lunedì 4 novembre 2024

Noi e i migranti, futuri intrecciati. - Guido Viale

 

La “questione dei migranti” (e profughi) è attraversata da un duplice paradosso: da un lato è ovunque al centro di uno scontro politico tra una destra “sovranista”, nazionalista e per lo più razzista – almeno ai vertici – che innalza la bandiera della “difesa dei confini”, cioè i respingimenti: con qualsiasi mezzo; di contro, la fu-sinistra non ha una proposta alternativa e si limita, nel migliore dei casi, al sostegno delle iniziative umanitarie di salvataggio, assistenza e accoglienza promosse dal basso, ma poi insegue le politiche di respingimento degli avversari per non farsi portar via gli elettori stregati dalle sirene dell’”integrità della nazione”. Tuttavia, pur essendo assurta a un ruolo centrale sulla scena politica in tutto il mondo, la questione dei migranti e dei profughi non supera mai i confini delle singole nazioni, non entra mai nel merito delle cause di fondo di questa crescita esponenziale di “popoli in movimento”: le guerre, la miseria e il degrado ambientale che colpiscono i Paesi di origine. Persino l’abusato “aiutiamoli a casa loro” è passato di moda, affogato nel ridicolo.

Dall’altro lato, è paradossale come la dimensione planetaria del fenomeno migratorio, soprattutto se visto in prospettiva, venga taciuta, perché non si sa come affrontarla, esattamente come la dimensione della crisi climatica, che ne è in gran parte all’origine. E non solo per le guerre, che a moltiplicare profughi e migrazioni e a guastare il clima provvedono in misura crescente. Ma chi ha provato a confrontarsi con il futuro delle migrazioni (per esempio Gaia Vince, Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023, e Pareg Khanna, Il movimento del mondo, Fazi, 2021) prevede che entro la fine del secolo metà delle terre emerse, soprattutto nell’emisfero meridionale, sarà inabitabile a causa della crisi climatica e che miliardi di esseri umani saranno stati costretti a cercare di trasferirsi nei Paesi dell’emisfero settentrionale, resi più fertili e più abitabili dal riscaldamento globale. Ma ecco il paradosso: si pensa forse di far fronte a un processo di queste dimensioni con le limitazioni del diritto di asilo, i muri e le cortine di filo spinato, la caccia ai barconi dei migranti, gli hotspot nei Paesi di transito, come se fosse un fenomeno temporaneo, destinato a esaurirsi, per estinzione o per repressione, nel giro di qualche anno? O non è, il percorso intrapreso da quasi tutti i governi del mondo in questo campo, solo l’inizio di un processo di militarizzazione destinato a fare incontrare la guerra ai “migranti” e alle enclave etniche interne a ogni Paese con le guerre vere e proprie che si svolgono ai confini e che si stanno moltiplicando su tutto il pianeta?

Guerre affidate sempre più a strumenti dual use, dove le tecnologie di sorveglianza preparano lo sterminio affidato alle armi, ma anche alla fame, ai contagi, alle devastazioni, alla disperazione. Ma assistiamo anche all’incontro tra uno stato di belligeranza permanente “in difesa dei confini” e una deriva autoritaria, fascista e oligarchica all’interno degli Stati coinvolti; deriva indispensabile per mantenere una condizione di mobilitazione permanente. L’Ucraina prima e dopo l’invasione russa e Israele, da sempre, sono esempi e antesignani di questi “incontri”. E’ questo che vogliamo?

Esiste un’alternativa a questa deriva? Non nei programmi e meno che mai nelle “visioni” (se ci sono) di chi pretende di opporvisi ma non fa che inseguirla. Per sviluppare una vera alternativa occorre guardare in faccia alla realtà (tell the truth, riprendendo la prima delle tre raccomandazioni di Extinction Rebellion); poi rivolgersi alle migliaia di iniziative di solidarietà, assistenza, accoglienza e salvataggio già in atto (act now) – iniziative esemplari ma di scarsa efficacia nel definire una politica –  per cercare in esse, attraverso un confronto continuo (call assemblies) il filo conduttore di una prospettiva di salvezza per tutti. Cominciando da alcune premesse ineludibili e solo apparentemente banali, ma oggi del tutto eluse.

Quella dei migranti non è una questione temporanea o marginale rispetto ai conflitti sociali in atto, ma  insieme alla crisi climatica e ambientale, che ne è e ne sarà sempre più all’origine – deve essere trattata come questione centrale e prioritaria per tutti coloro che aspirano a un mondo e a una vita diverse.

Affrontarla con consapevolezza prospettica mano a mano che si manifesta può permettere di non subirne l’impatto quando le misure oggi adottate non saranno più in grado di arginare il processo.

Ad essa vanno riservate risorse adeguate alla dimensione che il fenomeno è destinato ad assumere, modificando di conseguenza gli apparati istituzionali e le politiche sociali oggi del tutto incapaci di far fronte al processo in atto.

Il livello locale, con la creazione di insediamenti misti vivibili per tutti e la promozione di incontri e relazioni personali dirette è essenziale per rendere plausibile l’accettazione di un cambiamento radicale degli assetti sociali e istituzionali imposti dalla presenza di un numero crescente di “nuovi cittadini” non autoctoni.

La possibilità di coinvolgere i nuovi arrivati negli interventi di soccorso, risanamento e prevenzione nei territori colpiti da disastri ambientali – dalle alluvioni alla siccità, dagli incendi ai contagi, dall’inquinamento allo spopolamento, tutti gli eventi destinati a moltiplicarsi mano a mano che la crisi climatica e ambientale proseguirà il suo corso – è forse l’unica occasione per promuovere una svolta del genere.

Per promuovere l’inclusione sociale dei nuovi arrivati quegli interventi saltuari ed estemporanei dovranno essere presi a modello per l’elaborazione di grandi piani generali di risanamento territoriale e sociale con cui offrire nuove possibilità di inserimento tanto ai disoccupati e ai lavoratori autoctoni espulsi dai processi produttivi che ai nuovi arrivati, su un piede di parità.

La presenza, in ogni territorio di immigrazione, di un numero crescente di “nuovi cittadini” e di comunità organizzate che li aggreghino per lingua, nazionalità, fedi, culture, rappresenta un’occasione straordinaria per promuovere dal basso relazioni dirette tra le regioni di accoglienza e quel che resterà in loco delle comunità di origine dei nuovi arrivati. Relazioni che possono facilitare l’inserimento di chi ancora non è partito ma sta per arrivare; ma anche contribuire a contrastare, con un presidio in loco, l’abbandono definitivo di territori che ancora possono essere risanati e rimanere abitabili.

Trasformare queste premesse in prassi è cosa che non si può fare se non confrontandosi con i contesti specifici.

Articolo pubblicato su Pressenza
Guido Viale29 Ott 2024

https://www.libertaegiustizia.it/2024/11/02/noi-e-i-migranti-futuri-intrecciati/

domenica 3 novembre 2024

Meymand, villaggio di 13mila anni patrimonio Unesco. Iran - di Davood Abbasi

 

Meymand, villaggio troglodita della regione del Kerman, nel sud-est dell’Iran, proclamato patrimonio dell’Unesco, in cui la presenza umana risale a 13mila anni fa.

Meymand culla della civiltà ariana

Qui nella provincia di Kerman, 13mila anni fa gli uomini iniziarono a vivere sulle montagne di Payè; nel 6000 a.C., alcuni dei primi gruppi di ariani che si trasferirono in Iran dall’Asia centrale, si stanziarono qui e scavarono nella roccia le loro caverne e secondo la leggenda, quando si stancavano, si facevan forza bevendo vino (Mey in persiano) e da qui il nome del villaggio, “Meymand”. Il villaggio, 3.600 anni fa, diventa un santuario zoroastriano, anche perchè le zone elevate (Meymand è a 2240 metri di altezza), erano scelte dagli zoroastriani per realizzarci i templi del fuoco. Gli zoroastriani tenevano e tengono tutt’ora nei loro templi del fuoco, un braciere acceso che viene tenuto vivo perennemente.

A Meymand scopriamo la radice antropologica di questo rito religioso. Il tempio del fuoco, dove il Mogh (il sacerdote zoroastriano, da questo nome proviene la parola mago), teneva sempre il fuoco acceso, era sinonimo di sopravvivenza per il villaggio. Nella stagione fredda, se si spegneva il fuoco in una caverna abitata, i proprietari potevano andare a prenderne un po’, persino a mani nude, dal fuoco centrale del villaggio tenuto sempre acceso. Si prendeva un po’ di cenere in mano e poi sopra si metteva un po’ di fuoco vivo e si correva nella propria caverna per non bruciarsi. Ancora oggi, il modo di dire, è rimasto nella lingua persiana; se un amico viene alla porta di casa ma non accetta di entrare, gli dici: “Perchè hai fretta? Sei venuto a portare il fuoco?”.

Il piacere di essere “cavernicoli”

Le caverne scavate nella roccia sono di due tipi; quelle fresche, utilizzate in estate, ma poi soprattutto quelle invernali, che rimangono calde. A Meymand si visita l’antico tempio del fuoco, l’edificio più antico esistente, del periodo pre-islamico. Poi vi è il fantastico hammam, dove si accendeva un fuoco sotto l’acqua del fiume, e dove si usava per l’illuminazione un lucernario con delle pietre particolari, che immagazzinano la luce di giorno e che si illuminano di notte. L’hammam veniva usato di mattina dalle donne e di notte dagli uomini. La grotta più moderna del villaggio è la moschea, scavata 200 anni fa, con un Mihrab rustico ed un tappetino particolare, messo accanto ad esso, con l’immagine di Khomeini. Nelle caverne non entrano serpenti e scorpioni poichè la cenere sparsa sulle pareti ed il tetto, allontana insetti ed animali in maniera naturale.

Nelle caverne, ancora oggi, c’è lo spazio per accendere il fuoco. Turisti, soprattutto stranieri, raggiungono il minuscolo villaggio di 12 chilometri quadrati per trascorrere una notte. Gli abitanti del posto sono tradizionalmente vegetariani, ed oggi vivono soprattutto grazie all’apicultura, la vendita di erbe medicinali e di melograni, mele, mele cotogne e fichi, che crescono divinamente ed ovunque a Meymand.

https://ilfarosulmondo.it/meymand-villaggio-13mila-anni-patrimonio-unesco/

venerdì 1 novembre 2024

Come un asteroide che colpì la Terra 3 miliardi di anni fa aiutò la nascita della vita. - Roberto Demaio

 

Provocò un gigantesco tsunami, fece ribollire gli oceani e ricoprì il cielo per anni con un fitto strato di polveri, ma allo stesso tempo pose le basi per la formazione della vita sulla Terra: è l’apocalittico scenario che caratterizzò il nostro pianeta oltre 3 miliardi di anni fa, quando un enorme asteroide, 200 volte più grande di quello che causò l’estinzione dei dinosauri, colpì la Terra. A scoprirlo è stato un team di ricercatori guidato da Nadja Drabon, che ha pubblicato i risultati in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). L’impatto, denominato S2, avrebbe arricchito l’ambiente di elementi chiave per i batteri, favorendo la comparsa della vita sul pianeta. «Pensiamo che gli eventi di impatto siano disastrosi per la vita. Ma ciò che questo studio sta evidenziando è che questi impatti avrebbero avuto benefici per la vita, specialmente all’inizio, e potrebbero aver effettivamente permesso alla vita di prosperare», ha commentato la ricercatrice Nadja Drabon.

Gli studi degli scienziati si sono concentrati sulla Terra primordiale, periodo caratterizzato da una frequenza elevata di impatti meteoritici e da forme di vita limitate a batteri e archea, un gruppo di microrganismi unicellulari noti per la loro capacità di vivere in condizioni estreme, come sorgenti termali, bocche idrotermali oceaniche e saline. Attraverso la raccolta e l’esame di campioni di roccia prelevati dalla Barberton Greenstone Belt in Sudafrica, sono state trovate prove di almeno otto eventi di impatto, tra cui quello causato dall’asteroide S2. Si tratta di un corpo fino a 200 volte più grande di quello che, 60 milioni di anni fa, sterminò i dinosauri e che, con i suoi 50 chilometri di diametro, avrebbe causato uno tsunami tale da trasportare enormi quantità di ferro dalle profondità oceaniche agli strati più superficiali. «Immagina di essere in piedi al largo della costa di Cape Cod, in una piattaforma di acque poco profonde. È un ambiente a bassa energia, senza forti correnti. Poi, all’improvviso, hai uno tsunami gigante che ti travolge e squarcia il fondale marino», ha spiegato Drabon.

Ciò, combinato al fosforo che sarebbe arrivato dalla roccia spaziale, avrebbe creato una composizione chimica che stimolò la crescita di batteri specializzati, contribuendo all’evoluzione di nuovi organismi. «L’analisi di Drabon mostra che i batteri che metabolizzano il ferro sarebbero quindi proliferati subito dopo l’impatto. Questo spostamento verso batteri che favoriscono il ferro, per quanto di breve durata, è un tassello fondamentale del puzzle che descrive la vita primitiva sulla Terra. Secondo lo studio di Drabon, gli eventi di impatto dei meteoriti, sebbene si dica che uccidano tutto ciò che incontrano sulla loro scia, hanno avuto un risvolto positivo per la vita», concludono i ricercatori.

https://www.lindipendente.online/2024/10/31/come-un-asteroide-che-colpi-la-terra-3-miliardi-di-anni-fa-aiuto-la-nascita-della-vita/?fbclid=IwY2xjawGRhP1leHRuA2FlbQIxMQABHWLwJ9DPHaA_MQTm7tJ_c2YLxTj6JWcGalZaPnEUwjCfLvuONpZxXoSZ6w_aem_FcHb_oer6R9D3x4fDUtZ8Q

Nan Madol. - UNA CITTA’ DELL’ERA GLACIALE? - Minerva Elidi Wolf

 

È possibile che una civiltà scomparsa abbia costruito una città durante l’era glaciale, prima del disgelo? Questa è la sorprendente conclusione a cui si arriva analizzando le rovine della ‘Venezia del Pacifico’, la città semi-sommersa di Nan Madol. Come mai si arriva a questa conclusione?
Diciamo subito che Nan Madol, come Venezia, è costruita su di un centinaio di isolotti. La città si trova nell’Oceano Pacifico, a più di 1.000 km dalla costa più vicina, annessa all’isola di Temwen. Le prime indagini effettuate sembravano dirci che i costruttori di questa città furono i Saudeleurs, circa 800 anni fa. Ma successive indagini hanno rivelato che le cose stanno diversamente. Da cosa possiamo capirlo?
Nei nostri giorni dall’acqua emergono solo alcune rovine, visto che il mare ha quasi completamene ricoperto la città. Le mura di Nan Madol iniziano a sollevarsi da sotto il livello del mare. Alcuni dei blocchi utilizzati pesano fino a 40 tonnellate. È impossibile costruire le mura da sotto il mare. Pertanto, la città di Nan Madol, quando venne costruita, doveva essere situata in una posizione più alta del livello del mare. Come mai adesso si trova in parte sotto il livello del mare? È forse sprofondata? No! Secondo i geologi, gli isolotti su cui si trova Nan Madol non sono mai sprofondati sotto il mare a causa di fenomeni geologici come il bradisismo.
Se gli isolotti su cui si trova la città non sono sprofondati sotto il livello del mare, questo vuol dire che è stato il mare ad alzare il suo livello, inondando la città. Nan Madol, come abbiamo detto, si trova nel mezzo dell'Oceano Pacifico. Quando è accaduto l’ultima volta che l’Oceano Pacifico si è innalzato? L'ultima volta che l'Oceano Pacifico si è alzato in modo apprezzabile (oltre 100 metri) è stato dopo l'ultimo disgelo, 14.000 anni fa, quando i ghiacci che ricoprivano la maggior parte del Nord Europa e del Nord America si sono sciolti. Lo scioglimento di ghiacci grandi come interi continenti ha fornito agli oceani, compreso l’Oceano Pacifico, la massa d'acqua necessaria per sollevarsi.
Per essere parzialmente sommersa dall’Oceano Pacifico, quindi, la città di Nan Madol doveva già essere stata costruita in quel tempo. Ma affermare questo equivarrebbe a dire che Nan Madol è più vecchia di circa 14.000 anni. Vorrebbe dire che è la prima città ad essere mai stata costruita. Per molti questo è semplicemente inaccettabile, ed è per questo che su Wikipedia si legge che Nan Madol fu costruita nel II secolo d.C. dai Saudeleurs. Ma questa è solo la data dei più antichi resti umani trovati sull'isola, non della sua costruzione.
Come hanno fatto i costruttori a trasportare le oltre 100.000 tonnellate di roccia vulcanica "attraverso il mare" per costruire i circa 100 isolotti su cui sorge Nan Madol? In effetti, Nan Madol non è costruita sulla terraferma, ma nel mare, come Venezia. Tutta la roccia di cui è fatta Nan Madol è "roccia magnetica". Se si avvicina una bussola alla roccia, questa impazzisce. Il magnetismo della roccia ha qualcosa a che fare con i metodi di trasporto utilizzati per Nan Madol?

Meraviglie Cosmiche: Hubble Cattura una Galassia che Sfreccia nello Spazio. - By Prateek Levi

Come sappiamo, lo spazio esterno è pieno di spettacoli visivi straordinari, e in un recente sviluppo, il telescopio Hubble ha catturato un'immagine di una galassia a spirale che sfreccia come se fosse stata sparata da un cannone cosmico.

La Galassia in Primo Piano
La galassia in questione si trova a 100 milioni di anni luce dalla Terra ed è parte del Cluster della Vergine, che è un gruppo più grande di galassie. L’immagine catturata mostra la galassia come se avesse una coda di gas a forma di cometa che scorre dal suo centro mentre sfreccia tra i suoi vicini galattici.

Prospettive Affascinanti
“Le scene che le galassie sembrano presentare dal punto di vista della Terra sono affascinanti; molte sembrano pendere tranquillamente nel vuoto dello spazio come se fossero appese a un filo, mentre altre recitano in situazioni molto più dinamiche!” hanno dichiarato i funzionari della NASA in una dichiarazione rilasciando la nuova immagine. “Le apparenze possono ingannare con oggetti così lontani dalla Terra.”

IC 3225: Un Membro del Cluster della Vergine
La galassia IC 3225 sembra un piacere visivo, ma è solo uno degli altri 1.300 membri del Cluster della Vergine, alcuni dei quali sono visibili nell’immagine catturata. Mentre IC 3225 viaggia nello spazio, incontra resistenza da gas e polvere nel mezzo intracluster, risultando in quello che è noto come pressione di urto.

Impatto sulla Formazione di Stelle
Man mano che il gas viene strappato dalla galassia, le sue dinamiche di pressione cambiano, il che può inibire o migliorare la formazione di stelle, conferendole un aspetto deformato. Nel caso di IC 3225, un prominente braccio denso è visibile nell’angolo in basso a sinistra, pieno di giovani e calde stelle blu. Qui, la pressione ha compresso la galassia, portando a un aumento nella formazione di stelle.

La Coda Allungata di IC 3225
In netto contrasto, la parte superiore destra della galassia mostra una coda allungata. Questa area appare più allungata poiché il gas e la polvere formatori di stelle sono stati strappati, risultando in popolazioni stellari più piccole.

Osservazioni dalla NASA
I funzionari della NASA hanno notato: “IC 3225 non è così vicina al nucleo del cluster in questo momento, ma gli astronomi hanno dedotto che ha subito strappi da pressione in passato.” Hanno spiegato ulteriormente: “Essendo in un campo così affollato, un incontro ravvicinato con un’altra galassia potrebbe anche aver tirato IC 3225 e creato questa forma.”

Questa straordinaria distorsione serve come un potente promemoria delle immense forze in gioco su scale astronomiche, capaci di muovere e rimodellare intere galassie.

In sintesi, le caratteristiche sorprendenti di IC 3225 evidenziano le interazioni complesse tra le galassie, rivelando i processi dinamici che plasmano l’universo.

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