Sul momento, quando Giorgia Meloni esclamò: “Vogliamo un patriota al Quirinale e non accettiamo compromessi”, intonai l’Inno di Mameli, impettito e con la mano sul cuore vibrante. Subito però mi domandai chi tra i molteplici candidati potesse essere definito patriota da capo a piedi, vestito e calzato. Ella non dubitò: il prode Berlusconi, perché indomito difese l’interesse nazionale, e fu perciò “mandato a casa dalle consorterie europee” (e il Piave mormorò non passa lo straniero, zum zum). Mentre per Draghi la liderissima non ebbe purtuttavia elementi per dire se fosse “patriota”. E qui cascò l’asino, perché nella mia visione piuttosto ginnasiale la parola patriota era sempre associata alle solenni litografie di Ciro Menotti e dei martiri di Belfiore, condannati al patibolo dall’odioso occupante austriaco. E la domanda sorse spontanea: il patriota candidato al Colle doveva necessariamente essere votato all’estremo sacrificio? Immagine forte quella dell’ex Cavaliere che, novello Garibaldi (però in camicia nera), incita i mille del Quirinale (arruolati a suon di talleri): “O Roma o morte”. Poiché sul sacro Colle giammai salirà il Pd (che per l’orgoglio e per la fame volea il nemico sfogare le sue brame).
Addolora, tuttavia, che la Sorella d’Italia non abbia riscontrato, con assoluta certezza, nel Migliore fra tutti quegli “elementi” patriottici così evidenti, per dire, nell’intrepido La Russa o nell’ardimentoso Lollobrigida. Mentre, patrioti leggendari, in quel di Atreju si strinsero a coorte il baldo Cassese e l’eroico Pera. Purtroppo, impossibilitato a presenziare, fu il Silvio Pellico di Fivizzano ristretto prima nello Spielberg di Rebibbiae ora nelle anguste magioni, l’indomito carbonaro Denis Verdini. Che così esortava i virgulti Fratelli Cairoli, Amato e Casini: l’Italia s’è desta, siam pronti alla morte (be’ non esageriamo), dov’è la Vittoria? Al quarto scrutinio, scovate il cecchino. Le porga la chioma Cartabia chiamò. Che schiava di Roma Iddio la creò. Poropò.