giovedì 6 gennaio 2011

Valico dei Giovi, cattedrale incompiuta da sei miliardi di euro.

Il Cipe ha stanziato a novembre altri 500 milioni di euro per il tratto dell'Alta velocità che dovrebbe collegare Milano a Genova. Intanto restano bloccati i fondi per la ricostruzione de L'Aquila e delle scuole del Sud, che vantano un credito di 600 milioni di euro, denaro assegnato ma fermo da un anno

Meno di un dodicesimo, cinquecento milioni sulla spesa complessiva prevista di oltre 6 miliardi. È questa la proporzione del finanziamento che lo scorso 18 novembre il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) ha accordato rispetto al totale necessario per realizzare il Valico dei Giovi, tratta della Tav Milano Genova. Mezzo miliardo di euro per un’opera che negli anni ’90 costava meno di un terzo e di cui si promette l’inaugurazione da quasi trent’anni. A cosa servirà questo primo stanziamento? A riaprire i cantieri, assumere personale, dare respiro alle promesse elettorali. Poi, se non si troveranno altri soldi, si ritornerà al 2007, quando le opere sono state chiuse perché i fondi erano esauriti.

Il quadro drammatico delle casse statali impone delle scelte. Per riaprire i cantieri del Valico dei Giovi, ad esempio, si rinuncia alle ultime assegnazioni per la ricostruzione degli edifici in Abruzzo e alla ristrutturazione delle scuole meridionali: a tutt’oggi, i fondi bloccati per completare questi due interventi ammontano a circa 600 milioni. In pratica, manca all’appello il 40% di ciò che è stato previsto dopo il terremoto abruzzese per la ricostruzione di edifici pubblici e privati e circa la metà di quanto promesso dal Cipe nel 2009 alle opere medio-piccole del Mezzogiorno. Quindi, perché secondo il Cipe l’antipasto della Tav Genova-Milano è prioritario rispetto ai terremotati abruzzesi e agli studenti meridionali? Se qualcuno lo chiede al segretario del Comitato, Gianfranco Miccichè, si sente rispondere che i soldi stanziati dall’ultimo governo vanno solo verso le opere del Nord e che «bloccheremo tutti i fondi se non arrivano i fondi anche per le opere nelle altre regioni». Invece, il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente ha un’altra spiegazione: «In Italia si pensa prima a rifare il salotto buono e poi la cucina, cioè prima si pensa alla grande opera e poi a quelle essenziali per il territorio. Perché? L’infrastruttura nuova si annuncia, crea consenso elettorale, invece i soldi impiegati per le piccole opere non hanno visibilità. Ma prima di fare il Ponte sullo Stretto bisogna mettere in sicurezza il Paese. Ed è il governo in carica che decide quali siano le priorità».

«Il Governo farebbe bene a decidere quali infrastrutture sono prioritarie e a minor impatto ambientale, sociale ed economico», tuonava qualche tempo fa il Wwf. E il governo lo ha fatto: due su tre sono al Nord. Riprende Cialente: «Mi sono dimesso da vicecommissario alla ricostruzione per i ritardi nelle assegnazioni dei finanziamenti selezionati dal Fas: un miliardo di euro che non possiamo usare perché la governance che sovrintende i lavori, decisa dal governo, è inadeguata. A volte mi viene il sospetto che sia fatto tutto apposta per non farci usare i fondi. Ma noi come facciamo a non essere prioritari con 14mila persone che ancora non hanno ripreso possesso della propria casa?». Sarà anche perché scarseggiano gli sponsor per l’Abruzzo e per le opere di manutenzione al Sud. Mentre per il Valico dei Giovi non mancano: in primis, l’ex ministro Claudio Scajola e quindi il viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli. Scajola, in particolare, al Valico è legato per provenienza: ligure d’origine e dominus di molti progetti infrastrutturali in regione, l’ex ministro sa che la Tav Milano Genova è il sogno di molti conterranei. A cominciare dai 150mila pendolari che transitano ogni mattina tra il capoluogo lombardo e quello ligure, per proseguire con gli abitanti delle zone interessate che vedrebbero occupazione e sviluppo, e concludere con gli imprenditori che collegando il porto genovese a Milano incrementerebbero ricavi e investimenti.

Infatti nel caso del Terzo Valico il problema non è la volontà, ma la disponibilità: l’opera è antieconomica. Pian piano l’hanno ammesso tutti: la Banca europea per gli investimenti, l’Ispa (Cassa depositi e prestiti), gli imprenditori. Il tratto costa oltre sei miliardi e per ora la Ue non ha intenzione di sborsare un euro. Tant’è che l’estate scorsa Giovanni Calvini, presidente di Confindustria Genova ha dichiarato a proposito del Valico: «A questo punto sarebbe meglio rinunciare. Le abbiamo provate tutte ma da soli non ce la facciamo». Ed è comprensibile visto che con questi chiari di luna dovuti alla crisi è improbabile che lo Stato sborsi sei miliardi per un tratto della Tav considerato tra i più cari d’Europa: 6.200 milioni per 54 chilometri di tracciato, 114 milioni di euro per chilometro. Per alleggerire il peso sull’Erario Castelli ha proposto di spalmare la cifra necessaria per tutti gli anni di lavoro, almeno altri otto secondo le previsioni: in pratica, una tassa in più. E poi una volta terminato il Valico, secondo alcune stime i costi di gestione ricadrebbero per l’85% sullo Stato: la tassa, quindi, sarebbe definitiva.

A proposito del Valico, un anno fa il Wwf ha acceso il sospetto di cantieri rilanciati per soli fini elettorali: «Alcuni commi della finanziaria appena votata alla Camera rischiano di trasformare i primi cantieri delle Grandi Opere in colossali incompiute, cattedrali nel deserto». In effetti uno dei commi stabilisce che «il contraente generale o l’ affidatario dei lavori nulla abbia a pretendere nel caso dell’eventuale mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi». E perfino l’Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) è d’accordo con gli ambientalisti: «I timori del Wwf sono condivisibili – spiega Stefano Delle Piane, vicepresidente nazionale di Ance – (…) È come se lo Stato dicesse: sappi che oggi i quattrini ci sono ma non potrai eccepire se in futuro non arriveranno. Diciamo che io, che lavoro con i miei soldi, un contratto del genere non lo firmerei».

Il Valico però si deve fare, costi quel che costi, anche se a spese del costruttore. Fin dal 1994 – quando l’opera valeva appena 1,5 miliardi di euro – la vicenda è stata ricca di previsioni definitive e smentite categoriche. Con alcuni esponenti politici in rilevanza. Uno di questi è il senatore Luigi Grillo, fedelissimo di Scajola, finito sotto l’occhio degli inquirenti nel 1999: alcune associazioni ambientaliste avevano denunciato i tempi e i costi dei lavori per il Valico che lievitavano in maniera irrazionale. Il 24 febbraio 1998 si decide il sequestro dei cantieri aperti nell’alessandrino, tra Franconalto e Voltaggio, e nel 1999, per decreto del ministro Ronchi, i cantieri sono chiusi. Intanto, a tal proposito, la Procura di Milano rinvia a giudizio per truffa aggravata nei confronti dello Stato proprio il senatore Luigi Grillo (al tempo presidente della Commissione ambiente del Senato) ed Ercole Incalza, che ha qualcosa in comune con Scajola: anche lui sembra abbia usato soldi ricevuti dalla “cricca” per acquistare una casa a Roma. A proposito dell’inchiesta sull’opera alessandrina, nel 2006 i reati cadono in prescrizione: Grillo, Incalza ed altri manager fruiscono della legge ex Cirielli. In ogni caso, nel 2005 Grillo è di nuovo sui cantieri auspicando la pronta ripresa dei lavori e a giugno del 2010 il senatore è ancora a Voltaggio per promettere che presto la Tav si rimetterà in moto: a ottobre, però, non c’era ancora nessuno a popolare i prefabbricati cantieristici, abbandonati o quasi da almeno tre anni.

Ma è Claudio Scajola il vero promoter del Valico durante i governi Berlusconi. Nel 2001, Lunardi inserisce il tratto tra le opere prioritarie del governo e la Banca europea per gli investimenti promette fondi che nel 2007 ritirerà: è un’infrastruttura antieconomica. Il governo rilancia: l’opera sarà pagata tramite obbligazioni dell’Ispa (Infrastrutture Spa). Ma nel 2006 il presidente della società, Andrea Monorchio, smentisce in maniera categorica: «Si sapeva da sempre che la Milano-Genova non era finanziabile con le modalità finora seguite per le altre tratte dell’alta velocità. Costa 5 miliardi e l’opera non è redditiva perché i ricavi valgono solo il 15% dei costi». E anche Mauro Moretti, ad di Ferrovie dello Stato, affermava tre anni fa: «Nessuno vuole cancellare il progetto del Terzo Valico, però oggi le priorità sono altre». Ma quando nel 2008 Berlusconi torna al governo e Scajola approda al ministero dello Sviluppo economico, Moretti cambia idea sull’importanza dell’opera, che torna ad essere prioritaria. E alla prima riunione del Cipe il Valico dei Giovi ottiene subito lo stanziamento dei primi 500 milioni. Soldi che un mese fa sono stati confermati e che rimetteranno in moto i cantieri per un altro anno – forse qualcosa di più – poi si vedrà. Intanto, la ristrutturazione in Abruzzo e le piccole opere del Mezzogiorno dovranno aspettare il prossimo giro: i soldi non possono bastare se le priorità sono altrove.

di Gianluca Schinaia – FpS Media

Miracolo italiano: un Previti è per sempre. - di Marco Lillo




Continua a fare l'avvocato e potrebbe anche ricandidarsi. Grazie a indulto e sconti ad hoc è libero dal 2009 e sono decadute anche le pene accessorie

“L’avvocato Cesare Previti? E’ fuori studio, può riprovare domattina”. Fa impressione sentire la voce cortese che risponde al telefono dello studio Previti fondato nel 1958 dall’allora esordiente Cesare insieme al padre Umberto e ora ereditato dai figli. Non tanto perché l’avvocato amico diSilvio Berlusconi sia in giro per Roma. Teoricamente sarebbe stato condannato a sette anni e mezzo di carcere ma si sa come vanno le cose in Italia: l’avvocato settantaseienne ha scontato pochi giorni di galera nel maggio del 2006 e poi un periodo di arresti domiciliari e di affidamento ai servizi sociali all’associazione di don Picchi. Grazie all’indulto e ai tanti sconti, alcuni introdotti dal Governo Berlusconi come la legge ex Cirielli, Previti è libero dal dicembre del 2009.

Nel 2007, per evitare che la Camera dei deputati lo cacciasse in esecuzione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, Previti si dimise. Per far abbandonare la poltrona al deputato pluripregiudicato ci vollero un anno e mezzo di cavilli, ricorsi e sedute della giunta per le elezioni. Nulla al confronto di quello che si sta verificando sul fronte professionale. L’avvocato Cesare Previti ha subito l’interdizione perpetua da parte dei giudici con sentenza definitiva e la radiazione da parte dell’Ordine degli avvocati ma resta iscritto regolarmente all’albo dei cassazionisti come risulta dal sito Internet dell’Ordine di Roma.

Sono passati quindici anni da quando Stefania Ariostoraccontò le mazzette pagate negli anni ottanta ai giudici dall’avvocato per vincere le cause di Berlusconi e di altri clienti. Previti è stato condannato in via definitiva due volte e prescritto per una terza vicenda. Sono passati più di quattro anni e mezzo dalla prima condanna definitiva per corruzione in atti giudiziari per la vicenda Imi – Sir, una bazzecola da mille miliardi di allora. Sono passati 3 anni e cinque mesi dalla seconda condanna per la sentenza in favore di Silvio Berlusconi sul Lodo Mondadori, una robetta da 750 milioni di euro, eppure l’ex ministro della difesa è ancora iscritto all’albo degli avvocati. L’avvocato che aveva trasformato il foro romano in un suk è stato graziato dalla lentezza della giustizia della casta dell’Ordine professionale che si è dimostrata incredibilmente più lenta di quella della casta dei parlamentari.

Non uno dei 25 mila avvocati di Roma ha trovato da ridire sulla sua iscrizione all’Ordine. Un silenzio che offre argomenti a chi invoca l’abolizione di un’istituzione che limita la concorrenza e che dovrebbe giustificare la sua stessa esistenza con la tutela dell’ etica e della deontologia. Il Fatto Quotidiano si era occupato dell’incredibile caso della mancata radiazione nell’ottobre del 2009. Allora ci spiegarono che Previti era stato radiato dall’Ordine di Roma nel 2008 ma la decisione era stata impugnata davanti al Consiglio Nazionale Forense. Il presidente nazionale, il professor Guido Alpanell’ottobre scorso ha fatto il suo dovere: “Il consiglio su mia proposta ha disposto la radiazione dell’avvocato Previti ma esiste un terzo grado di giudizio”. Ovviamente Previti non si è fatto sfuggire l’occasione: “Abbiamo presentato ricorso in Cassazione”, spiega il difensore dell’ex ministro della difesa,Alessandro Sammarco “così la sanzione disciplinare dell’Ordine è sospesa fino alla decisione definitiva delle sezioni unite civili della Cassazione”. Ci vorrà almeno un altro anno. “Fino ad allora”, continua Sammarco, “Cesare Previti è un avvocato a tutti gli effetti e potrebbe difendere in giudizio i suoi clienti anche se, per sua scelta, preferisce non farlo”.

Secondo l’Ordine di Roma le cose non stanno così: Previti non potrebbe operare comunque perché la sentenza di condanna prevede per lui l’interdizione perpetua che impedisce l’esercizio della professione a prescindere dalla radiazione dell’Ordine. “Quella pena accessoria però”, ribatte sicuro l’avvocato Alessandro Sammarco, “si è estinta a seguito dell’esito positivo dell’affidamento ai servizi sociali nel dicembre del 2009. L’articolo 47 comma 12 dell’Ordinamento penitenziario dice chiaramente che: ‘l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale’, quindi”, prosegue Sammarco, “anche le pene accessorie”. E qui arriva il colpo di scena: tutte le pene accessorie, anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici in sede politica. Ergo, come spiega l’avvocato Sammarco, “in linea teorica Cesare Previti potrebbe candidarsi alle prossime elezioni, anche se si tratta di un’ipotesi astratta come quella della sua difesa in un processo”. Altro che scandalo per la presenza del difensore Cesare Previti in un tribunale. Presto l’avvocato potrebbe tornare in Parlamento. E allo studio di via Cicerone, per parlare con il pluripregiudicato, bisognerà chiedere dell’“Onorevole avvocato Previti”.

da Il Fatto Quotidiano del 5 gennaio 2011

Su gentile concessione di:

http://ilgiornalieri.blogspot.com/2011/01/miracolo-italiano-un-previti-e-per.html


Nuovo Masada.



MASADA n° 1245 . 6-1-2011. Il test dei colori







The Miniature Earth . 2010 edition . Official version


Ristoratori padovani contro Zaia: "Basta cene al ristorante cinese"




PADOVA. Al ristorante cinese ha trascorso anche la sera di Capodanno. E' polemica sul governatore leghista del Veneto Luca Zaia, accusato dai ristoratori padovani di preferire la cucina "low cost" orientale a quella tradizionale, nonostante si batta per la difesa dell'agricoltura e dei prodotti locali.

"Con perplessità e discutibilità abbiamo mal digerito la foto apparsa sul mattino che ritrae il governatore Zaia con l'amico Marco Hu Lishuang nella serata di Capodanno al ristorante Wok-sushi - spiegano i ristoratori in una lettera inviata al mattino che domani sarà pubblicata integralmente dal giornale - Con quale soddisfazione il governatore si batte in difesa dei saporiti prodotti veneti?".

Qualità, attenzione al territorio, accoglienza del cliente: tutte caratteristiche che i cuochi padovani rivendicano dalla loro parte contro la concorrenza dei ristoranti cinesi. "I prezzi che pratichiamo sono lo specchio dell'equità e dell'onesta - spiegano - E siamo soggetti agli studi di settore con dei parametri ben definiti per i giusti ricarichi".

"Invitiamo poi il Governatore Luca Zaia a frequentare pure i nostri locali - concludono i ristoratori - Assieme al calore familiare e a eleganti tavoli (non striminziti e non self service) il governatore troverà e degusterà vini e cibi con prodotti della nostra meravigliosa agricoltura, di quella terra che è anche la sua, con accattivanti ricette non di importazione".

La lettera di protesta, con nomi e cognomi e indirizzi dei ristoranti, è stata inviata anche al presidente Zaia e all'Appe, l'associazione che tutela i pubblici esercizi (leggi l'intervento). Si tratta del "Cancelletto" di Camin, delle trattorie Berton e Ai Porteghi di Padova, del ristorante Palestro29, della trattoria Tunnel di Busa di Vigonza, del ristorante Bastione di Bastia di Rovolon, dell'antica trattorio da Dorio di Vigodarzere e del "Di...vino" di Villatora di Saonara.

Il governatore veneto ha deciso di rispondere a stretto giro di posta con un'altra lettera. "Mi pare che ciò che mi state chiedendo è di giustificare un mio spazio familiare, nel quale ho accettato l'invito di un gruppo di amici che, non per il veglione di Capodanno, ma il giorno dopo, per cena, mi avevano chiesto di partecipare ad un momento conviviale - scrive Zaia ai ristoratori - Ero stato da Marco quattro anni e mezzo fa, per l'inaugurazione del suo locale. Nel frattempo, e ve lo dico solo di sfuggita, diverse volte a settimana frequento ristoranti che hanno fatto della cucina veneta il proprio point of difference, giusto per utilizzare il gergo delle agenzie di pubblicità. E come ministro ho applicato la "tolleranza zero" contro i prodotti etnici arrivati in Italia per minacciare la salute dei consumatori".