È guerra. Dopo qualche spiraglio di accordo, la situazione è precipitata definitivamente all’alba del 24 febbraio, quando il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato in diretta tv l’avvio delle operazioni militari in Ucraina. Una «operazione speciale» a difesa dell’indipendenza posticcia delle due repubbliche auto-dichiarate di Donetsk e Luhansk, nella regione del Donbass.
L’escalation viene paragonata a quella vissuta quasi un decennio fa, con l’annessione della penisola della Crimea nel 2014. Ma le tensioni che logorano sia i rapporti Mosca-Kiev, sia la stessa Ucraina al suo interno, si trascinano - almeno - dal crollo dell’Urss e stanno tornando a galla con i timori di un conflitto sull’Est Europa.
Dall’indipendenza alla rivoluzione arancione.
La data che simboleggia la prima rottura fra l’Ucraina e l’allora Unione sovietica è il 24 agosto 1991: il giorno della dichiarazione di indipendenza da Mosca, poi approvata il 1 dicembre con un referendum che vedrà oltre il 92% degli ucraini schierarsi a favore dell’addio all’Urss. Da allora inizia un’altalena che farà oscillare Kiev fra la vecchia sfera di influenza russa e un processo di «occidentalizzazione» che la spinge verso Ue e Nato, con cambi di rotta che si susseguono fino agli ultimi sviluppi della crisi.
Nei primi anni dell’indipendenza l’Ucraina, secondo paese della vecchia Urss per dimensione economica, stagna nella crescita (il Pil si inabissa fino al -22,9% nel 1994) e viene governata da leader vicini a Mosca: prima Leonid Kravčuk dal 1991 al 1993, poi Leonid Kučma dal 1994 al 2004, in un decennio scandito da scandali, episodi di corruzione e una conferma tutt’altro che lineare alle urne, per il secondo mandato, nel 1999.
Lo strappo decisivo arriva nel 2004: Viktor Janukovyč, già primo ministro nel governo dello stesso Kučma e continuatore della sua politica, viene dichiarato vincitore nel secondo turno del voto contro il candidato filo-occidentale Viktor Juščenko, favorevole all’avvicinamento con Ue e Nato. La rabbia per i brogli contestati a Janukovyč e al vecchio establishment sfocia nelle proteste della cosiddetta Rivoluzione arancione, chiamata così per il colore della campagna elettorale di Juščenko. Il voto viene invalidato e ripetuto, con la vittoria di Viktor Juščenko e il via all’esperienza di un governo filo-occidentale.
Durerà fino al 2010, una parentesi scandita da due tappe cruciali per i rapporti fra Kiev e Mosca: nel 2004 la Nato ingloba tre ex Stati sovietici come Estonia, Lettonia e Lituania; quattro anni dopo, nel 2008, l’Alleanza atlantica «promette» per la prima volta di allargarsi all’Ucraina in futuro. Il proposito surriscalda i rapporti con Mosca, in un periodo turbolento “anche” per ragioni diverse: la maggioranza di Juščenko traballa con frizioni fra i suoi stessi membri, mentre l’economia ucraina sprofonda sotto il peso della crisi finanziaria del 2008.
Fra le personalità più controverse dell’entourage di Viktor Juščenko c’è Julija Tymošenko, già protagonista della Rivoluzione arancione del 2004, chiamata a coprire due volte l’incarico di primo ministro nel 2005 e fra 2007 e 2010. Nel 2011 finirà in carcere per abuso di ufficio, con l’accusa di aver firmato un contratto di forniture di gas sfavorevole all’Ucraina. Si difenderà parlando di un caso «montato» dagli avversari, ma la sua reputazione esce appannata.
La guerra in Crimea e gli accordi di Minsk.
Nel 2010 Kiev torna sotto il governo di un candidato vicino alla Russia e gradito a Putin, Viktor Janukovyč, che batte Juščenko e avvia un processo di riavvicinamento a Mosca, siglando accordi sul gas con la Russia e sospendendo le trattative intraprese con la Ue. Il distanziamento da Bruxelles si rivela fatale al suo governo. Nel 2013, lo stop a accordo di pre-adesione alla Ue scatena infatti proteste sconfinate nella cosiddetta Euromaidan: scontri di piazza (Maidan) che mieteranno oltre 100 vittime concludendosi con la deposizione dello stesso Janukovyč dalla presidenza, la convocazione del voto anticipato, l’abolizione del bilinguismo russo-ucraino e la scarcerazione della ex premier Tymošenko, liberata dopo il voto favorevole del Parlamento ucraino. Tymošenko tiene un celebre discorso a Kiev, irritando una parte della platea che «non si sente rappresentata» dalla ex leader.
La reazione di Mosca è indiretta, ma dirompente. Un mese dopo, a marzo, la Russia invade e annette la penisola ucraina della Crimea, incassando il consenso della popolazione con un referendum. A maggio seguono l’esempio i militanti filo-russi delle due province del Donbas, Donetsk e Luhansk, con una doppia consultazione per proclamare la propria indipendenza. La vittoria del sì è schiacciante in entrambi i casi, creando una “frattura” che dà adito a scontri e violenze sempre più intensi. Nel 2015, dopo un tentativo analogo nel 2014, Francia, Germania, Russia e Ucraina firmano un accordo che prevede il cessate il fuoco e il lavoro diplomatico per configurare lo status speciale delle due province: i cosiddetti accordi di Minsk, dal nome della capitale bielorussa che già aveva ospitato l’intesa fallita l’anno prima.
La “pace” formale non si traduce, comunque, in una stabilizzazione delle province. Il governo ucraino conteggia almeno 14mila vittime nella regione del Donbass fra 2014 e 2021, con un costo economico di 10 miliardi di dollari Usa per le operazioni militari nell’area. Nel frattempo, alla presidenza di Kiev si susseguono l’uomo d’affari Petro Poroshenko (2014-2019) e l’attuale presidente, l’ex attore Volodymyr Zelensky. L’orientamento di entrambi è di apertura all’Occidente e di allontanamento da Mosca, con nuovi accordi siglati con la Ue nel 2017 e una spinta sempre più decisa verso Bruxelles. Zelensky chiede apertamente l’ingresso nella Ue e nella Nato.
L’intreccio economico fra Kiev e Mosca.
La Russia non poteva che rappresentare, almeno in origine, un partner privilegiato per l’Ucraina. I valori dell’interscambio si sono poi ridotti negli anni di «guerra fredda» fra Kiev e Mosca, culminati con la crisi che si sta consumando sui confini fra i due Paesi.
Secondo le stime del Chatman House, un think tank, il valore delle sole esportazioni ucraine in Russia è crollato dai 29 miliardi di dollari Usa nel 2011 ai 5 miliardi di dollari Usa registrati nel 2019. In parallelo, complice la (ri)apertura pro-mercato, l’export verso la Ue è raddoppiato in valore assoluto dal 2012, mentre la Cina è diventata il primo mercato di sbocco delle merci di Kiev. Secondo i dati di Trading economics, un portale specializzato, la Cina incide sul 14,4% delle esportazioni complessivi dell’Ucraina nel 2020 (7,12 miliardi di dollari Usa), oltre il doppio rispetto al 5,5% mantenuto dalla Russia: un valore di 2,7 miliardi di dollari Usa, vicino a quello dei flussi verso la Germania (2,07 miliardi, il 4,4% del totale) e Italia (1,93 miliardi, il 3,9%).
Nel 2014 Kiev si è affrancata dalla dipendenza dal gas russo, iniziando a comprarlo sul mercato europeo e importandolo attraverso Paesi come Ungheria e Slovenia. Al tempo stesso, però, un accordo vincola Kiev a far transitare il gas russo nel territorio dell’Ucraina fino al 2024: un’ipoteca che mantiene il legame con Mosca, anche nel vivo della crisi più logorante in - almeno - tre decenni di rapporti fra i due.
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