 e il fallito attentato allo stadio Olimpico del 1994, che vedono indagati Berlusconi e lo stesso Dell’Utri. Senza considerare quello per il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel 1995, dal quale il generale Mori è stato assolto in via definitiva. E’ su questo che la corte d’Assise Appello presieduta da Pellino è chiamata ad esprimersi. Il giudice è noto perché da presidente della corte d’Assise di Trapani ha celebrato il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, condannando all’ergastolo il boss Vincenzo Virga. In precedenza è stato il giudice a latere che ha redatto le motivazioni della sentenza sull’omicidio di Mauro De Mauro: nonostante l’assoluzione di Riina quelle pagine legano la scomparsa del giornalista de L’Ora all’assassinio di Enrico Mattei. Insomma, a decidere su un processo che fa luce su uno dei periodi più misteriosi della storia di questo Paese è un giudice che ha una lunga esperienza sui misteri italiani.
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