venerdì 17 agosto 2012

Intercettazioni, quando la politica vuole il bavaglio. Dai ‘furbetti’ alla Trattativa. - Giovanna Trinchella


napolitano_interna nuova


Da destra a sinistra ogni volta che un politico è stato intercettato si è gridato allo scandalo. Commissioni di inchiesta e disegni di legge, la regolamentazione della questione ha messo sempre d'accordo tutti. Ultimo capitolo: il deposito del capo dello Stato di un ricorso alla Consulta. Ecco una cronologia dai "furbetti del quartierino" a oggi.

Da Antonveneta ai dossier illeciti Telecom, da Vallettopoli all’inchiesta sulla P4, dall’archivio Genchi alla Trattativa. Ogni volta che la politica entra nelle inchieste – con la pubblicazione delle relative intercettazioni che, se non penalmente rilevanti, sono comunque di interesse pubblico – la legge per regolamentarle diventa l’argomento preferito dei parlamentari. Pronti a sottrarre uno strumento di indagine agli inquirenti e a mettere il bavaglio ai giornalisti. E non c’è crisi finanziaria che tenga.
Era l’estate dei furbetti del quartierino, quella del 2005, quando il dibattito politico si infuocò per le intercettazioni pubblicate – compresi gli sms personali della signora Anna Falchi al promesso sposo Stefano Ricucci – tra banchieri, politici e imprenditori, soprattutto immobiliaristi. Il risiko bancario in fermento, con i casi Antonveneta e Bnl-Unipol, fecero scoprire all’Italia un governatore della Banca d’Italia – Antonio Fazio – e un banchiere – Giampiero Fiorani – complici. Così tanto che quando l’allora numero uno di Palazzo Koch informò l’amico di aver firmato il via libera all’offerta pubblica d’acquisto a favore dell’allora Banca Popolare di Lodi che estrometteva gli olandesi di Abn Amro, il secondo disse al primo: “Ti bacerei in fronte”. Tutto intorno una pletora di parlamentari che brigavano oppure facevano il tifo. 
Ebbene, il 2 agosto 2005 ben nove proposte di legge vengono presentate in Parlamento. C’è quella, a prima firma di Antonino Caruso dell’allora Alleanza Nazionale, che prevede addirittura che solo in casi particolarmente gravi o urgenti le autorizzazioni alle intercettazioni possano essere concesse dal presidente della corte d’Assise e dal gip. C’è la proposta di legge firmata da Luigi Zanda (Dl) e Guido Calvi (Ds) che invoca una specifica udienza, distinta da quella preliminare. Naturalmente c’è chi propone una commissione d’inchiesta, come Osvaldo Napoli oggi Pdl, oppure l’obbligo di un’informativa del governo ogni sei mesi in materia di intercettazioni di Francesco Cossiga. Enrico Nan, Forza Italia all’epoca, vorrebbe che i pm ogni anno fornissero al ministero della Giustizia l’elenco delle persone controllate tramite le intercettazioni. Sono giorni difficili in cui, per esempio, lo staff di Romano Prodi, candidato premier, deve smentire colloqui con Ricucci. E’ il periodo in cui circolano i nomi dell’allora segretario Ds Piero Fassino che, captato al telefono con il numero uno di Unipol Giovanni Consorte, dice: “Abbiamo una banca?”. Frase poi pubblicata da Il Giornale (dicembre 2005) quando ancora non era stata depositata. Negli stessi mesi circolano i nomi di Massimo D’Alema e Nicola Latorre tra i parlamentari della Repubblica intercettati. Così Silvio Berlusconi annuncia un disegno di legge bollando come “scandalosa” la diffusione delle conversazioni. Che lui per primo – secondo i pm e le testimonianze – aveva contribuito a diffondere: Berlusconi è infatti sotto processo per aver fornito il nastro Fassino-Consorte al giornale della sua famiglia.
Le preoccupazioni della politica sono così forti che il presidente del Tribunale di Milano, Vittorio Cardaci, deve rispondere via fax a una richiesta di chiarimenti arrivata dal presidente della Camera,Pier Ferdinando Casini. Il 7 settembre le proposte di legge sono già al vaglio della commissione Giustizia tra le proteste di magistrati e giornalisti. 
Un anno dopo scoppia il caso dei dossier illeciti “fabbricati” per Telecom e Pirelli da investigatori privati con i soldi delle due società e attraverso il capo della security Telecom Giuliano Tavaroli, ex sottufficiale dell’Arma dalla carriera fulminante sotto l’egida di Marco Tronchetti Provera. Nei fascicoli di Tavaroli&Co. ci sono tutti: calciatori, politici, imprenditori, giornalisti. Le informazioni, raccolte da fonti aperte ma anche catturate da archivi come l’anagrafe tributaria o il casellario giudiziario, finiscono tutti in file a disposizione di Tavaroli. Incursioni nella vita privata e non solo anche di concorrenti con veri e propri attacchi informatici portati a segno dalla squadretta informatica del gruppo “Tiger Team”. Si parla erroneamente anche di intercettazioni abusive. E proprio questo equivoco, smentito invano a più riprese dalla Procura di Milano, porta alla legge, da alcuni considerata un mostro giuridico, che prevede la distruzione del materiale – informazioni e altro – raccolto illecitamente.
Insomma, tutto il Parlamento, spaventato dalla possibilità di essere stato ascoltato illecitamente da un grande orecchio, vota una legge poi finita davanti alla Corte Costituzione e parzialmente dichiarata illegittima. Anche per questo scandalo si moltiplicano le proposte di legge e la richiesta di commissioni di inchiesta come quella invocata dai senatori dell’Ulivo guidati dal giornalista Antonio Polito. E’ il 7 giugno 2006. Pochi giorni dopo si aggiungono le adesioni di Forza Italia, An, Rifondazione, Udc, Comunisti italiani, Autonomie, Dc, Movimento per le autonomie e Gruppo misto. Mai argomento era stato così condiviso da destra a sinistra.
Ad arroventare il clima arriva un’altra inchiesta milanese, quella sul sequestro dell’imam egiziano a Milano Abu Omar. In carcere finiscono i vertici del Sismi e sotto inchiesta lo stesso numero uno Niccolò Pollari. Molte le intercettazioni che riguardavano gli 007 italiani. Motivo per cui la politica non può fare a meno di intervenire nuovamente. Poco dopo arriva il caso Vallettopoli e nel mirino finisce la Procura di Potenza. Prostituzione e showgirl, droga e agenti di vip, e poi fotografi e tutto mondo della televisione italiana – sottobosco compreso – viene alla luce nelle conversazioni di indagati e non. Nel frullatore finisce anche il portavoce di Prodi, Silvio Sircana, fotografato mentre chiedeva una informazione per strada a un trans. 
Dopo la chiusura dell’inchiesta Antonveneta e con il deposito da parte del gip di Milano Clementina Forleo delle intercettazioni che coinvolgevano ben 73 parlamentari, nell’estate del 2007 le polemiche e la tentazione del bavaglio ritornano prepotenti. Viene approvato alla Camera, il 17 aprile, il ddl Mastella che vieta la pubblicazione delle conversazioni fino alla chiusura delle indagini con una pena dai 6 mesi e fino a 3 anni e il procuratore che diventa responsabile dell’archivio (il provvedimento non diventerà legge perché il governo cadrà prima di completare l’iter). Sulla questione intercettazioni viene investita nuovamente la Corte Costituzionale che il 27 ottobre 2007 boccia invece parte della legge Boato (2003) e l’ipotesi di distruzione delle intercettazioni dei parlamentari. A dicembre le intercettazioni dello scandalo sono quelle della Procura di Napoli. Emergono le telefonate Berlusconi-Saccà, con il premier che finisce indagato (e poi archiviato) per corruzione per raccomandazioni di attrici nelle fiction della Rai.
Tra il 2008 e il 2009 l’archivio “Genchi”, il megacontenitore di tabulati telefonici raccolti da Giocchino Genchi durante l’attività di consulente svolta in diverse inchieste giudiziarie tra cui “Why not”, torna a far dibattere la politica sul tema delle intercettazioni; tra politici ed ex ministri, uno dei quali l’ex Guardasigilli Clemente Mastella, nessuno sembra essere sfuggito. Si parla di nuovo di un disegno di legge. Per difendere lo strumento investigativo e la libertà di stampa si mettono sulla bilancia le inchieste di terrorismo interno e internazionale, indagini sulla sanità e anche Tangentopoli come fa Antonio Di Pietro. La legge Boato finisce nuovamente davanti alla Corte Costituzionale, questa volta l’inchiesta è romana e vede coinvolto l’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio
Seguono l’inchiesta di Bari sulle escort ”fornite” al premier dall’imprenditore Giampaolo Tarantini (e vengono pubblicata le registrazioni della escort Patrizia D’Addario che aveva “registrato” il premier dopo una notte a Palazzo Grazioli), quella sulla cricca e gli appalti del G8, c’è poi lo scandalo Agcom con le pressioni del premier per “chiudere” la trasmissione di Michele Santoro “Annozero”. Mentre prosegue il cammino del ddl – che prevedeva tra l’altro limiti di tempo, il divieto di pubblicazione con il carcere per i giornalisti, modifiche alla competenza –  il 25 marzo del 2010 arriva lo stop della Consulta alle intercettazioni casuali dei parlamentari. Ma è il 2010 l’anno delle tantissime manifestazioni di piazza contro il bavaglio, dei cittadini che protestano, dei quotidiani che difendono anche con una prima pagina bianca il diritto a informare e sulle intercettazioni che il rapporto tra Gianfranco Fini, presidente della Camera, e Silvio Berlusconi, premier, comincia a scalfirsi. Dopo lunghe trattative, il Pdl approva in commissione alla Camera gli emendamenti proposti dalla presidente Giulia Bongiorno, finiana. Il Cavaliere mastica amaro e dice che la legge da lui fortemente voluta è stata ”massacrata”.
E’ l’estate dell’anno scorso quando l’inchiesta sulla P4, come un riflesso pavloviano, impone alla politica – che nel frattempo ha approvato al Senato il ddl senza riuscire a farlo arrivare alla Camera – di ritornare sull’argomento. Poi arriva il caso Ruby (autunno 2011) e la scoperta delle “cene eleganti” ad Arcore e le intercettazioni, tra cui quelle in cui per caso viene intercettato anche Berlusconi, fanno esplodere una nuova violentissima polemica. Ma è con il deposito da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di un ricorso alla Corte Costituzionale, il 30 luglio scorso, che la questione sembra esplodere definitivamente. La Procura di Palermo ha chiuso le indagini sulla trattativa e tra le telefonate intercettate ci sono anche quelle in cui l’ex presidente del Senato, Nicola Mancino, si rivolge al Quirinale. 

Chi ciurla nel manico della legge-bavaglio. La faccenda intercettazioni è seria per lasciarla al Palazzo “intercettato”. - di Oliviero Beha



Oggi avrei parlato così volentieri del quarto di finale tra Germania e Grecia, degli eurobond e gli eurogol, della politica nel pallone e viceversa. Avrei anche dedicato questa rubrica alla Fiom vittoriosa in tribunale contro la Fiat di Marchionne, con tutto quello che questa vicenda significa fino alle lacrime di gioia di Landini, il principale referente sindacale di tutto ciò. Ma come fare a ignorare o dilazionare un discorso sulle intercettazioni, la legge-bavaglio tornata di moda, la richiesta del Colle di "necessità e urgenza" a tal proposito, le polemiche sulla "storiaccia" che riguarda l'ex presidente del senato ed ex vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura, Nicola Mancino, a proposito di quel tragico periodo '92-'93, le stragi, le trattative Stato-Mafia ecc.?

Come parlar d'altro quando in ballo c'è una questione esiziale come la libertà di informazione nel caso riferita alle massime istituzioni del Paese e a fatti gravissimi della nostra storia recente? Anche perché ci sono formidabili questioni di principio in ballo, ma che poi si collegano alla vita o alla morte delle persone. Prendete una lettera di oggi a il Fatto Quotidiano. E' firmata da Giovanna Maggiani Chelli, dell'associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. Vi dice niente questa strage? Per i più giovani, sotto i vent'anni, non ancora nati allora, c'è internet, per tutti gli altri ci dovrebbe essere la memoria. Giovanna racconta di un convegno/incontro a Viareggio, già nel 2001, in cui il magistrato Gabriele Chelazzi impegnato in inchieste che riguardavano il concorso esterno in quelle stragi di mafia del '93 lamentava l'impossibilità di fruire di intercettazioni più vecchie di 5 anni in base alla legge, cui ogni tanto c'erano deroghe. La signora conclude la lettera scrivendo: "... E' da allora che noi aspettiamo quelle deroghe che consentano ai cittadini di essere informati su ciò che sta avvenendo nel Paese".

Mi sembra il punto centrale. Il punto che dovrebbe toccare l'anima e la testa del legislatore, in direzione di quella verità (o ricerca della), trasparenza e accessibilità degli italiani all'informazione il più possibile veritiera e completa sui fatti tanto gravi. Quindi  nella direzione esattamente contraria a quella che tutte le volte che si è parlato di legge-bavaglio anti-intercettazioni si è tentato di imboccare. Quella contraria a quella invocata oggi dal Presidente della Repubblica, che forse una vaga influenza su legislatore - pur nel tripudio indispensabile della divisione dei poteri ... - magari ce la potrebbe pur avere, anche solo (!!!) in forma di "moral suasion", tradotto in un dialettale "senti' a mme!".

Dunque da una parte ci sono i cittadini: sia quelli toccati direttamente dai fatti, dalle stragi, da tutto ciò di cui non si deve sapere e che invece le intercettazioni (legali, legalissime, è questo il nocciolo che si vorrebbe modificare facendo finire tutto nell'illegalità con un giochetto delle tre carte) permettono di conoscere; sia quelli che invece formano "semplicemente" la pubblica opinione indispensabile alla democrazia, di qualunque qualità sia quest'ultima. Dall'altra c'è invece staccatissimo il potere, il Palazzo, le istituzioni ecc. Ossia proprio coloro il cui ruolo delicato dovrebbe garantire la stessa democrazia basata sulla legalità di cui stiamo parlando.

Ma se ci sono a volte prove a volte forti sospetti che la parte del potere sia coinvolta in fatti criminali come emerge dalle intercettazioni, e quella stessa parte sul piano legislativo vuole impedire appunto per legge che queste intercettazioni favoriscano l'accertamento giudiziario e giornalistico della veridicità di tali fatti e coinvolgimenti, il cerchio si chiude. Il potere, il Palazzo, le istituzioni ecc. non stanno difendendo i cittadini e la signora Maggiani Chelli, ma loro stessi. E questo non lo possiamo permettere. Dobbiamo impedirglielo. Ci stanno sottraendo parte decisive di democrazia simulando (anche malissimo) il contrario. La cosa tocca tutti noi, non aspettate un "Grillo ex machina" per forza, magari per poi lamentarvi che "c'è solo lui".

Trattativa Stato-mafia, Di Pietro: “Napolitano? Monti manipola la realtà”.


Antonio Di Pietro interna nuova

Il leader dell'Idv: "Dal capo del governo parole inaccettabili: il capo dello Stato non era sotto controllo, ma lo era Mancino". Avvertimento anche dalla Fnsi: "Non usare la vicenda come pretesto. Non è quella l'urgenza".

Antonio Di Pietro ha definito come “inaccettabili” le parole del premier Mario Monti, che in una intervista a Tempi ha bollato come “grave” il caso delle telefonate di Giorgio Napolitano intercettate dalla Procura di Palermo nell’affaire trattativa stato-mafia. “Non sono gravi” le intercettazioni su Napolitano ”che in realtà non sono mai state disposte”, secondo  il leader dell’Idv, ma lo è il fatto che “il cittadino Nicola Mancino, ex presidente del Senato, abbia chiamato il Capo dello Stato per chiedere un intervento sui giudici siciliani che stavano valutando la sua posizione processuale”. Per questo motivo l’ex magistrato quindi ha descritto come non accettabili le dichiarazioni del premier che “pur di difendere l’indifendibile capo dello Stato, manipola la realtà, affermando che Napolitano sia stato intercettato, invece ad essere intercettato è stato soltanto il cittadino Mancino”.
“Non c’è stato alcun abuso da parte di chi ha messo sotto controllo le utenze telefoniche – prosegue Di Pietro – piuttosto l’abuso è stato commesso da Mancino e da coloro che gli hanno dato retta. Ribadiamo la totale inopportunità non solo del conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato, in relazione ad una materia così delicata, ma – conclude – anche dell’intervento preannunciato da Monti, volto a fermare le indagini della magistratura e a delegittimare il suo operato”.
Sull’argomento è intervenuto anche il presidente della Federazione nazionale stampa italiana, il sindacato dei giornalisti, Roberto Natale, che chiede di non utilizzare il grimaldello della vicenda sulle intercettazioni che hanno coinvolto il Presidente della Repubblica per varare una legge che restringa gli spazi della cronaca giudiziaria. Natale sostiene che “la specifica vicenda delle intercettazioni non può essere usata come pretesto. E’ bene ricordarlo al presidente del Consiglio, ora che anche la sua voce si unisce alla campagna contro le intercettazioni”. Infatti – ha continuato il sindacalista il capo del governo – “aveva a disposizione evidentissimi spunti di cronaca per affrontare la questione in modo meno univoco”. Ad esempio le intercettazioni e la pubblicazione che hanno permesso di sapere cosa sia successo all’Ilva di Taranto, “quali oscure manovre siano state messe in atto a danno della salute dei cittadini, come si siano comportati dirigenti di azienda e funzionari pubblici”. Quindi il presidente della Fnsi ha concluso bacchettando Monti: “Parlare di intercettazioni solo in termini di abuso, come fa anche Monti, rivela tutta la strumentalità dell’approccio al tema. Valuti il presidente del Consiglio se tra le urgenze di questi ultimi mesi di legislatura debba proprio essere inserito un provvedimento che assumerebbe inevitabilmente l’aspetto della punizione per magistrati e giornalisti che fanno il loro dovere”. Infine è arrivato l’ammonimento da parte del sindacato che ha minacciato di ricorrere “rapidamente nelle prossime settimane a quella stessa grande mobilitazione di cittadini e giornalisti che già negli anni scorsi ha consentito di respingere ogni restrizione al corretto esercizio del diritto-dovere di cronaca. Politico o tecnico che sia il bavaglio non è accettabile” .
Stop anche da Magistratura Indipendente (corrente moderata delle toghe italiane): “Una nuova normativa sulle intercettazioni – afferma il segretario Cosimo Maria Ferri - non serve per accelerare e migliorare la qualità ed i tempi della risposta di giustizia. Le intercettazioni sono uno strumento indispensabile ed è assurdo parlare di modifica dei presupposti, perché si indebolirebbe l’attività investigativa”. Secondo Ferri “è giusto, invece, vigilare sulla corretta applicazione di tali presupposti ed intervenire con nuove norme sul divieto di pubblicazione degli atti coperti da segreto, sulla distruzione delle telefonate non rilevanti penalmente ed a maggior ragione di quelle che riguardano persone estranee al procedimento. Riforme? Ben vengano, anzi la magistratura le auspica – conclude Ferri – ma che siano quelle giuste e nell’interesse della giustizia e della ricerca della verità processuale”.

Trattativa Stato-mafia, Monti: “Napolitano intercettato? Caso grave”.


mario monti svizzera interna nuova

Il presidente del Consiglio intervistato da "Tempi": "Sulle intercettazioni ci sono stati abusi e il governo prenderà iniziative". Poi giura ancora battaglia all'evasione ("L'Italia è in stato di guerra"), ribadisce la necessità degli eurobond e il sostegno alle scuole private e che non si ricandiderà: "Mi rifiuto di pensare che l’Italia non sia in grado di scegliere una maggioranza di governo efficace".

Il caso delle telefonate di Giorgio Napolitano intercettate dalla Procura di Palermo è “grave“. Il presidente del Consiglio Mario Monti, intervistato dal direttore di Tempi Luigi Amicone, parla di tutto – dall’economia alla giustizia e le intercettazioni fino alla scuola – e interviene per la prima volta anche sulle intercettazioni delle conversazioni telefoniche tra il Capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia. “E’ peraltro evidente – ha aggiunto Monti – a tutti che nel fenomeno delle intercettazioni telefoniche si sono verificati e si verificano abusi”, per cui “è compito del governo prendere iniziative a riguardo”.
L’evasione fiscale. Il problema principale per l’Italia resta, comunque, per Monti l’evasione fiscale. “Produce un grosso danno nella percezione del Paese all’estero – dice il capo del governo – Io penso che l’Italia si trova in uno stato di difficoltà soprattutto a causa di questo fenomeno e che si trova da questo punto di vista in uno ‘stato di guerra’”. La gravità della situazione quindi giustifica a suo dire l’uso di “strumenti forti”.
“La notorietà pubblica del nostro alto tasso di evasione contribuisce molto a indisporre nei confronti dell’Italia quei paesi verso i quali di tanto in tanto potremmo aver bisogno di assistenza finanziaria”, spiega Monti citando i paesi del Nord Europa. Questi “dicono: l’Italia è un paese molto ricco, però lo Stato ha un fortissimo debito pubblico che magari richiederà domani di aiutarla a rinnovare; eppure ci sono italiani ricchi o medi che sistematicamente non pagano le tasse”. Insomma, “l’evasione fiscale produce un grosso danno nella percezione del paese all’estero”. 
La convinzione del premier è che ci voglia un’azione decisa: “Io stesso, fino a poche settimane fa, quando sono stato anche ministro dell’Economia e delle Finanze e quindi responsabile dell’Agenzia dell’entrate e responsabile politico della Guardia di Finanza, ho sempre incoraggiato fortemente le persone che vi lavorano a fare una dura lotta all’evasione. La seria lotta all’evasione può comportare la necessità di momenti di visibilità che possono essere antipatici. Ma che hanno un forte effetto preventivo nei confronti degli altri cittadini”.
La crisi dell’euro. Quella degli eurobond “è una proposta articolata e intelligente che contiene anche elementi che da tempo il governo italiano ha portato al tavolo europeo”. “Abbiamo visto tutti – continua Monti – che alcuni paesi (certamente la Germania, ma anche alcuni Paesi nordici) non sono disposti in questo momento a dare il loro consenso agli eurobond. Ciò significa che probabilmente essi verranno ma un pò più avanti”.
Secondo il capo dell’esecutivo ciò potrà avvenire “quando si saranno fatti passi verso una maggiore messa sotto controllo delle finanze pubbliche dei singoli paesi da parte delle istituzioni comunitarie”. Infatti “l’idea della Germania e di altri è che si possono mutualizzare in tutto o in parte i debiti pubblici solo quando si è sicuri che nessun paese sia deviante in materia di troppo debito pubblico. Ovvero, quando la politica di indebitamento sarà gestita in modo più coordinata dal centro”.
Giustizia. Nel settore della giustizia, il presidente del Consiglio anticipa “numerose novità legislative”, volte “a dare risposta non solo all’emergenza carceraria ma anche a quella lentezza dei processi che, come calcolato dalla Banca d’Italia, incide negativamente sulla crescita del Paese per un punto percentuale di Pil”. Difficile, invece, percorrere la strada dell’amnistia come misura contro il sovraffollamento delle carceri: “Voglio ricordare che si tratta di una misura per la quale sono necessari due terzi dei voti del Parlamento che non mi pare al momento ci siano”.
L’aiuto alle scuole statali. E Monti conferma il sostegno del governo alle scuole private. “Posso assicurare che il Governo non farà mancare al settore, cui riconosce una essenziale funzione complementare rispetto a quella esercitata dalle scuole pubbliche, il necessario sostegno economico”. 
“A ciò si provvederà – spiega il presidente – compatibilmente con i limiti tracciati con i recenti interventi di revisione della spesa pubblica, con la legge di stabilità del prossimo autunno”. “Il nostro è un governo che – sostiene Monti -, per sua composizione, per suo programma, per suo orientamento, riconosce importanza e grandi spazi alla sussidiarietà, alla convivenza nel profondo reciproco rispetto tra pubblico e privato, tra stato e chiesa, tra le religioni. Io che ho studiato in una scuola cattolica, conosco ovviamente il grande ruolo, accanto all’istruzione pubblica, dell’istruzione paritaria e al contributo sociale che le scuole non statali offrono sopperendo alle difficoltà di molte realtà del paese”. “Pur nelle ristrettezze finanziarie da tutti avvertite e ferma l’esigenza di consolidamento e messa in sicurezza del bilancio, il sostegno a quanti sono espressione dei valori della sussidiarietà e della solidarietà è perciò un obiettivo importante per quanti hanno a cuore il benessere e la crescita dell’intero Paese”, conclude il presidente del Consiglio.
Il dopo-Monti. Il Professore ha di nuovo smentito anche un suo coinvolgimento nella politica attiva dopo la fine del mandato del governo tecnico. “Mi rifiuto di pensare – dichiara – che un grande paese democratico come l’Italia non sia in grado, attraverso libere elezioni, di scegliere una maggioranza di governo efficace e, indirettamente, un leader adeguato a guidarla. Quindi la sua domanda credo e spero non sarà rilevante”.
Quanto ai risultati del governo ottenuti finora Monti dice di essere “orgoglioso, di nulla” ma “soddisfatto e grato, della conseguita possibilità di far lavorare per uno scopo convergente forze politiche divergenti”. “In spirito costruttivo e unitario – aggiunge – siamo riusciti a mobilitare queste energie nel parlamento e forse anche in qualche misura a spiegarci col Paese in un momento che di per sé sarebbe stato il meno adatto a recepire incisive e pesanti iniziative strutturali. Beh il governo l’ha fatto. E l’ha fatto in un tempo molto concentrato e questo non mi rende orgoglioso, ma soddisfatto di aver contribuito a questo passaggio, che credo fosse inevitabile per non precipitare in una crisi dai contorni imprevedibili e per avviare l’Italia su una via di riforme e di crescita che daranno risultati più avanti”.
Il federalismo. Monti dà anche la sua idea di federalismo: non economico, ma solidale. “Sulla questione del federalismo noi rispettiamo quello che c’è nelle attuali leggi dello Stato. Forse in precedenti governi si è lavorato all’insegna del federalismo nella convinzione che esso fosse la riforma strutturale per dare ordine e slancio all’economia italiana. Mentre noi siamo convinti che il federalismo deve essere solidale, non può cioè non tenere conto delle diversità tra le diverse regioni e delle differenze territoriali. Soprattutto non deve esimerci dal fare riforme strutturali nei vari campi: dalle pensioni, al mercato del lavoro, alle liberalizzazioni, alla concorrenza, alle semplificazioni”.
La dismissione del patrimonio. E’ possibile realizzare da qui al voto nel 2013 “tutte le iniziative in materia di risanamento dei conti pubblici e di contenimento del disavanzo che sono state già decise ma che devono essere attentamente sorvegliate nella loro esecuzione” afferma Monti, affermando che nel prossimo semestre ci sarà “la dismissione di parti del patrimonio pubblico per ridurre il debito”. “Abbiamo preferito – sostiene il premier – nella prima parte di vita del governo concentrarci sulla attività di contenimento del disavanzo e di riforma, mentre adesso che abbiamo compiuto passi che hanno dimostrato all’Europa e al resto del mondo la capacità e la volontà del Paese di operare cambiamenti nel profondo delle sue strutture, è bene accompagnare queste riforme con una riduzione del debito pubblico attraverso la cessione di alcuni attivi. Se avessimo dato la priorità a quest’ultima azione si sarebbe potuto pensare che l’Italia non credeva necessarie riforme strutturali di modifica della propria ‘macchina’ e questo avrebbe dato un pessimo segnale ai mercati e all’Unione Europea”.

Il sindaco rosso guida gli espropri nei supermercati. - Gian Antonio Orighi




Tre carrelli di cibo per 37 famiglie povere di Siviglia In Andalusia requisiti a un duca 1.200 ettari incolti.

MADRID
L’ ultima clamorosa protesta è stata un «esproprio alimentare» in un supermercato: martedì scorso Juan Manuel Sanchéz Gordillo, 60 anni, dal 1979 sindaco con maggioranza assoluta della comunistissima Marinaleda, ha diretto l’assalto a un supermercato nella limitrofa Ecija, portando via tre carrelli pieni di pasta, fagioli, lenticchie e latte, che ha donato a 36 famiglie di squatter disoccupati di Siviglia. Unanime la condanna del governo, dei socialisti, di lu. Ovviamente è stato denunciato. Ma lui se la ride: «È stata un’azione simbolica. Il prossimo obbiettivo? Le banche».

Sanchéz Gordillo, non è solo sindaco, è anche molto altro: deputato regionale andaluso, leader del Cut-Bai (Collettivo unità dei lavoratori-Blocco andaluso di sinistra) e del sindacato agricolo Sat. E da sempre fa parlare di sé, occupando terre incolte o la Moncloa, il Palazzo del governo, con l’ex premier socialista González dentro. Ma nella regione con più disoccupati d’Europa (34%), nel suo Comune non ce n’è uno grazie alle cooperative comunali ortofrutticole da lui inventate e dove tutti guadagnano lo stesso stipendio: 1128 euro al mese. «Non ho mai fatto parte del partito comunista con la falce e martello, però mi sento comunista, o comunitarista, come credo si sentissero Cristo, Gandhi, Lenin e il Che», dice questo professore di storia, figlio di un poverissimo muratore, che ha potuto andare all’Università grazie a una borsa di studio.

Entrato in Izquierda Unita (il cartello elettorale comunista) nell’86, nemico acerrimo dei socialisti («Zapatero rubava ai poveri per dare i soldi ai ricchi»), gode di una popolarità impressionante, e non solo nella sua Marinaleda (2645 abitanti): nelle regionali andaluse del marzo scorso, come capolista di Iu per Siviglia, ha ottenuto116.726 voti (il 12,18%).

Il suo motto è sempre stato: «La terra a chi la lavora». E Gordillo, che pare uscito da «Novecento» di Bertolucci anche se usa Twitter, è un leader che fa quello che dice. Nell’Andalusia agraria in mano a ricchissimi proprietari terrieri, il barbuto sindaco, dopo 12 anni di occupazioni, nel 1992 è riuscito a espropriare 1200 ettari che erano del Duca dell’Infantado.

Sempre in prima linea, venerdì scorso è stato sloggiato dalla Guardia Civil, insieme ad altri 200 militanti del Sat, da un terreno militare. «Torneremo. Abbiamo già cominciato a lavorare la terra», ha detto agli agenti delle Benemérita.

L’esproprio terriero è stato il volano della sua revolución, sempre perseguita con la non violenza. Il sindaco che tiene la foto del Che nel suo ufficio sempre aperto al pubblico e porterà la kefiah al collo «finché i palestinesi non avranno una loro patria», ha costituito la Cooperativa Hu Humar-Marinaleda, ovviamente ecologicamente corretta. Produce carciofi, peperoni, fave, olio di oliva. Il comune è proprietario di una fabbrica di conserve, un frantoio, serre, allevamenti bovini. Salario: 47 euro al giorno, 6 giorni la settimana, 35 ore settimanali. Ecco perché non ci sono disoccupati.

Ma c’è di più. A Marinaleda non è mai entrato un costruttore. Il municipio regala il terreno per costruire un villino a schiera (90 metri quadrati su due piani, più 100 metri di cortile), anticipa i soldi per i lavori ed esige che il proprietario collabori alla costruzione della sua casa o paghi un sostituto. Restituirà il debito in rate di 15,52 euro al mese.

Dulcis in fundo, non esiste la polizia locale. «Da noi non è necessaria», vanta Gordillo.

ILVA, una favola noir.

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"Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliargli la lingua! Cioè pagare la stampa per non parlare!". Lo ha detto Girolamo Archinà, responsabile delle pubbliche relazioni dell'ILVA di Taranto. Archinà sopravvaluta la stampa, a chiudersi la bocca ci pensa da sola (*). La situazione drammatica di Taranto dove i tumori sono diffusi come il raffreddore era evidente anche a un cieco. Se non veniva denunciata dai partiti, dai governi, dalla Confindustria e dalla stampa nazionale vuol dire che erano tutti in torta con diversi interessi, chi economico, chi politico, chi semplicemente mazzettaro. Nessuno si è accorto di nulla. Deve essere un caso di cecità collettiva. Il presidente dell'ILVA è Ferrante, ex prefetto di Milano, candidato sindaco pdmenoellino. Non ha visto niente. I partiti del "lavoro, lavoro, lavoro" per dirla alla Fassino, che del lavoro ha una visione esoterica, mantenuto insieme alla moglie dalla politica da più di un ventennio, non sospettavano nulla, ma prendevano contributi generosi da Riva, il padrone dell'ILVA. 245.000 euro a Forza Italia e 98.000 a Pierluigi Bersani. Contributi a norma di legge.
Nel governo attuale il posto di Bersani è occupato da Passera, l'ovetto kinder, che oggi si reca in visita pastorale a Taranto. Passera è stato amministratore delegato di Intesa San Paolo che ha finanziato Riva. Passera è accompagnato all'ILVA dal ministro dell'Ambiente Clini sul quale Archinà ha detto "Corrado Clini è un uomo nostro". Clini, che ha avuto come sponsor Gianni De Michelis, è stato direttore generale del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare dal 1991 al 2011. Anche lui non ha mai visto nulla. Mi immagino la faccia dei tarantini e dei dipendenti dell'ILVA all'arrivo di Passera e Clini. Due vampiri all'AVIS. E questi dovrebbero salvarli? Il Governo vorrebbe destinare 336 milioni di soldi dei contribuenti alla bonifica della città. Non pagherebbe quindi Riva, che del resto ha già pagato i politici, ma gli italiani. Questa è una favola noir, senza lieto fine, dove nessuno si prende alcuna responsabilità, la gente muore per anni (lo ha denunciato più volte questo blog) per incuria e per interesse. E, nella migliore tradizione italiana, l'unica via di uscita è la magistratura che, come da copione, è subito demonizzata. Il giudice Patrizia Todisco ha chiuso sei reparti dell'ILVA di Taranto per tutelare la salute dei suoi cittadini. I partiti e le altre istituzioni sono rimasti a guardare. I danni li paghi Riva insieme ai partiti che ha finanziato in questi anni.
(*) finanziamenti pubblici a parte.
Ps: se io avessi preso 98.000 euro da Riva sarei un uomo finito, perché Bersani no?


http://www.beppegrillo.it/2012/08/ilva_una_favola_noir.html

Dal default a primo paese d'America in dieci anni. La storia.


La “presidenta” Cristina Fernandez

L'ARGENTINA CE L'HA FATTA! IN POCO PIU' DI 10 ANNI HA FINITO DI PAGARE IL SUO DEBITO ED E' IL PRIMO PAESE D'AMERICA PER SVILUPPO ECONOMICO ED OCCUPAZIONE. FARCELA E' POSSIBILE, MA CON LE PERSONE GIUSTE AL GOVERNO, CON LE PERSONE CHE AMANO IL PROPRIO PAESE E NON IL LORO TORNACONTO COME I NOSTRI GOVERNANTI E PARLAMENTARI.

A poco più di di
eci anni dal default, un crack del valore di oltre 100 miliardi di dollari, Buenos Aires ha onorato l’impegno preso con i detentori delle obbligazioni che in seguito a quella crisi si trasformarono in carta straccia. Con il Corralito, il nome con cui vennero etichettate le misure economiche adottate dal ministro dell’Economia Domingo Cavallo a fine 2001 per tamponare gli effetti della crisi, si cercò di porre un freno alla corsa agli sportelli congelando i conti bancari e proibendo il prelievo dai conti in dollari americani.

I risparmiatori si trovarono allora di fronte a due scelte: convertire i depositi in pesos - una valuta dal valore crollato - per accedere a quanto era rimasto dei risparmi, oppure accettare in cambio il titolo Boden 2012 in valuta Usa, un pezzo di carta che conteneva la promessa che il governo avrebbe ripagato l’ammontare in dollari nel corso dei 10 anni successivi. Il Corralito venerdì è stato definitivamente sepolto dal pagamento dell’ultima tranche del debito.

“Non è un giorno qualsiasi nella storia del calendario delle scadenze del debito pubblico”, ha detto il giorno prima il ministro dell’economia Hernan Lorenzino, ricordando che quel nome “è stato il simbolo della peggior crisi economica e sociale della quale abbiamo memoria”. Durante le celebrazioni, giovedì, del 158esimo anniversario della Borsa di Buenos Aires, anche la “presidenta” Cristina Fernandez ha voluto celebrare questa pietra tombale messa sul debito argentino: “Non ho avuto nulla a che vedere con tale passo (le misure economiche del 2001-2002, ndr), ma con il pagamento dell’ultima quota del Boden saremo più liberi”, ha affermato.

Ma se non fu l’attuale capo di Stato a decidere l’istituzione di quei titoli, sono stati lei e il defunto marito e predecessore, Nestor Kirchner, a promuovere e portare avanti la politica di ‘sdebitamento’ che ha portato l’Argentina a onorare il suo debito con i risparmiatori attraverso la ristrutturazione, con tagli del 70% del debito estero (accettata dal 96% dei possessori di bond) e l’estinzione, con le riserve nazionali, dei circa 10 miliardi di dollari dovuti all’Fmi.

Una politica che ha tirato fuori l’Argentina dalla palude dell’indebitamento facendola diventare una potenza economica in costante crescita. Il pagamento del debito, ha affermato Cristina, “ci ha assicurato una indipendenza immensa dall’attività dei mercati”. Un’esperienza che dovrebbe insegnare qualcosa ai Paesi che oggi in Europa,vivono una crisi che ricorda molto da vicino quella che portò al default di Buenos Aires. Lo ha sottolineato la stessa “presidenta”, che ha messo in guardia il Vecchio Continente: “C’è una incredibile crisi speculativa (nel mondo, ndr) come poche volte si è vista, causata da una crisi che noi conosciamo bene”.

Un fatto che “non conosce precedenti, sono fuggiti dalla Spagna capitali per 200miliardi di dollari, Francia e Germania nella terza settimana del mese hanno collocato il debito allo 0,007 a tre mesi e dopo, la settimana successiva, lo hanno portato allo 0,003 per cento (…) questo per pagare la gente, per fargli tenere i soldi nelle banche”, ha sottolineato Cristina, puntando il dito contro i colossi finanziari responsabili della crisi, quella che 11 anni fa colpì l’Argentina e quella che oggi attanaglia l’Europa. Da Buenos Aires arriva un segnale, un avvertimento all’Europa. Ma soprattutto viene un insegnamento: il modello argentino ha avuto successo, e in un contesto di crescita economica e di rafforzamento delle reti di protezione sociale, senza l’imposizione delle misure di austerity che oggi stanno invece mettendo in ginocchio i popoli europei.

www.disinformazione.it


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Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione. - Gustavo Zabrebelsky



Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.

Questa è una prima considerazione. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come "potere dello Stato", possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch'egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d'una controversia sui caratteri d'un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona.

Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d'una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l'esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi "custodi della Costituzione". Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l'uno che l'altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante.

A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d'irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d'essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell'interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell'interesse della tranquillità del diritto.

C'è ancora dell'altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell'opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento.

"In ogni caso", dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale "Comitato parlamentare" che interviene nel procedimento d'accusa con poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente.

A questo punto, si entra nel campo dell'altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un "consapevole silenzio" dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell'art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell'esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione.

La "irresponsabilità" comporterebbe "inconoscibilità", "intoccabilità" assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest'interpretazione, che è una delle due: l'una e l'altra hanno dalla loro parte l'opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l'irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l'appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d'essere presidente della Repubblica.

Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un'alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall'altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una "operazione", inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n'è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l'ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso "plusvalore" di chi dispone dell'autorità; un'altra cosa è l'informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo "decreto" del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino "precedenti" tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori.

Nella Repubblica, l'integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l'acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D'altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata "leale collaborazione", di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira  -  la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica  -  attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c'è d'un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s'è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d'applicare lealmente la legge?


http://www.repubblica.it/politica/2012/08/17/news/napolitano_la_consulta_e_quel_silenzio_sulla_costituzione-41067801/