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sabato 24 marzo 2012
La riforma dell'articolo 18 avra' effetti negativi sull'occupazione. - di Domenico d'Amati
La riforma governativa dell’articolo 18, dichiaratamente finalizzata a favorire l’aumento degli investimenti e dell’occupazione, rischia di avere l’effetto opposto. Il progetto Fornero prevede l’eliminazione dell’obbligo di reintegrazione in caso di licenziamenti individuali o collettivi motivati con ragioni economiche che risultino insussistenti, mentre mantiene la tutela dell’art. 18 in caso di licenziamenti discriminatori.
Una via di mezzo è prevista per i licenziamenti disciplinari nel senso che verrebbe lasciata al giudice, in caso di infondatezza degli addebiti, la facoltà di decidere se attribuire un’indennità economica oppure disporre la reintegra.
L’aspetto più rilevante della riforma è quello concernente i licenziamenti individuali per ragioni economico-organizzative. In materia la funzione dell’art. 18 è quella di scoraggiare l’estromissione dei lavoratori per motivi non adeguatamente ponderati ovvero di ricorrere alle motivazioni organizzative per occultare finalità discriminatorie.
Se il progetto governativo passerà, l’unica remora a simili comportamenti sarà costituita dal pagamento di un’indennità, di importo equivalente a quello che normalmente le aziende offrono come incentivo all’esodo. Ne potrà seguire un’ondata di licenziamenti sia individuali che collettivi. Per questi ultimi attualmente l’articolo 18 è applicabile ove le aziende non rispettino l’obbligo previsto dalla legge n. 223 del 1991 e dalla normativa comunitaria, di comunicare preventivamente e correttamente alle organizzazioni sindacali le ragioni del provvedimento e di applicare razionali criteri di scelta.
Eliminato l’articolo 18, le aziende, in caso di riduzione del personale, saranno sostanzialmente libere di precludere alle organizzazioni sindacali il diritto all’informazione e di ridurre il loro ruolo a quello di testimoni impotenti. Con buona pace per i principi di trasparenza, dei quali il Governo si dichiara portatore.
Per quanto concerne i licenziamenti discriminatori, la riforma governativa, pur affermando di voler mantenere l’applicazione dell’articolo 18, offre alle aziende la possibilità di camuffarli con ragioni organizzative e quindi di contenere il rischio nei limiti del pagamento di una indennità. Il lavoratore che intenda provare in giudizio la discriminazione subita dovrà affrontare notevoli difficoltà.
In materia disciplinare la discrezionalità della decisione fra reintegrazione e indennità renderà altamente aleatorie le conseguenze di una vittoria in giudizio. Anche questo indurrà i lavoratori a riflettere prima di far valere i loro diritti nei confronti dell’azienda.
A ciò si aggiunga che la lentezza della giustizia del lavoro in quasi tutti i grandi centri giudiziari agevolerà le aziende nell’ottenere, con tattiche defatigatorie l’adesione dei lavoratori a transazioni svantaggiose. Una elementare esigenza di equità impone al Governo di impegnarsi con adeguate misure organizzative, affinché l’attuale legge sul processo del lavoro venga correttamente applicata così da assicurare una decisione nei tempi previsti dal legislatore del 1973: tre-quattro mesi in primo grado ed altrettanti in appello. Ciò è possibile come è dimostrato dall’esperienza torinese.
Inoltre se si vorrà veramente lottare contro i licenziamenti discriminatori occorrerà munire il giudice di penetranti poteri di indagine da esercitare anche d’ufficio.
Infine dovrà assicurarsi il rispetto delle decisioni giudiziarie, mediante l’effettiva applicazione di sanzioni penali a carico di chi si sottragga alla loro esecuzione.
Leggi anche:
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http://www.articolo21.org/5054/notizia/la-riforma-dellarticolo-18-avra-effetti-negativi.html
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