BARI - Dovrà essere il primario della Neurofisiopatologia del Policlinico romano di Tor Vergata a riesaminare le cartelle cliniche della clinica San Camillo di Taranto, cui la Asl ha chiesto di restituire 13,5 milioni di euro a fronte di prestazioni diverse da quelle realmente erogate ai pazienti. Lo ha deciso il Tar di Lecce, in un caso emblematico dei rapporti tra aziende sanitarie e ospedali privati pugliesi: i controlli sull’appropriatezza dei ricoveri, che arrivano (se arrivano) ad anni di distanza, spesso sono parziali e non riescono a stroncare il fenomeno della codifica opportunistica. Quello di indicare nelle cartelle cliniche un codice «Drg» (il listino prezzi della sanità) più favorevole per il privato.
In questa vicenda, però, la Asl di Taranto fino ad ora ha lavorato con impegno, pur scontrandosi con la casa di cura: nel 2015 l’amministratore, l’avvocato Carlo Fiorino, è stato condannato a quattro mesi per interruzione di pubblico servizio, in quanto aveva impedito agli ispettori dell’Uvar di accedere alle cartelle. «Oggi - garantisce il direttore generale della Asl, Stefano Rossi - i controlli si svolgono regolarmente, e su una buona percentuale delle cartelle».
La vicenda affrontata dal Tar riguarda il Drg 532, intervento chirurgico sull’ernia del disco che costa alla sanità pubblica 8.413 euro e che la San Camillo aveva dichiarato di aver effettuato in anestesia totale. Ma la quantità di interventi effettuati aveva insospettito la Asl. Quel Drg - secondo la letteratura - è un esito collegato ai reparti di neurochirurgia, mentre alla San Camillo riguardava l’ortopedia per ricoveri molto brevi. Si trattava, in realtà, di «trattamenti di ossigeno-ozono terapia» che valgono 500 euro, peraltro effettuati in un reparto che - sempre secondo la Asl - risultava avere percentuali di occupazione superiori al 100% e che svolgeva questi interventi sotto la supervisione di un medico (nel frattempo deceduto) molto noto in città.
La Asl ha riqualificato gli interventi «523» in «234», che è un Drg medico e vale 4.600 euro. La richiesta di restituzione dei 13 milioni riguarda il periodo dal 2009 al 2013, e dagli atti di causa emerge che la San Camillo avrebbe impedito i controlli dal 2011: per questo la Asl, all’epoca, ha mandato le carte in Procura.
La San Camillo ha tuttavia impugnato la richiesta di restituzione, segnalando di aver ottenuto tre decreti ingiuntivi nei confronti della Asl in relazione proprio a somme contestate. E i giudici amministrativi hanno ritenuto opportuno nominare un tecnico terzo cui affidare la verifica della «regolarità tecnica delle ri-codifiche operate dalla Asl», sia «sul piano - per così dire - “qualitativo” (e dunque riferibile alla condivisibilità, nel merito, delle ragioni che - caso per caso - a parere della Asl le giustificavano)», sia «su quello “quantitativo” (riferibile, cioè, al quantum delle somme - almeno su base percentuale rispetto ai 13,5 milioni circa richiesti - di cui la Asl è, in base all’esito della verifiche qualitative, legittimata a chiedere la restituzione)». Sui decreti ingiuntivi, però, i giudici hanno osservato che «non è chiaro se e in che percentuale i decreti siano pertinenti alla somme oggi in contestazione». Sarà dunque il primario romano Nicola Biagio Mercuri a dover rivedere le cartelle.
Peraltro, in parallelo, il Consiglio di Stato si è occupato del caso che riguarda gli interventi effettuati dalla Bernardini di Taranto: qui la Asl chiede la restituzione di 1,3 milioni. I giudici hanno ordinato alla Finanza, che aveva svolto le verifiche nel 2016, di depositare una relazione di chiarimenti.