sabato 3 aprile 2021

RECOVERY FUND/INVESTIRE SUL SUD COME LA GERMANIA FECE SULL’EST. - Isaia Sales

 

In Europa, a partire dal secondo dopoguerra, ci sono stati solo due imponenti tentativi di recupero di vaste aree sottosviluppate all’interno della stessa nazione. Si tratta del Sud d’Italia (dal 1950 in poi) e della Germania dell’Est (dal 1990 ad oggi). I tentativi hanno interessato una consistente fetta di popolazione, 16 milioni e mezzo di abitanti nell’Est (un quinto dell’intera popolazione tedesca) e 20 milioni nel Sud (un terzo di quella italiana); molto estesa la superficie territoriale coinvolta (il 30% in Germania, il 41% in Italia). Anche altre nazioni europee hanno messo in piedi politiche specifiche per territori arretrati, ma nessuna di esse ha riguardato territori così ampi, così geograficamente compatti, con un tale numero di abitanti e così cospicue risorse investite.

I risultati di queste due straordinarie esperienze sono in genere valutati dagli studiosi e dai commentatori politici con giudizi radicalmente opposti: si passa dall’uso disinvolto della parola “fallimento” a quella enfatica di “miracolo”; per alcuni si tratta del più vasto spreco di denaro pubblico mentre per altri del più efficace intervento statale nella storia dei rispettivi Paesi. Formulare, dunque, un giudizio basato sui dati economici e finanziari non è facile: mentre conosciamo le cifre investite per l’Italia meridionale, non ci sono ancora cifre del tutto condivise su quanto effettivamente si è finora speso nella Germania dell’Est.

Gli investimenti. Per il Sud d’Italia le cifre sono queste: in cinquantotto anni, cioè dall’avvio della Cassa del Mezzogiorno nel 1950 al 2008 (cioè fino all’inizio della crisi economica globale che ha chiuso definitivamente qualsiasi politica pubblica per il Sud lasciandola solo all’utilizzo del fondi europei di coesione) sono stati investiti 342,5 miliardi di euro. In Germania Est si è investito in 30 anni quasi 5 volte in più di quello che si è speso in circa 60 anni nel Sud d’Italia, cioè tra i 1500 e i 2000 miliardi di euro. Nelle regioni orientali tedesche 70 miliardi di euro in media all’anno, nel Mezzogiorno 6 miliardi l’anno. La Germania ha investito nel suo “Mezzogiorno” (cioè nelle regioni che prima della riunificazione facevano parte di un altro Stato, la RDT) tra il 4 e il 5% dell’intero suo Pil, una cifra enorme, fatta di ingentissime risorse statali (procurate con emissione di titoli di Stato e attraverso la fiscalità generale con una tassazione ad hoc di tutti i redditi dei tedeschi) e da investimenti esteri per 1.257 miliardi di euro.

Nel Sud d’Italia invece, per tutto il periodo del cosiddetto “Intervento straordinario” non si è mai superato la soglia dell’1% del Pil. Chiusa la Cassa per il Mezzogiorno (la struttura speciale che guidò l’intervento pubblico nei territori meridionali) la percentuale è scesa ulteriormente.

Il confronto Vediamo ora i risultati in termini di reddito pro capite. Nel 1989 il Pil per abitante della Germania Est era la metà di quello della Germania Ovest (addirittura un terzo, secondo altre fonti), nel 2009 era salito a due terzi, nel 2018 al 75,1%. Certo, non l’eliminazione del divario come aveva promesso Helmut Kohl, ma comunque un balzo in avanti di almeno 25 punti. Un risultato ancora più significativo perché inizialmente la scelta discutibile di smantellare l’apparato industriale e privatizzarlo comportò una spaventosa disoccupazione di massa e l’emigrazione di 1 milione e ottocentomila persone dall’Est all’Ovest. Ancora oggi la disoccupazione è più alta ad Est, così come i salari sono inferiori in media del 20%, lo spopolamento di alcune aree è vistoso, il peso delle esportazioni è fortemente squilibrato tra le due aree e il malcontento tra la popolazione è elevato (come dimostra il sostegno a formazioni naziste in un territorio ex comunista!). Ma basta fare un confronto con il Sud d’Italia per comprendere come si tratti comunque di risultati notevoli: prima della pandemia, cioè nel 2019, il prodotto per abitante nel Mezzogiorno italiano è stato pari al 55,1% rispetto a quello del Centro-Nord, quasi 20 punti in meno della differenza che intercorre oggi tra le due aree tedesche. Il tasso di disoccupazione, sempre nel 2019, è stato del 17,6% nel Sud e del 6,9% nell’Est tedesco; la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) è stata del 45,5% nel Sud, e solo dell’8,6% negli ex Lander dell’Est.

L’economia dietro la politica. La riunificazione tedesca è indubbiamente un evento epocale, tra le più difficili e complesse operazioni di pace del Novecento. La Germania ha per due volte riunificato territori in cui si parlava la stessa lingua e ci si sentiva accomunati dalla stessa storia e dalla stessa cultura: una prima volta nel 1871 e la seconda a fine Novecento. Alcuni studiosi ritengono che l’unità nazionale sia un valore che trascende la logica economica, un’aspirazione che travalica qualsiasi contabilità dei costi, un sacrificio da sopportare in cambio di una soddisfazione civile e “morale”: unire territori diversi è politicamente entusiasmante, ma economicamente devastante. D’altra parte come non ricordare il salasso che costò al bilancio del regno sabaudo la spesa per unificare l’Italia (in gran parte per sostenere le guerre). Ma non è affatto così. Dietro un disegno politico c’è sempre una convenienza economica, soprattutto se il disegno è davvero ambizioso e sostenuto da forti motivazioni pratiche oltre che ideali. Nel caso dell’unità raggiunta dall’Italia e dalla Germania a dieci anni di distanza l’una dall’altra, in ritardo rispetto alle altre nazioni europee, fu determinante la necessità del capitalismo dei rispettivi Paesi di allargare il mercato a dimensioni sufficienti a reggere le ambizioni nazionali. L’unità politica corrispondeva ad una esigenza anche economica. Ma anche le riunificazioni possono avere lo stesso miscuglio di aspirazioni politiche e di valutazioni economiche.

La lezione tedesca. La Germania sta lì davanti ai nostri occhi a provarcelo contro ogni ragionevole dubbio. Perché mai in Italia una reale convergenza tra due aree così differenti, quali sono il Nord e il Sud del Paese, viene percepita invece come un danno o un pericolo? Non ha bisogno anche l’Italia di una sua effettiva riunificazione? E può essere quello tedesco un modello? Diversi studiosi hanno delle perplessità su questo punto, anzi ritengono che si sia trattato di una vera e propria “annessione” più che una riunificazione, confermando il parere che diede già nel 1990 Gunter Grass. In ogni caso, si tratta di uno dei tentativi più coraggiosi, più originali, più dispendiosi fatti in Europa per ridurre le distanze tra realtà territoriali che, per varie ragioni storiche, si erano trovate separate e diversamente sviluppate.

Tre lezioni per l’Italia. Che insegnamenti se ne possono trarre per il dibattito politico ed economico in Italia? 

1) Ogni divario tra diverse parti di uno stesso Paese è superabile, e lo si può fare (se lo si vuole) in pochi decenni anche partendo da situazioni peggiori di quelle che ci sono in Italia tra Nord e Sud. Avvicinare due territori diversamente sviluppati (in un lasso di tempo ragionevole) è un obiettivo assolutamente alla portata di qualsiasi nazione ben motivata. È una strategia che appartiene alla politica e non all’utopia. In economia e in politica non esistono situazioni irrecuperabili. 

2) Il ritardo economico non è un fatto antropologico, non appartiene alla razza, all’indole, al carattere, al clima, non è uno stigma morale. Sembra assurdo doverlo ripetere, ma la Germania dimostra come il vantaggio di un’area non si possa spiegare e giustificare con l’arretratezza antropologica dell’altra. Infatti fino al 1949, cioè all’atto formale della divisione della Germania in due entità statali distinte, quella occupata dai sovietici e quella occupata dalle truppe alleate, i Lander orientali erano la parte più sviluppata, facevano parte nel passato della “grande Prussia”, una delle realtà industriali più avanzate d’Europa. Nel 1937 i territori che poi diventeranno la Germania dell’Est avevano il reddito per abitante più alto in Europa, superiore del 27% rispetto ai territori della Germania dell’Ovest, con la presenza di imprese modernissime nel campo della meccanica di precisione, dell’ottica, della chimica e della produzione aereonautica. Dunque, sono le vicende storiche, gli accadimenti politici, le scelte strategiche che possono modificare radicalmente l’economia e la vita di un territorio e la sua collocazione nelle vicende generali di una nazione. I popoli non sono immobili, né tantomeno i territori. 3) Non è vero che i soldi spesi nelle aree più arretrate sono uno spreco, una perdita secca per lo Stato e per i territori più ricchi. Colmare i divari economici è una operazione che si ripaga ampiamente, è un affare per tutti e non un sacrificio. D’altra parte ciò si è dimostrato vero anche in Italia: il periodo in cui il nostro Paese è cresciuto a tassi elevatissimi (1950/1980) corrisponde al periodo in cui decollava anche il Sud grazie agli investimenti della Cassa del Mezzogiorno. Recuperando una parte meno sviluppata, la ricchezza investita si trasforma in ricchezza generale.

Un esperimento keynesiano. La Germania di oggi è di gran lunga la nazione europea economicamente più ricca di quanto lo fosse nel 1989, prima della riunificazione e prima dei grandi investimenti nell’Est. Anzi nel 1989 l’economia tedesca stava attraversando un periodo di stagnazione e di difficoltà. Si è trattato, dunque, di una particolare sperimentazione di politiche keynesiane territoriali. I benefici generali sono stati nettamente superiori ai costi investiti. Se negli anni 1980/1989 la crescita complessiva della Germania Ovest era stata in media dell’1,8%, negli anni successivi alla riunificazioni si sfiorarono tassi di crescita molto alti, un più 4,5% nel solo 1990 e un più 3,2 per cento nel 1991. L’economia tedesca ricevette dall’unificazione e dai massicci investimenti all’Est uno straordinario stimolo di crescita che le permise di proiettarsi tra le prime potenze industriali e commerciali del mondo, assurgendo a un ruolo geopolitico inimmaginabile a pochi decenni dalla sconfitta della seconda guerra mondiale. Certo, la Germania non è l’Italia, il Sud non è l’Est tedesco. E in Italia il divario territoriale dura da 160 anni. Ma il Mezzogiorno ha conosciuto anch’ esso un suo periodo d’oro. Si è verificato tra il 1950 e il 1973. In quel ventennio il Pil meridionale registrò il più alto tasso di crescita dal 1861 in poi. Nel 1973 il Pil pro capite del Sud arrivò al 60,5 di quello del Centro-Nord (quasi otto punti in più rispetto al 1950, quando era fermo al 52,9) un risultato mai più raggiunto negli anni successivi. I progetti di investimenti nella prima fase erano rigorosi, i tecnici di alto livello. Poi ci fu una degenerazione clientelare, e dalla crisi petrolifera del 1973 l’Italia decise progressivamente di lasciar perdere.

Il passato che insegna. Il trentennio d’oro dell’Italia , quello culminato con il boom economico, si realizzò principalmente perché il Sud fu parte integrante delle strategie di sviluppo della nazione, con la sua manodopera emigrata che rese possibile il balzo industriale del Nord (ben 2 milioni e mezzo di meridionali emigrarono tra il 1955 e il 1975), con la costruzione di infrastrutture che fecero uscire dal Medioevo intere comunità, con l’allargamento della sua base industriale e agricola, con la piena partecipazione alla società dei consumi di una parte consistente della sua popolazione, con la scolarizzazione di massa che permise a diverse generazioni di cambiare radicalmente il mestiere dei padri.

Il Sud fu tra gli anni cinquanta e la prima metà degli anni settanta del Novecento parte attiva della ricostruzione nazionale. Senza gli investimenti nel Sud, l’Italia sarebbe rimasta una piccola nazione, ininfluente sullo scenario internazionale, come tutto sommato lo era stato nel corso della sua storia precedente, dal 1861 in poi. Fu in quel periodo, cioè nella ricostruzione del secondo dopoguerra, che il Sud divenne fino in fondo parte dell’Italia, quando nei fatti concorse al suo sviluppo economico e se ne avvantaggiò.

Un’altra obiezione che si può fare a quanto finora sostenuto è che in Italia non ci sono le risorse e le condizioni politiche e finanziarie per fare quello che si è fatto in Germania. Eppure qualcosa sembra rendere possibile ciò che fino a qualche tempo fa sembrava impossibile. Cospicue risorse pubbliche arriveranno dall’Europa come arrivarono nel secondo dopoguerra dai prestiti americani e internazionali.

Fu grazie a quei prestiti che si avviò una politica straordinaria per il Mezzogiorno e fu quella politica che diede una svolta all’economia italiana. Quanti soldi investiti nel Sud sono ritornati all’economia del Nord? Molti. La Svimez ha calcolato che per ogni euro investito nel Sud 40 centesimi tornano all’economia del Centro-Nord in termini di beni e servizi per le imprese settentrionali; al contrario, per ogni euro investito nel settentrione solo 6 centesimi ritornano nel meridione.

D’altra parte in quell’epoca a spingere per massicci investimenti al Sud c’erano uno statista come Alcide De Gasperi (trentino) e un grande banchiere come Domenico Menichella (pugliese) e tanti tecnici settentrionali appassionati delle terre meridionali. A Menichella in gran parte si deve il miracolo economico italiano. Egli fu anche il fondatore della Svimez nel 1946. E fu lui ad ideare la Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 utilizzando i prestiti in dollari della Banca Mondiale destinati agli investimenti nelle aree depresse del mondo.

Una nuova occasione Draghi ha davanti a sé la possibilità di ripetere un nuovo miracolo economico. Non si potrà certo replicare il modello della Cassa per il Mezzogiorno, ma la nazione ha bisogno di una strategia che inglobi il suo Sud.

D’altra parte le risorse europee sono tante proprio perché assegnate sulla base delle difficoltà economiche delle regioni meridionali. L’Italia non ce la farà a riprendersi riattivando un solo motore produttivo; ha la possibilità di accenderne un secondo che renderà più veloce ed efficiente il primo. Far crescere il Sud è un affare per l’economia italiana. L’occasione si ripresenta. Come nel secondo dopoguerra, come in Germania.

Libertàgiustizia da La Repubblica

Parte la stretta di Pasqua, fino a lunedì Italia in rosso.

 

Nuove disposizioni scattano dopo 3 giorni rossi di Pasqua: Veneto, Marche e la provincia autonoma di Trento in arancione, ma nove regioni restano in rosso almeno per un'altra settimana.

La mappa di colori e relative misure divide l'Italia quasi perfettamente in due, con Veneto, Marche e la provincia di Trento che si aggiungono alle regioni arancioni, mentre altre nove restano in zona rossa almeno per un 'altra settimana. Ma il Paese, fino al 5 aprile, è pronto ad attraversare la parentesi della 'stretta di Pasqua', una sorta di lockdown più morbido affinché siano limitati spostamenti e assembramenti durante le festività: in questi tre giorni è vietata la mobilità anche nel proprio Comune, se non per attività motoria vicino a casa o per andare a trovare parenti o amici in massimo di due persone (i minori di 14 anni conviventi non si considerano nel conteggio).

E' per questo che, grazie al lavoro di 70mila uomini delle forze dell'ordine in campo previsti, saranno intensificati controlli e posti di blocco in arterie stradali, parchi e spiagge. 

In generale, Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Puglia, Valle d'Aosta e Campania dovranno ancora aspettare il monitoraggio della prossima settimana prima di poter sperare nell'eventuale uscita dalla zona rossa. Veneto, Marche e la provincia di Trento sono invece state promosse in arancione, con l'ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza, che entrerà in vigore da martedì prossimo. Lo stesso colore è stato confermato per Lazio, Abruzzo, Liguria, Basilicata, Sicilia, Molise, Sardegna, Umbria e la provincia autonoma di Bolzano.

Prima però c'è il weekend di Pasqua e Pasquetta, tutto in rosso con regole ancora più severe in alcuni territori: Campania, Puglia e Liguria hanno posto il divieto di accesso alle seconde case per residenti e non residenti. Per quest'ultima 'categoria' il divieto è imposto anche in Piemonte, Valle d'Aosta, Alto Adige, Trentino, Toscana, Marche, Calabria e Sardegna. E nell'Isola - così come in Sicilia - si entra solo con tampone negativo effettuato 48 ore prima dell'arrivo. In Piemonte i supermercati saranno chiusi, così come tutti i negozi in Toscana (deroghe per edicole, farmacie e consegne a domicilio) mentre in Sicilia i supermarket potrebbero restare chiusi il 4 e 5 aprile nonostante non ci sia un'ordinanza che lo disponga, bensì per effetto dello sciopero dei lavoratori della grande distribuzione.

Sul litorale romano le forze dell'ordine e volontari - a Fiumicino anche con l'ausilio di un drone - saranno in campo per controllare vie di accesso agli arenili, eventuali situazioni di assembramento, rispetto delle misure anti Covid, e controlleranno anche esercizi, spiagge, pinete e parchi pubblici. Stesse misure nel territorio di Catanzaro, dove saranno chiusi lungomare e pinete e dove sarà anche vietato il passeggio, lo stazionamento e le attività motorie. Aree verdi chiuse anche a Pescara, Matera e in diverse città della Toscana mentre la Liguria ha vietato i rientri nelle seconde case e l'utilizzo delle barche a Pasqua. E in Sardegna - tra le regioni con il dato epidemiologico tra i più bassi - entra in zona rossa Pula, nota località turistica del sud ovest.

Ora, a causa dell'impennata dei contagi nel territorio, i Comuni sardi in lockdown sono 13. Diverse città blindate in Toscana: a Capalbio l'accesso agli arenili sarà interdetto su tutto il territorio, verrà posta attenzione alle seconde case, sarà vietato recarsi sul litorale e, per questo, saranno bloccati gli ingressi alle spiagge. A Massa fino al 7 aprile sarà vietato l'ingresso anche ai parchi pubblici, al pontile e alle spiagge. A Campobasso, in Molise, i controlli saranno potenziati soprattutto nelle zone dove di solito c'è maggiore flusso turistico e in quelle solitamente interessate da numerosi rientri da fuori regione per le festività. Anche nella Repubblica di San Marino - in linea con i provvedimenti adottati in Italia - è stata estesa la possibilità - il 3, il 4 e 5 aprile - di compiere visite in abitazioni che si trovano nelle regioni limitrofe al monte Titano: Emilia-Romagna e Marche.   

(nellafoto d'archivio, Venezia)

ANSA

Depositati 3 ddl: “Ora via il reato” Cartabia dice no. - L. Giar. e G. Sal.

 

Mario Draghi lo aveva annunciato nel suo discorso programmatico in Senato il 17 febbraio scorso: “Occorre evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma”, aveva detto tra gli applausi dei parlamentari e dei tanti amministratori locali. Ora il centrodestra si sente con le spalle coperte per andare all’assalto del reato di abuso d’ufficio, il principale nemico di molti politici e amministratori. Obiettivo: smontarlo ulteriormente dopo che il governo Conte-2 la scorsa estate lo aveva già depotenziato nel decreto Semplificazioni, volto a sbloccare decine di opere pubbliche. A far partire l’attacco all’articolo 323 del codice penale è la Lega, che nei giorni scorsi ha annunciato una proposta di legge a prima firma di Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia del Senato. Ostellari sta ancora lavorando e limando il testo, co-firmato da tutto il gruppo della Lega a Palazzo Madama, ma ha già annunciato quale sarà il principio cardine della proposta: eliminare una volta per tutte la responsabilità penale degli amministratori nella “firma degli atti”.

Il governo Conte, con il decreto del 16 luglio 2020, aveva già ristretto i margini dell’applicabilità del reato escludendo tutte le violazioni contenute in fonti diverse da leggi o atti aventi forza di legge e tutti quei comportamenti che abbiano “margini di discrezionalità”. Adesso la Lega vorrebbe specificare che non sarà punito l’eccesso di potere degli amministratori. Ergo: smontare quel poco che rimane dell’abuso d’ufficio. La ratio che ha portato la Lega a dare un’accelerata per riformare il reato è la ripartenza delle opere pubbliche chiesta da Matteo Salvini: “L’Italia ha bisogno di cantieri – ha spiegato Ostellari all’AdnKronos – La disciplina attuale dell’abuso d’ufficio impedisce agli amministratori locali e ai dirigenti di prendere decisioni serenamente e finisce per rallentare un processo di sviluppo e crescita di cui il Paese è affamato”. E quindi, continua il presidente leghista della Commissione Giustizia, “non possiamo permetterci che l’Italia sia ferma perché sindaci e assessori hanno paura di firmare. Nel 2018 ci sono stati più di settemila procedimenti giudiziari per abuso d’ufficio, la gran parte finisce nel nulla, ma l’infamia resta a vita”. Il nuovo testo potrebbe unificare gli altri due già depositati in Parlamento in questa legislatura per abolire il reato, entrambi del centrodestra. Il primo è quello presentato il 21 ottobre 2019 da dieci deputati leghisti guidati da Roberto Turri, avvocato e capogruppo del Carroccio in commissione Giustizia a Montecitorio, che esclude l’applicabilità per le “norme di principio o di norme genericamente strumentali alla regolarità dell’attività amministrativa”, mentre la punibilità è esclusa per tutti quei provvedimenti il cui contenuto “non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” o “nei casi di particolare tenuità del fatto”. La modica quantità di abuso di potere.

Forza Italia invece propone proprio di abolire l’abuso d’ufficio con Silvio Berlusconi che nelle ultime settimane ha dato due interviste, prima al Messaggero e poi al Giornale, per chiedere di “rivedere” il reato. La deputata forzista Cristina Rossello, avvocato anche lei, ha depositato insieme a 18 colleghi una proposta di legge composta da una sola riga: “L’articolo 323 del codice penale è abrogato”. Nella scheda di presentazione del provvedimento i berluscones se la prendono con i magistrati colpevoli di indagare: “Una quantità enorme di procedimenti che iniziano a fronte di una quantità infinitesimale di quelli conclusi con condanna – si legge – nel frattempo, carriere, vite e famiglie di coloro che ne escono non colpevoli, dopo lunghissimi anni, sono rovinate e spesso costoro sono ridotti in miseria”. Per questo, sostiene FI, il reato di abuso d’ufficio va abolito. Non è della stessa opinione la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha già dato non pochi dispiaceri al fronte garantista: da Via Arenula fanno sapere che la modifica del reato di abuso d’ufficio non è all’ordine del giorno.

IlFattoQuotidiano

B. e Salvini, parte l’assalto all’abuso d’ufficio. - Lorenzo Giarelli e Giacomo Salvini

 

Cercasi impunità - Bye bye processi. Il leader leghista (indagato) adesso vuole modificare la legge insieme a Berlusconi: addio ai tanti guai con la giustizia degli ultimi anni.

A scorrere la lista di chi, dentro la Lega o Forza Italia, ha passato dei guai per l’abuso d’ufficio si capisce perché il destino del suddetto reato sia un tema particolarmente sentito dal centrodestra. Non sono pochi infatti i nomi illustri finiti indagati per una firma di troppo o per una nomina sospetta, sorte che negli anni ha accomunato anche i due leader Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Con loro, sindaci, presidenti di Regioni, ministri: tutti alle prese con quell’abuso d’ufficio “reato fantasma che blocca l’Italia” (il copyright è di Matteo, ma immaginiamo che Silvio potrebbe sottoscrivere).

I leader. Matteo e Silvio: voli, migranti e annozero.

Partiamo da loro, dunque. Un anno e mezzo fa Salvini ha saputo di essere indagato per abuso d’ufficio in relazione a 35 voli di Stato che, secondo la Procura di Roma, meritavano un approfondimento da parte del Tribunale dei ministri. Il caso riguarda infatti alcuni viaggi compiuti dal leader della Lega durante il suo periodo al Viminale: un’inchiesta di Repubblica svelò come a ridosso di certi impegni istituzionali – ovvero quelli che giustificavano il trasferimento col volo di Stato – Salvini avesse approfittato per svolgere attività di partito negli stessi luoghi. Contattato dal Fatto, lo staff del segretario del Carroccio conferma di non aver più ricevuto aggiornamenti sull’indagine. Peraltro, lo stesso Salvini è anche a processo a Palermo per omissione d’atti d’ufficio, oltre che per sequestro di persona: dovrà convincere il giudice che il mancato sbarco della nave Open Arms, deciso quando era ministro, non ha infranto la legge.

Quanto a Berlusconi, l’abuso di ufficio è solo una delle tante tappe di una pittoresca carriera giudiziaria. Silvio finì indagato nel 2011, quando la magistratura scoprì che l’allora presidente del Consiglio si lamentava della trasmissione Annozero di Michele Santoro parlando al telefono con l’allora dg Rai, Mauro Masi, e con il commissario Agcom, Giancarlo Innocenzi. I pm prima ipotizzarono che quelle telefonate potessero essere valutate come pressioni indebite per far chiudere il programma, ma poi chiesero l’archiviazione riconducendo le conversazioni intercettate a semplici sfoghi di un privato cittadino deluso dal palinsesto.

In corso Tutti i casi aperti.

Sono tante però le indagini aperte per abuso d’ufficio che ancora riguardano uomini di spicco del centrodestra. Uno degli ultimi a ricevere l’avviso di garanzia è stato il presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas, indagato insieme a un’assessora e al suo capo di gabinetto. Secondo la Procura di Cagliari, i tre avrebbero nominato due dirigenti che non avevano i titoli per ricevere l’incarico. Di pochi mesi fa è anche la storia di Claudio Corradino, sindaco leghista di Biella: ancora una volta, la colpa è di alcuni incarichi pubblici che l’accusa ritiene esser stati assegnati in maniera illegittima. Diverso invece il caso del senatore salviniano Giuliano Pazzaglini. I suoi guai con l’abuso d’ufficio risalgono a quando era sindaco di Visso, paese in provincia di Macerata. Il leghista è stato rinviato a giudizio perché la Procura sospetta che alcuni fondi per la ricostruzione post sisma siano stati dirottati sui conti di due società riconducibili a Pazzaglini, invece che sulle casse del Comune. Sotto inchiesta è poi Vincenzo Catapano, coordinatore provinciale della Lega a Napoli e sindaco di San Giuseppe Vesuviano: dovrà rispondere di una nomina sospetta. Da un leghista all’altro, a fine 2020 è emerso il caso di Pasquale Cariello, consigliere regionale in Basilicata, indagato per abuso d’ufficio in concorso per fatti risalenti al 2018, quando era consigliere d’opposizione nel Comune di Scanzano Jonico, poi sciolto per mafia.

Niente da fare. Assolti, archiviati o prescritti.

Chi invece è appena uscito da un’inchiesta è Attilio Fontana. Il governatore lombardo era stato accusato di aver nominato in maniera illegittima l’ex socio Luca Marsico come membro esterno del “Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici”, ma poi è arrivata l’archiviazione del gip di Milano. Se si va più indietro nel tempo, non si fatica a trovare nomi noti. Agli sgoccioli dell’epoca d’oro berlusconiana, per esempio, fu indagato Denis Verdini, allora coordinatore nazionale del PdL. L’accusa era di aver tentato, attraverso relazioni politiche, di favorire il consorzio di un imprenditore amico nella spartizione dei lavori dopo il terremoto dell’Aquila. Il gup decise però di prosciogliere Verdini, dopo che la Camera aveva negato l’utilizzo delle intercettazioni sull’ex factotum di Silvio. Ricorda invece i tormenti di Salvini quanto successo a Roberto Maroni, anch’egli ministro dell’Interno della Lega e alle prese con i problemi dell’immigrazione. A provocare l’indagine – era il 2009 – fu il respingimento di 227 migranti salvati in acque internazionali, vicenda su cui il Tribunale dei ministri decise per l’archiviazione. Stessa fine dell’inchiesta sull’attuale ministro del Turismo Massimo Garavaglia, indagato per abuso d’ufficio per una strana operazione immobiliare risalente a quando il leghista era sia assessore in Regione Lombardia che componente del Cda di Cassa Depositi e Prestiti: nel 2014 la Regione vendette a Cdp la sede dell’ex Asl di Milano per 25 milioni di euro, ma lo stesso stabile otto mesi più tardi sarebbe stato rivenduto a un’altra società per 38 milioni. Una “operazione maldestra”, come la chiamarono i magistrati, ma non abbastanza da chiedere il processo per il ministro.

Se l’è cavata invece con la prescrizione il deputato forzista Ugo Cappellacci, già governatore della Sardegna. Il pubblico ministero lo aveva accusato di alcune nomine ballerine nel processo alla P3, ma tre anni fa sono scaduti i termini. Prescritto è anche Mario Mantovani, una vita al servizio di B. (e oggi in Fratelli d’Italia) tra Senato, Europarlamento e Regione Lombardia, dove fu vicepresidente. Arrestato nel 2015 per abuso d’ufficio, turbativa d’asta, corruzione e concussione, sospettato di aver truccato alcuni appalti, ha già visto esaurirsi la scadenza massima per l’abuso d’ufficio.

Dopo anni d’indagine si è invece chiusa con l’assoluzione la vicenda di Claudio Fazzone, senatore di FI finito a processo per alcune nomine all’Asl relative a quando era presidente del Consiglio regionale del Lazio.

IlFattoQuotidiano

“Messinscena Fontana: l’evasione fiscale scaricata tutta sulla madre”. - Davide Milosa

La rogatoria in Svizzera - La procura: operazioni costruite “per motivi di immagine politica”.

La vicenda dei conti esteri e la presunta evasione fiscale del presidente lombardo Attilio Fontana sono descritte dalla Procura di Milano come “una complessiva messinscena” costruita “per motivi di immagine politica” e “per evitare di denunciare al fisco la propria pregressa evasione fiscale”. Parole nette quelle dei magistrati, scritte nelle conclusioni della richiesta di rogatoria inviata alle autorità svizzere. A pagina dieci (di 14), la Procura si fa più stringente: “La falsità ideologica che permea l’operazione di rimpatrio dei capitali illeciti ha consentito a Fontana di trarre illegittimo profitto dall’utilizzo della simulata causale della successione ereditaria”, risparmiando 171mila euro di sanzioni. Secondo i pm non tutti i 5,3 milioni scudati sarebbero da ricondurre al presunto “nero” dei genitori del presidente.

A pagina 2 si legge che, “secondo l’assunto investigativo” Fontana “nel corso della procedura di voluntary ha dichiarato falsamente che il denaro detenuto all’estero sarebbe da ricondurre all’evasione fiscale posta in essere dalla madre Giovanna Maria Brunella, malgrado siano emersi plurimi elementi per ritenere che si sia trattato di provento (tutto o in parte) riconducibile alla propria evasione fiscale”. Poco dopo: “A seguito dell’esito favorevole del procedimento in questione, Fontana ha poi impiegato tali proventi in attività speculative”. Seguendo l’impianto dell’accusa, a pagina 7 si riprende una nota dell’Agenzia delle entrate relativa ai redditi dei genitori del presidente: “Alla luce dei livelli reddituali dichiarati” tra “il 1988 e il 2004 si rileva che il patrimonio detenuto al 31 dicembre 2014 risulta potenzialmente incongruo”.

L’incipit delle conclusioni della richiesta rogatoriale è ancora più netto. È scritto che “gli elementi” raccolti dall’accusa “portano a concludere per la protagonistica gestione da parte” di “Fontana delle operazioni finalizzate a ripulire una parte consistente (almeno 2,5 milioni) dei proventi dell’evasione fiscale per il tramite di un distorto utilizzo della voluntary disclosure”. Distorsione legata anche al fatto che Fontana, secondo i pm, non ha fornito “i documenti (…) per spiegare come sono stati generati i capitali all’estero”. Tanto che “la relazione (…) al riguardo è totalmente muta”. Di più: i tentativi dei pm di recuperare i documenti sono falliti visto che “le procedure di voluntary” per come spiegato dai testimoni “hanno seguito percorsi (…) inverosimili”. Per questo il governatore lombardo è indagato per autoriciclaggio e false dichiarazioni in voluntary. Fontana è anche accusato di frode in pubbliche forniture rispetto al caso dei camici venduti alla Regione dal cognato.

Sempre a pagina 10 della rogatoria si spiega come è stato impiegato il denaro scudato nel 2016: “Non vi sono dubbi che il patrimonio ripulito (…) è stato reinvestito da Fontana in strumenti finanziari”, attraverso un mandato all’Unione fiduciaria e l’apertura di un profilo di investimento presso Ubs che, per la Procura, “è annoverabile nel genus delle attività speculative”. Dagli atti, poi, emerge che Fontana scuderà 5,3 milioni, ma solo 3,5 sono riconducibili al conto del 1997 intestato alla madre. Su altri 2,5 milioni vi sono dei buchi che la rogatoria tenterà di ricostruire. Si legge, infatti, che “con l’apertura della relazione (…) (quella del 2005) vi è stata “una immissione di liquidità ulteriore rispetto a quella proveniente dalla relazione (…) (quella del 1997)”.

Dalla rogatoria emerge poi un dubbio di autenticità sulle firme relative al conto del 2005 e anche al conto del 1997. Viene scritto: “L’elaborato peritale rileva (…) anomalie nelle firme apposte nel 1997 da Fontana e da sua madre all’atto dell’apertura del conto (…) in quanto apparentemente apposte in un primo momento dalla signora Brunella e solo successivamente in circostanze di luogo e di tempo diverse, da Fontana”. Insomma una “messinscena” e, per i pm, “un duplice movente: economico e di immagine”. Fontana dal canto suo ha inizialmente spiegato di aver saputo del primo conto nel 2015 e poi, ieri, di averlo saputo già allora, anche se il conto lo gestiva la madre. Ora da indagato, se vorrà, potrà spiegare tutto ai magistrati.

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Mario si chiama Mario. - Marco Travaglio

 

Gira voce i comunicatori di Draghi stiano implorando i giornaloni di frenare le loro lingue più vellutate che, a furia di spacciarlo per il Messia, promettono miracoli che poi la gente non vede e s’incazza. Se è vero, vuol dire che Draghi ha degli ottimi comunicatori. Ma pure che la lingua, in certi esseri umani, è un muscolo molto più involontario di quell’altro. Ieri, per dire, il sito di Repubblica titolava “Draghi a Città della Pieve: il premier torna ad essere ‘Mario’ nel weekend di Pasqua”, onde evitare che qualcuno sospetti che diventi inopinatamente Ugo, lo chiami col nome sbagliato e lui non si giri. E la scorta? È posizionata “davanti alla casa di Draghi” (sul retro servirebbe a poco). Quanto al premier, “si è presentato ieri sera al cancello della sua villa a mezzogiorno e mezzo” e quello di far calare la sera alle 12.30 è un prodigio che riesce solo a Lui. Del resto aveva un “sorriso benedicente sul volto e la mano sinistra levata per salutare la scorta”, tipo Papa, “adagiato sul sedile del passeggero di un’utilitaria Fiat”. Un altro sarebbe stato seduto, Lui è “adagiato”. Abbigliamento: “Il due bottoni austero degli impegni istituzionali è rimasto nell’armadio a Roma, rimpiazzato da una t-shirt blu cobalto. Divisa più appropriata per un giro in paese” prima di mettersi “presumibilmente a tavola con in familiari”, sennò violerebbe il suo decreto.

In paese non si parla d’altro: “Davanti a una tazzina fumante al Caffè degli artisti raccontano” che mangerà “torta al formaggio”. E non sarà l’unico fenomeno paranormale: “I segnali della presenza del ‘professore’, come lo chiamano all’ombra del campanile del duomo dei santi Gervasio e Protasio, si erano iniziati ad avvertire già nei giorni scorsi, con un intensificarsi dei movimenti attorno alla proprietà”: pieno così di gente col ballo di San Vito che non stava ferma un attimo. Un vicino di casa: “Nel pomeriggio le imposte erano aperte e la sera, a differenza delle scorse settimane, era tutto illuminato a giorno”, anche perché lì fa buio già alle 12.30. Un commerciante “sussurra” ma “chiede di non comparire”, temendo l’arresto per spionaggio: “La signora Serenella è passata a fare la spesa al Conad”. Roba forte, compromettente. Talvolta il “divo quasi normale in maglietta blu cobalto”, che poi sarebbe Draghi, va in farmacia. E lì è tutta gente sveglia, che si “scambia un’occhiata” interrogativa: “Ma era lui?”. Pare infatti che il divo quasi normale indossi regolarmente un passamontagna (sempre blu cobalto, ton sur ton). Poi gli astuti farmacisti scrutano “la firma sullo scontrino della carta di credito, la stessa dell’allora presidente della Bce impressa su una qualsiasi banconota da 10 euro” e lo riconoscono: è lui, “non c’è dubbio”. Non Ugo: Mario.

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