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martedì 14 febbraio 2023

DAL 2014 LA CARICA PIÙ ALTA IN MAGISTRATURA LA SCEGLIE MATTEO RENZI. - Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)

 

L'avvocato di Alberto Bianchi "caso Open", Fabio Pinelli, è stato eletto vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo Legnini ed Ermini un altro uomo legato al "Giglio Magico" va a garantire i "Poteri" di fronte alla legge.


Nemmeno il diavolo in persona sarebbe capace di tale sfrontatezza!

Dopo che Matteo Renzi in persona, ha dichiarato sul suo libro e più volte in TV che è stato l’artefice delle nomine degli ultimi due vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) [1][2], utilizzando il metodo Palamara, il nostro Presidente della Repubblica, capo del CSM stesso e custode della nostra Costituzione, accetta impassibile e probabilmente di buon grado, che anche questa nomina del suo vice a Palazzo dei Marescialli, sia dettata dagli stessi poteri che hanno mostrato agli italiani di essere capaci di ridurre la magistratura ad un degrado tale, da far perdere al nostro paese la qualifica di stato di diritto.

“Al vicepresidente appena eletto i miei auguri. Sono certo che saprà affrontare con senso istituzionale e con spirito collaborativo le funzioni rilevanti a cui è chiamato. Sono certo che il consiglio con la sua conduzione, affronterà con obiettività e concretezza anche le questioni più complesse che di volta in volta gli saranno sottoposte”. Così si è espresso il presidente della Repubblica. “Desidero ricordare anche qui il ruolo di questo Consiglio, organo di garanzia che la Costituzione colloca a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. A lei, signor vicepresidente, spetta il compito di favorire la coesione dell’attività del Consiglio. L’adozione di delibere condivise, ne rende più efficace ed autorevole il percorso”, ha detto. [3]

All’ennesimo colpo di mano ha partecipato tutto il centro destra con a capo la Lega ed in prima persona Matteo Salvini, ormai adepto del “Giglio” a tutti gli effetti che ha fatto asse con Matteo Renzi, a conferma che la trasversalità è decisamente caratteristica cromosomica della genetica del nostro “deep state”.

Non saremmo qua a scandalizzarci e vomitare tutto il nostro disprezzo, se non che il nuovo vice di Mattarella al CSM, per pura casualità, non avesse difeso il guro della Lega Morisi e per giunta fosse colui che ha assistito Alberto Bianchi nel caso Open. E sempre casualmente, sempre rispetto al caso Open, essere stato scelto come legale in sostegno del Senato nel conflitto di attribuzioni con la procura di Firenze.

“Cerchiamo di essere credibili e trasparenti, mai obliqui, nell’interesse del Paese”, ha esordito Fabio Pinelli, prendendo la parola al Plenum. “Orienterò ogni mio comportamento nell’interesse del Paese”, ha continuato. “Avrò come riferimento la guida ed il faro del presidente della Repubblica”. Poi ha spiegato: “Il comportamento del Csm sia orientato sempre a scelte condivise”. Scusandosi per non aver preparato un discorso “sarebbe stato irrispettoso nei confronti di chi non mi ha votato” ha ammesso che dovrà svolgere un “incarico gravosissimo”, dicendosi “emozionato ed onorato”. La conclusione ha richiamato una citazione di Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia e proclamato beato. “Diceva che quando si muore nessuno chiederà se si è stati credenti, ma credibili”[3-ibidem]

Concetti forti quanto di circostanza, vedremo come il vice presidente Pinelli riuscirà a non prostrarsi all’obliquità che gli verrà richiesta di fronte ai molti fascicoli giudiziari che sono a carico dei “fratelli” che si sono fatti in quattro per metterlo su quella poltrona.

Infatti, a turbare i sonni di Pinelli, ci sono le urgenti le nomine dei procuratori capo di alcuni distretti chiave. A Napoli il derby è tra il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e quello di Catanzaro Nicola Gratteri, rimasto a bocca asciutta già tre volte (correva per Dap, Milano e Antimafia). Impossibile non accontentarlo. A Firenze dove era dato per certo l’approdo del ferreo magistrato calabrese, oggi procuratore di Livorno Ettore Squillace Greco, qualcosa ci dice che dopo il “blitz” dei due “Matteo” (Renzi e Salvini), ci saranno delle sorprese.

Non dimentichiamoci che sul capoluogo toscano, orfano del procuratore generale dopo la partenza di Marcello Viola per Milano e dell’Avvocato generale, pesano tre procedimenti tosti: quello su Matteo Renzi e la Fondazione Open, gli strascichi delle indagini sulla Trattativa Stato-mafia e le stragi del ’92-93, la bomba inesplosa sui trojan di Luca Palamara.

Soprattutto per quanto riguarda il secondo fascicolo, oggi con il polverone sollevato dal fiancheggiatore dei fratelli Graviano, il gelataio palermitano Salvatore Baiardo [4][5], in merito alla sua puntale e precisa premonizione sull’arresto del boss latitante Matteo Messina Denaro, collegata ad una nuova presunta trattativa fra pezzi deviati dello Stato e la Mafia, urge per i poteri profondi, una gestione più che perfetta per non far sì che questa seconda Repubblica si disintegri insieme a tutti i suoi più che spregevoli attori.

Da Firenze a Siena il passo è breve e gli affiliati alle logge da salvaguardare tanti. Il fatto che sia ancora reggente del posto di procuratore capo quel Nicola Marini, da 40 anni nella Rocca, invischiato nei pasticci del caso David Rossi (su cui indaga la Procura di Genova) e recentemente sfiorato da altre due indagini con molti buchi neri, lascia noi gente seria senza parole ed una bella palla di piombo al piede di Pinelli da gestire con precisione per non deludere chi con spirito di appartenenza lo ha appena nominato contando sui suoi servigi.

Questo nomina è l’ennesima dimostrazione che nel nostro paese il livello di corruzione politico istituzionale sta veramente andando oltre agli “standard” di alcuni paesi sudamericani. Ditemi voi se i 30 anni di latitanza dorata di Matteo Messina Denaro spesi a casa sua, non superano la presa in giro della detenzione di Pablo Escobar nella famosa Catedral, una prigione a cinque stelle auto-costruita, dove il narco trafficante di Medellin si godeva tutto il suo lusso più sfrenato.

Quello che è strano, il livello di assuefazione della massa è tale, che pare non scandalizzarsi più nessuno.

[1] Renzi ed Ermini “fratelli” coltelli: è l’inizio del terremoto politico italiano? – Megas Alexandros

[2] PALAMARA E RENZI ALLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA, BUSCETTA ALL’ANTIMAFIA E JACK LO SQUARTATORE ALLA SANITÀ … – Megas Alexandros

venerdì 14 gennaio 2022

I Ferri del mestiere. - Marco Travaglio

 

“Noi i nostri li cacciamo, i partiti i loro li coprono”. Ogni volta che Davigo ricorda l’impunità di gregge della politica, opposta al maggior rigore dei magistrati, le vergini violate del garantismo all’italiana insorgono come un sol uomo. Salvo poi fare di tutto per dargli ragione. Era accaduto un mese fa col doppio salvataggio di Renzi (Open) e Giggino ’a Purpetta (camorra) nella giunta del Senato. È riaccaduto giovedì alla Camera col salvataggio quasi unanime di Cosimo Ferri (contrari solo i 5Stelle e gli ex). Ferri è un magistrato in aspettativa, già leader di Magistratura Indipendente e presidente dell’Anm, prestato alla politica (che per fortuna non l’ha più restituito): sottosegretario tecnico alla Giustizia in quota FI nel governo Letta jr. e in quota Alfano-Verdini nei governi Renzi e Gentiloni, deputato Pd dal 2018 e poi Iv, è un presenzialista degli scandali: il suo nome saltò fuori, senza conseguenze penali per lui, in Calciopoli, nella P3 e nei traffici di B. con l’Agcom per cacciare Santoro. Poi fu beccato a far campagna elettorale, da via Arenula, per due amici alle elezioni del Csm. Si scoprì che nel 2013 aveva accompagnato il giudice Amedeo Franco a casa di B. per rinnegare la condanna definitiva, peraltro firmata anche da lui e in veste di relatore. Nel 2019 i pm di Perugia che indagavano su Luca Palamara per corruzione lo sorpresero all’hotel Champagne di Roma col magistrato inquisito, con Luca Lotti e con 5 membri del Csm, in una cena per decidere i nuovi procuratori di Roma (dov’era imputato Lotti) e Firenze (dove l’Innominabile aveva già mezza famiglia nei guai).

Sapete che fine han fatto i commensali del Champagne? Palamara è stato radiato dalla magistratura e i 5 consiglieri del Csm han dovuto dimettersi. Invece Lotti resta deputato del Pd (“autosospeso”, qualunque cosa significhi, dal 2019) e Ferri di Iv. Siccome Ferri resta magistrato, il Csm ha aperto un procedimento disciplinare in base alle intercettazioni indirette della famosa cena (il bersaglio del trojan era Palamara). Ma siccome è pure un politico, la casta gli ha eretto un impenetrabile muro protettivo: tutti i partiti di destra, centro e sinistra (eccetto il M5S) hanno negato al Csm l’autorizzazione a usare le captazioni in base alla privacy (come se si parlasse di malattie, e non di Procure) e – udite udite – al fumus persecutionis. Invano il grillino Saitta ha provato a far notare ai colleghi che è difficile perseguitare Ferri indagando Palamara: per non farsi perseguitare, bastava non andare a quella cena o fuggirne non appena fu chiaro che si stavano pilotando nomine di procuratori in barba alla separazione dei poteri. Ma è stato tutto inutile. La casta non si processa. Anzi la cosca.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/14/i-ferri-del-mestiere/6455387/

lunedì 6 settembre 2021

“Dopo Mani Pulite, siamo alle mani libere per i potenti”. - Vincenzo Bisbiglia

 

Una “stagione delle mani libere” è alle porte. Un “assalto finale del sistema” politico alla giustizia: “Tutte le riforme di quest’ultimo periodo sono state di palazzo, derivanti dall’esigenza di abbattere il rischio per le classi dirigenti”. Il procuratore generale uscente di Palermo, Roberto Scarpinato, l’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo e il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, alla Festa del Fatto Quotidiano hanno attaccato duramente il tentativo del governo di Mario Draghi di mettere mano alla giustizia. Intervistati da Valeria Pacelli nel corso del dibattito “La giustizia al tempo dei migliori”, non sono mancate critiche anche ai sei referendum proposti da Lega e Partito Radicale.

Sulla riforma voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, Scarpinato ha parlato di “una forma di amnistia strisciante e permanente”, spiegando che “ogni anno il Parlamento, i cui componenti ridotti nel numero sono tutt’oggi nominati dall’establishment, deve stabilire la priorità nei processi, quali si devono celebrare e quali no”. Un “assalto finale da parte della politica”, appunto, iniziato con la Seconda Repubblica, quando “tutta la classe dirigente ha dovuto mettere in moto due distinte manovre”. “La prima – ha detto Scarpinato – è stata la depenalizzazione selettiva dei reati della classe dirigente. Sono state abbassate le pene e ridotti i termini della prescrizione”. “La seconda”, ha aggiunto, “è il tentativo continuo di sottoporre i pubblici ministeri al controllo politico”. Il magistrato ha portato ad esempio i disegni di legge proposti da Luciano Violante che nel 2008 “per far iniziare le indagini alla polizia e non ai pm”, e di Andrea Orlando, nel 2017, per l’utilizzabilità delle intercettazioni. Ora la riforma Cartabia, “l’assalto finale del sistema”, appunto. “Se è vera – ha detto – la stima dell’Unione europea secondo cui la corruzione in Italia vale 60 miliardi l’anno, vuol dire che il 30-40% se li prenderanno i soliti noti”.

Non c’è solo la riforma del governo Draghi a tenere banco. A breve al vaglio della Corte Costituzionale arriveranno anche i referendum sulla giustizia sottoscritti anche da Italia Viva. Secondo Davigo, “le intenzioni sono le peggiori”. “Questi pensano che i cittadini siano dei cretini – ha affermato l’ex magistrato di Mani Pulite – La Lega per anni ha fatto una campagna sulla sicurezza” e “ora prende in giro i suoi elettori”. Se andasse in porto il referendum sui limiti alla custodia cautelare, ad esempio, “se uno viene a casa tua e la svaligia, il ladro lo possono arrestare ma poi lo devono rilasciare, perché non può restare in carcere”. Non solo. “La responsabilità diretta dei magistrati non c’è in nessun paese al mondo. Chi sbaglia paga è uno slogan cretino”. Se passasse questo concetto, “potrebbero iniziare a crearsi rapporti non chiari con gli avvocati e vi sarebbero cause pretestuose, in via preventiva, per togliersi di mezzo un giudice scomodo”. Gli fa eco Scarpinato. “Ripropongono ciclicamente anche la separazione delle carriere, per portare i magistrati sotto il controllo dell’esecutivo”. Insomma: “La questione giustizia in questo Paese è irredimibile a causa del gioco politico. È la stagione delle mani libere”.

Negli ultimi due anni la magistratura ha dovuto affrontare anche la crisi culminata con l’indagine per corruzione ai danni dell’ex magistrato romano Luca Palamara, già membro del Csm, che secondo quanto emerso sarebbe stato primo attore di una “guerra tra correnti” che ha condizionato le nomine nelle principale procure italiane. “Palamara non votava da solo – ha affermato Nicola Gratteri – e non poteva da solo condizionare tutte le nomine che si sono avute”. Il magistrato calabrese avanza una proposta: “Penso che si debba agire a monte, modificando il Consiglio superiore della magistratura e introducendo il sistema del sorteggio”, anche a costo “di cambiare la Costituzione, se necessario”. “È la madre di tutte le riforme”, ha concluso.

ILFQ

domenica 30 maggio 2021

La strage del Mottarone: Tadini a domiciliari, liberi gli altri due.

 

Il caposervizio della funivia conferma le sue ammissioni interrogato dal gip.


Il gip di Verbania ha disposto gli arresti domiciliari per il caposervizio della funivia del Mottarone, Gabriele Tadini, e ha scarcerato Luigi Nerini, il gestore dell'impianto, e Enrico Perocchio, direttore di esercizio

"Palese è al momento della richiesta di convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare la totale mancanza di indizi a carico di Nerini e Perocchio che non siano mere, anche suggestive supposizioni", ha scritto il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici nell'ordinanza con cui ieri ha rimesso in libertà il gestore della funivia del Mottarone e il direttore di esercizio e ha mandato ai domiciliari Tadini. Il gip parla di "scarno quadro indiziario" ancora "più indebolito" con gli interrogatori di ieri.

Gabriele Tadini sapeva bene che "il suo gesto scellerato aveva provocato la morte di 14 persone" e per questo avrebbe condiviso "questo immane peso, anche economico" con le "uniche due persone che avrebbero avuto la possibilità di sostenere un risarcimento danni".

Per questo ha chiamato "in correità" i "soggetti forti del gruppo", per attenuare le sue "responsabilità", scrive il gip di Verbania.

E' stato Gabriele Tadini a "ordinare" di mettere "i ceppi" per bloccare i freni di emergenza della cabina e la loro installazione era "avvenuta già dall'inizio della stagione", il "26 aprile", quando l'impianto tornò in funzione dopo le restrizioni anti-Covid. Lo ha spiegato un dipendente della funivia sentito come teste nelle indagini dei pm di Verbania, spiegando che il tecnico ordinò di "far funzionare l'impianto con i ceppi inseriti", a causa delle anomalie al sistema frenante non risolte, "anche se non erano garantite le condizioni di sicurezza necessarie".

Interrogato per circa tre ore dal gip, Tadini ieri aveva ammesso di aver messo il ceppo blocca freno, e di averlo fatto altre volte. Difeso dall'avvocato Marcello Perillo, l'uomo ha spiegato che le anomalie manifestate dall'impianto non erano collegabili alla fune ed ha escluso collegamenti tra i problemi ai freni e quelli alla fune. "Non sono un delinquente. Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune si spezzasse".

"Non salirei mai su una funivia con ganasce, quella di usare i forchettoni è stata una scelta scellerata di Tadini", ha detto al gip Enrico Perocchio, secondo quanto riferito dal suo legale, avvocato Andrea Da Prato. Poi lasciando il carcere: "Sono contento di tornare dalla mia famiglia, ma sono disperato per le quattordici vittime". "L'errore è stato mettere i forchettoni per ovviare ad un problema che si sarebbe risolto - ha aggiunto -. Se avessi saputo che erano stati messi non avrei avvallato la scelta, in carcere stavo male per le persone mancate e per la mia famiglia".

Dalle dichiarazioni dei dipendenti della funivia del Mottarone, tutte riportate nell'atto, "appare evidente il contenuto fortemente accusatorio nei confronti del Tadini", il caposervizio dell'impianto, perché "tutti concordemente hanno dichiarato che la decisione di mantenere i ceppi era stata sua, mentre nessuno ha parlato del gestore o del direttore di servizio", ha scritto il gip di Verbania nell'ordinanza con cui ha disposto i domiciliari per Tadini e ha rimesso in libertà gli altri due fermati, spiegando che quelle dichiarazioni "smentiscono" la "chiamata in correità" fatta da Tadini.

Giornata di lutto in tutto il Piemonte per le vittime della funivia del Mottarone. Il decreto firmato dal presidente della Regione, Alberto Cirio, invita la popolazione ad osservare un minuto di silenzio alle ore 12 e gli enti pubblici piemontesi a unirsi nella manifestazione del cordoglio a una settimana dall'incidente. "Nulla può lenire il dolore, ma sentiamo il bisogno di ricordare in un modo solenne coloro che hanno perso la vita in questa follia. Il Piemonte non smetterà mai di stringersi alle loro famiglie e al piccolo Eitan", afferma il governatore Cirio. 

ANSA

mercoledì 19 maggio 2021

“Bullo, isolato, da arrestare” Stampa e tv linciano Davigo. - Lorenzo Giarelli e Fabio Sparagna

 

Solo, spregiudicato, nella bufera, da arrestare. Il ritratto che giornali e talk show dedicano a Piercamillo Davigo, il magistrato che ricevette i verbali farlocchi di Piero Amara sulla fantomatica Loggia Ungheria, descrive un pericoloso criminale vittima di se stesso. E poco importa che Davigo non sia neanche indagato: al centro dello scandalo sembra esserci lui e soltanto lui.

Su La7 Non è l’Arena, il programma di Massimo Giletti, picchia da settimane. Domenica scorsa il grande ospite era Sebastiano Ardita, considerato una della vittime di questa faccenda. Con cui Giletti si può sfogare: “Come fa un magistrato che la conosce bene a non vedere che sono inattendibili queste cose?”. Nulla però in confronto alla puntata precedente, quando a fare la morale a Davigo c’era nientemeno che Luca Palamara, già radiato dalla magistratura: “Le informazioni spesso sono utilizzate per colpire gli avversari e questa storia mi sembra si inserisca pienamente in questo crinale”. Lo stesso Palamara ieri sul Foglio ha paragonato il suo caso a quello di Davigo: “Con la differenza che io sono sotto processo”.

Anche a Quarta Repubblica, su Rete4, da tempo va in onda l’inquisizione. Ospite fisso è Piero Sansonetti: “Se quel dossier dice cose vere, è da colpo di Stato. Non lo sappiamo, ma quello che sappiamo è che c’è un membro del Csm che ha inguattato il dossier per un anno”. Poi c’è Carlo Nordio, ex pm di cui si ricorda – a proposito di dossier inguattati – la richiesta di archiviazione per Massimo D’Alema e Achille Occhetto chiusa in un cassetto a Venezia per quattro anni. Oggi Nordio sale in cattedra: “Davigo non ha seguito le procedure che avrebbe dovuto. Quando ho letto le sue risposte sono schizzato sulla sedia”. Con Bruno Vespa in studio, poi, l’occasione è ghiotta per infilarci dentro la condanna a Berlusconi e la giustizia politicizzata: “Ci sono troppe cose che non tornano in quella sentenza”.

Nello studio di DiMartedì ci pensa Alessandro Sallusti a infierire: “Davigo è vittima del suo stesso metodo. Qui ci sono dei comportamenti così ambigui e discutibili che se applicati alla politica o all’impresa sarebbero già partiti gli avvisi di garanzia e forse una carcerazione preventiva”. Anche perché “Davigo ha arrestato per molto meno”, lui che “ha teorizzato la cultura del sospetto”. Insomma “Davigo è indifendibile”, come chiosa Nicola Porro in una diretta Facebook, tanto che “l’unico che difende Davigo è Travaglio”, colui che per Paolo Guzzanti è il “Re Mida al contrario” che “perde uno dopo l’altro i suoi beniamini”.

Gli epiteti per parlare di Davigo, poi, non sono mai mancati, da “Piercavillo” al “Dottor sottile”, fino al “Pieranguillo” sfornato da Alfredo Robledo a Piazzapulita, ma per Carlo Bonini (Repubblica) l’ex pm diventa addirittura il “Cavaliere Nero”, nonché “interprete e custode di una cultura inquisitoria del processo penale” che ne hanno fatto “il campione di un giustizialismo declinato nella sua forma più ideologica”. Libero invece lo bolla come “Pierbirillo”, mentre il Riformista approfitta dell’entrata in scena di Nicola Morra per delineare il quadretto degli “Stanlio e Ollio delle manette”, novelli “Gianni e Pinotto” che vogliono piacere “con l’uso della forza”.

Ma non è solo questione di soprannomi. A tornare al centro del dibattito è l’intera stagione di cui il pm del pool di Mani Pulite fece parte, in quella che ha l’aria di essere una vendetta di chi non vedeva l’ora di un po’ di revisionismo.

È con malcelato sarcasmo che Il Foglio racconta come “stavolta nella bufera ci è finito proprio lui, Davigo, il grande moralizzatore della vita pubblica del Paese”, mentre Guzzanti su Il Riformista incalza ancora: “Dottor Davigo, ci aiuti lei che è come la divina provvidenza: ne sa niente lei?”. E ancora Sallusti, su quello che era il suo Giornale, ironizzava sul “puro Davigo” che “non può sfuggire alla regola che ‘se fai il puro, arriverà qualcuno più puro di te e ti epurerà’”.

Su La Verità Mario Giordano rivolge una lettera beffarda al pm: “Il suo integralismo giacobino ha sempre suscitato in me, insieme a un po’ di sgomento, un’insana attrazione”. Per il già citato Piero Sansonetti, Davigo è addirittura “un piccolo Conte in toga” che forse “non sta tanto bene”, “un bulletto qualunque”. Il Corriere della Sera ironizza sulla proverbiale incorruttibilità del magistrato: “Con quella faccia un po’ così, da Javert padano, quell’espressione un po’ così, da trangugiatore di Maalox, solo un pazzo avrebbe potuto immaginare di corromperlo”.

L’obiettivo delle invettive è via via più chiaro. Maurizio Belpietro su La Verità palesa i non detti: “Da Mani pulite siamo a Toghe rotte. Ci sono voluti 30 anni e tanti orrori giudiziari, ma i problemi irrisolti di quella stagione, con lo strapotere dei pm e il mini-potere della magistratura giudicante, ma soprattutto lo stato di subalternità della difesa, ora sono sotto gli occhi di tutti”. Libero non riesce proprio a trattenersi dal “guardare con mestizia definitiva” al passato: “Sul pool di Mani pulite, sipario”. E così Repubblica può evocare “la terribile nemesi dell’inquisitore nella Colonia penale di Franz Kafka, intrappolato nella macchina che lui stesso aveva realizzato per comminare le pene in modo esemplare e che invece finisce per stritolarlo”. E menomale che questi sono i garantisti.

IlFQ

sabato 17 aprile 2021

Nuovo assalto della politica all’indipendenza dei giudici. - Gian Carlo Caselli

 

“Quod non fecerunt barbari fecerunt barberini”: è quel che fa venire in mente il progetto di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura di vari deputati (FI, Lega, Iv e Az). C’è infatti un precedente che non ha funzionato ma che ora si ripropone sperando di farcela. Protagonista del precedente (2003) fu il parlamentare di FI Bondi: per verità un politico-poeta, nient’affatto un barbaro, per cui la “pasquinata” gli va stretta. Ma di fatto fu un precursore dei “barberini” di oggi. Bondi, mentre l’alleato leghista discettava sul “costo delle pallottole” per i magistrati, aveva pensato a una Commissione parlamentare “per accertare se ha operato e opera tuttora nel nostro paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura, con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane”. Occorreva “sistemare” i magistrati che davano fastidio, non rispettando certi “santuari” tradizionalmente impuniti. Di quel progetto non si fece nulla, ma chi non crede nella giustizia vi trovò una spinta formidabile. Può accadere anche oggi, tanto più che si tratta di colpire un corpo (sia pure con lodevoli eccezioni) culturalmente indebolito e tramortito da crisi non solo di efficienza, ma anche di credibilità. Crisi che da tempo erodono la fiducia nella magistratura, da ultimo con il pingue contributo del caso Palamara (motore di un Sistema di cui ora si proclama vittima) e della pandemia che non ha risparmiato il servizio giustizia.

Certo, non è più quella di Bondi la formula oggi usata. Vi si parla di correnti, attribuzioni di incarichi direttivi e funzioni del Csm, di fatto accusato di “far come gli struzzi” a fronte delle sconvolgenti rilevazioni del sullodato Palamara. Ma la sostanza rimane la stessa: indagare sul supposto uso politico della giustizia e sul lavoro delle toghe in generale, compreso il Csm nell’esercizio nelle sue funzioni istituzionali. Si può rigirarlo fin che si vuole, ma resta – come ai tempi di Bondi – un attacco all’indipendenza della magistratura. E se allora l’iniziativa era stata di un “semplice” parlamentare, portavoce di FI, oggi tra i primi promotori troviamo addirittura un esponente dell’esecutivo, la ministra, sempre di FI, Gelmini. Ma certe cose non si possono fare in uno Stato democratico fondato sul principio della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario): una conquista storica e politica della civiltà occidentale che garantisce l’indipendenza dei giudici. In Italia mai gradita dai poteri (pubblici e privati) restii al controllo di legalità, che in vari modi han sempre cercato di regolare i conti in sospeso, ricacciando i magistrati nel loro “tradizionale” angolo di sottomissione. La voglia di indagini parlamentari sulla magistratura per un verso o per l’altro tende sempre a questo scopo, tipico di chi si sgola per chiedere più giustizia ma in realtà ne vuole sempre meno. L’obiettivo sembra oggi a portata di mano grazie al clima mefitico che incombe. E allora ecco che invece delle serie riforme di ampio respiro assolutamente necessarie (quelle impostate dai ministri Bonafede e poi Cartabia), una certa politica innesca un’indebita ingerenza nell’esercizio di un altro potere dello Stato e quindi un conflitto fra poteri istituzionali le cui conseguenze potrebbero essere devastanti. Prima di tutto per l’indipendenza della magistratura: patrimonio dei cittadini che credono nell’uguaglianza, non della “casta” dei magistrati. Che però devono essere i primi a difenderlo, scacciando “i mercanti dal tempio” per recuperare l’orgoglio e la responsabilità che in momenti ben peggiori (terrorismo e stragi) han saputo esprimere.

IlFattoQuotidiano

mercoledì 15 luglio 2020

Ecco i testimoni di Palamara: ex ministri e uomini del Colle. - Antonio Massari

Ecco i testimoni di Palamara: ex ministri e uomini del Colle

L’offensiva. Il pm presenta una lista di 133 nomi.
Un documento di 34 pagine e un elenco di 133 testimoni. Luca Palamara chiede al Csm di accettare la lunghissima lista testi con una duplice conseguenza. Se il Csm accetta sfilerà mezza giustizia italiana – dall’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino agli ex ministri Andrea Orlando e Giovanni Maria Flick, passando per gli ex presidenti dell’Anm Francesco Minisci ed Eugenio Albamonte e all’attuale procuratore capo di Milano Francesco Greco – correndo il rischio di dimostrare che la gestione Palamara non era l’eccezione nella procedura delle nomine. Se rifiuterà, darà l’impressione di non volersi sottoporre a una operazione verità. Palamara chiama a testimoniare anche Guido Lo Forte, tra i favoriti per la Procura di Palermo fino allo stop inferto, nei fatti, dalla richiesta del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di procedere seguendo un inedito ordine cronologico. Intervento che portò la consiliatura successiva a nominare a Palermo Francesco Lo Voi (anch’egli nella lista testi). Lo Forte potrebbe dover spiegare perché, in seguito, revocò la candidatura alla Procura generale del capoluogo siciliano. Ma c’è di più. Palamara chiama a testimoniare due consiglieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – Francesco Garofani e Stefano Erbani – per due distinte vicende. La prima: le interlocuzioni con Luca Lotti relative alla nomina – poi saltata – del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, alla Procura di Roma. Tra le accuse rivolte a Palamara c’è quella di aver discusso della nomina di Viola alla presenza di Lotti il 9 maggio 2019. Palamara sostiene che Lotti fosse estraneo “agli orientamenti maturati dai gruppi di Unicost e Magistratura Indipendente”. Resterebbe indigeribile che ne discutesse alla sua presenza. Ma Palamara va oltre e vuole che Garofani riferisca “sulla posizione processuale” di Lotti al 9 maggio 2019 e “sui rapporti e colloqui intrattenuti” con il Parlamentare del Pd “in ambito istituzionale” e “anche con riferimento alle vicende relative al Csm”. Con il Fatto, lo scorso anno, Garofani ha smentito qualsiasi interessamento alle vicende in questione.
Palamara chiede che altri testimoni – per esempio l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini e l’ex consigliere laico Paola Balducci – confermino che la sua frequentazione con Lotti (indagato dalla Procura di Roma nell’inchiesta Consip e poi imputato per rivelazione del segreto e favoreggiamento) era iniziata a livello istituzionale con incontri avvenuti anche alla presenza dell’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone.
Erbani è invece chiamato a testimonare sul procedimento disciplinare su Woodcock (è stato assolto il mese scorso) iniziato con la consiliatura guidata da Legnini e rinviato a quella successiva. Fonti del Quirinale precisano al Fatto che Erbani non sa nulla sull’argomento. Diversa la posizione di Legnini, che Palamara cita come testimone, affinché racconti il “contenuto di una conversazione avuta con l’onorevole Paolo Cirino Pomicino”, proprio su Woodcock, “nel periodo di svolgimento” del suo “procedimento disciplinare”. Conversazione che fu poi “oggetto di un’intercettazione ambientale nell’ambito del procedimento Consip”. In sostanza Pomicino, in un’intercettazione ambientale, racconta di aver incontrato Legnini e di aver parlato con lui di Woodcock. E questa intercettazione – secondo la ricostruzione di Palamara – finisce proprio nel fascicolo Consip gestito inizialmente da Woodcock. Palamara vuole che Legnini spieghi le “ragioni del rinvio del procedimento disciplinare” nei confronti di Woodcock. In effetti, intercettato mentre parla con Legnini, già nel maggio 2019 Palamara gli dice che vuol riferire alla stampa le reali ragioni del rinvio. “Non lo puoi dire” gli risponde Legnini. Palamara lo rassicura: “Senza mettere in mezzo te”. Legnini spiega al Fatto che Palamara si riferiva a un’intercettazione – che non ha mai letto – nella quale Pomicino raccontava di averlo incontrato e nella quale avrebbe sostenuto, sempre a detta di Palamara, che lo stesso Legnini avrebbe parlato in termini non lusinghieri di Woodcock. Legnini era in quel momento giudice in sede disciplinare e avrebbe potuto rischiare una ricusazione. Ricusazione mai avvenuta. E intercettazione al momento sconosciuta. Legnini conferma al Fatto di aver incontrato Pomicino, che gli parlò di Woodcock, lamentandosene, ma spiega: “Gli dissi che non potevo far nulla”. Versione confernata da Pomicino. “Non mi sono lasciato condizionare – conclude Legnini – dalle parole di Palamara né dall’esistenza di questa presunta intercettazione. Il rinvio è stato giusto, fisiologico, richiesto dalla stessa difesa di Woodcock”.
Sullo stesso argomento Palamara chiama a testimoniare anche il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo. Poi passa ai finanzieri che hanno indagato su di lui, a partire dall’ex ufficiale del Gico Gerardo Mastrodomenico, al quale vorrebbe chiedere di alcune intercettazioni non riportate nelle informative, il perché non sia stata fermata la registrazione di Lotti e Cosimo Ferri, nonostante il divieto espresso dalla Procura di intercettare parlamentari e, infine, quali incarichi rivestisse dal maggio 2018 al giugno 2019. Mastrodomenico, al quale era stata delegata l’inchiesta, da settembre 2018, e fino al successivo incarico come comandante provinciale della Gdf di Messina, è stato alla Scuola di Perfezionamento per le forze di Polizia: è da lì – è la domanda sottintesa – che ha condotto le indagini? Tra i testimoni citati anche Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo ai quali vuol chiedere cosa sappiano dell’esposto presentato dal pm di Roma Stefano Fava su Pignatone e dei colloqui intrattenuti con il magistrato Erminio Amelio (Amelio era tra i candidati di Palamara a Perugia come procuratore aggiunto).
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/14/ecco-i-testimoni-di-palamara-ex-ministri-e-uomini-del-colle/5867204/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-07-14

venerdì 3 luglio 2020

I 4 incontri propiziati da Ferri: così si decise di registrare il giudice. - Gianni Barbacetto


l'onorevole renziano cosimo ferri rivela: fui io a portare il ...
Nessun complotto: caso Mediaset deciso subito perché si prescriveva il 1.8.2013. i 10 misteri dei 4 incontri fra B., il suo giudice e il solito Ferri.
È lui “il magistrato” che porta il giudice Amedeo Franco da Silvio Berlusconi. È Cosimo Ferri, leader storico della corrente Magistratura indipendente, che però nel 2013 riveste un ruolo politico, perché è sottosegretario alla Giustizia (berlusconiano) del governo di Enrico Letta, nato dalle “larghe intese” tra Pd e Berlusconi. È Ferri che chiede un incontro al leader di Forza Italia, perché deve riferire quanto gli ha detto uno dei giudici che hanno firmato la sua condanna definitiva in Cassazione. Silvio tira in lungo, rimanda. “Da tempo aveva chiesto di parlarmi e io mi ero rifiutato”, racconta, “perché ero troppo amareggiato per quello che avevo subito”.
In verità, sono i suoi avvocati, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, a suggerirgli prudenza: un giudice che va a parlare con il suo condannato è inconsueto perfino nel magico mondo berlusconiano. Dopo le insistenze di Franco e del suo ambasciatore Ferri, Ghedini e Coppi dicono sì, raccomandando però di registrare gli incontri. Sono quattro o cinque, avvengono a Roma a Palazzo Grazioli tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014. Ad almeno un paio è presente anche Ferri. Nelle trascrizioni compaiono anche due voci femminili, che potrebbero essere segretarie e assistenti di Berlusconi. Ghedini e Coppi ne restano fuori, anche per non diventare testimoni dei fatti e dover rinunciare alla difesa. Finché Franco è vivo, non esibiscono gli audio, che sono però evocati in una memoria alla Corte di Strasburgo del 2015. Nel 2017 ne accenna Berlusconi nel programma di Bruno Vespa, dicendo che “aveva la prova” che la sentenza di Cassazione era viziata. Il 20 maggio 2020 – dopo la morte di Amedeo Franco – Ghedini e Coppi depositano a Strasburgo anche i file audio. Uomo-chiave degli incontri è Ferri. È lui a contattare Berlusconi per farlo parlare con Franco. È lui ad accompagnarlo a Palazzo Grazioli.
Figlio d’arte, Cosimo ha ereditato le sue due anime dal padre, Enrico Ferri, magistrato ma anche ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici ai bei tempi della Prima Repubblica. Fa il giudice al Tribunale di Massa, sezione penale di Carrara. Ma la sua vera passione sono le relazioni. A soli 35 anni viene eletto, grazie alla campagna elettorale paterna, al Consiglio superiore della magistratura. Poi diventa segretario generale di Magistratura indipendente, che trasforma nella sua rete di rapporti e di potere. Nel 2012, alle elezioni dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), stabilisce il record italiano delle preferenze, raccogliendo 1.199 voti. Si butta in politica. Sotto l’ombrello di Berlusconi: nel 2013 diventa sottosegretario alla Giustizia del governo Letta. È questo il momento in cui porta Amedeo Franco a Palazzo Grazioli. Resta sottosegretario anche dopo la fine delle “larghe intese”: autoproclamandosi “tecnico”. Mantiene la poltrona anche nei successivi governi Renzi e Gentiloni. Nel 2018 viene eletto deputato del Pd, che lascia nel settembre 2019 per aderire a Italia Viva.
Il suo nome compare come il prezzemolo in molti succulenti piatti-scandalo italiani. In Calciopoli entra, da gran collezionista di poltrone qual è, come membro dell’Ufficio vertenze economiche della Federcalcio. Nel 2005, in una telefonata intercettata, ringrazia il vicepresidente Figc, Innocenzo Mazzini, a nome dell’amico Claudio Lotito, patron della Lazio, per aver fatto designare un arbitro che ha favorito i biancazzurri: “Mi ha detto Claudio di ringraziarti. Sei un grande”. Nel 2009 si occupa di Michele Santoro: Giancarlo Innocenzi, commissario berlusconiano all’Agcom, dice a Berlusconi di “aver trovato una chiave interessante” per bloccare il programma Annozero, grazie ai preziosi consigli di Ferri. Nel 2010, compare nelle intercettazioni dello scandalo P3: si dava da fare per piazzare magistrati nei posti desiderati.
Per lui, la frontiera tra politica e magistratura è frastagliata e incerta come i crinali della sua Lunigiana. Così nel 2014 fa campagna elettorale per il Csm, mandando sms ai suoi ex colleghi magistrati, per invitarli a votare due suoi protetti. L’Anm denuncia l’interferenza della politica e del governo nelle attività elettorali del Csm. Tutte medaglie. Il 21 luglio si presenterà alla sezione disciplinare del Csm, per lo scandalo Palamara: dovrà spiegare i suoi incontri con il deputato renziano Luca Lotti, con cui discuteva la nomina del procuratore di Roma. Chissà se spiegherà anche il suo ruolo di mediatore tra il giudice e il condannato.

domenica 21 giugno 2020

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela.

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela

Il sindacato delle toghe diffonde un comunicato per spiegare perché non ha sentito il suo ex presidente prima di espellerlo: "Semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni". Il leader di Area querela il collega, che ai giornali riferisce di cene con l'onorevole dem Donatella Ferranti per discutere della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini. Il segretario dell'Anm Caputo, tirato in ballo sempre dal pm sotto inchiesta, replica: "Per difendersi attacca, ma con lui mai parlato di nomine".
“Un Giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo Statuto di una associazione. Ancora di più quando ne è stato Presidente”. Nel day after dell’espulsione di Luca Palamara dall’Associazione nazionale magistrati – da lui presieduta tra il 2008 e il 2012 – le polemiche nel mondo delle toghe sono tutt’altro che svanite. Il sindacato dei magistrati, infatti, ha affidato a un comunicato stampa la sua replica per il pm al centro dell’inchiesta che imbarazza il mondo della giustizia. Ma a Palamara non è indirizzata solo la nota ufficiale dell’Anm, ma pure la smentita – si presume a titolo personale – del segretario del sindacato delle toghe, Giuliano Caputo. E poi l’annuncio di querela di Eugenio Albamonte, collega di Palamara alla procura di Roma e come lui ex presidente dell’Anm. Ma andiamo con ordine.
Anm: “Palamara mente” – Già ieri, quando il comitato direttivo centrale aveva respinto all’unanimità la sua richiesta di audizione, Palamara aveva attaccato: “Mi è stato negato il diritto di parola e di difesa, nemmeno nell’Inquisizione”. Poi aveva fatto trapelare alle agenzie di stampa il testo del suo discorso denso di rivendicazioni e avvertimenti. Quindi, in una serie di interviste ad alcuni quotidiani (compreso Il Fatto) rincara la dose: “Non ho agito da solo e non farò, come ho già detto più volte, da capro espiatorio. Questo deve essere estremamente chiaro”, dice il pm indagato dalla procura di Perugia. Ed è tornato nuovamente ad attaccare, che a suo dire non gli avrebbe dato modo di difendersi dalle contestazioni. “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente” e “cerca ora di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti”, replica la giunta dell’Associazione nazionale magistrati. “Il dottor Palamara – si legge nella nota dell’organismo guidato da Luca Poniz – non è stato sentito dal Cdc semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni. Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi Palamara mente: è stato sentito dai probiviri e in tutta la procedura disciplinare non hai mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati. E, come lui, gli altri incolpati. Le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo”.
“Albamonte a cena col Pd”. E lui querela – Molto diverso il dibattito che si è acceso per le dichiarazioni rilasciate da Palamara ai giornali, nei minuti dopo l’espulsione. Il pm è stato chiamato a chiarire cosa intende dire nel suo discorso quando si scaglia contro “quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento”. A chi si riferiva, gli chiede Antonio Massari del Fatto: “A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio”, risponde Palamara. Che poi evoca su quelle cene l’ombra degli accordi per le nomine degli uffici giudiziari: “Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva un rapporto anche tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito”. Segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, storicamente in buoni rapporti con Palamara – che era il leader di Unicost, la corrente moderata e per lungo tempo alleata di Area – Albamonte ha dato mandato al proprio legale per presentare querela nei confronti del collega. Il motivo? Lo ha diffamato – spiega l’avvocato Paolo Galdieri- parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. “Non vediamo cosa ci sia di diffamatorio nelle dichiarazioni del nostro assistito. Sarà comunque un’occasione di chiarimento. Piuttosto ci si dovrebbe seriamente interrogare sul trattamento ricevuto da Palamara, privato di difesa e di come il trojan inoculato non abbia carpito nulla di penalmente rilevante”, controreplicano i legali di Palamara, gli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti.
“Caputo? Ha beneficiato del sistema”. “Tutto falso” – Al quotidiano Repubblica, invece, il pm sotto inchiesta fa il nome del segretario dell’Anm, che come lui fa parte di Unicost: “Se penso a Giuliano Caputo – le parole di Palamara – penso a un beneficiato assoluto di questo meccanismo che si trova lì perché Enrico Infante, anche lui di Unicost, era ritenuto troppo di destra. Questi sono gli errori che hanno fatto fallire un sistema facendo prevalere gli accordi tra correnti”. Caputo, da parte sua, non querela ma smentisce: “Nel disperato tentativo di difendersi attaccando, Palamara inventa una realtà che non corrisponde ai fatti“. Il segretario dell’Anm smentisce di aver discusso con lui di nomine: “Mai ne avevo parlato con lui e la pubblicazione integrale delle chat chiarirà forse anche le sue idee sulla mia nomina.Con un chiaro tentativo mistificatorio accosta le dinamiche associative alle prassi relative alle nomine per posti direttivi e semidirettivi ed al mercato delle nomine di cui è stato assoluto (anche se non unico) protagonista negli ultimi anni. Non ho mai parlato né con lui né con altri di domande presentate da me o da altri magistrati”, dice Caputo. “Raramente – prosegue il segretario dell’Anm – mi sono confrontato con lui, come con altri ex esponenti apicali dell’Anm, su questioni dell’associazione. Era nota la sua aspirazione a diventare procuratore aggiunto a Roma, resa possibile dall’abrogazione di una norma, avvenuta con dinamiche ancora da chiarire, rispetto alla quale l’Anm ha assunto da subito una posizione di ferma condanna. Ignoravo assolutamente i suoi tentativi di condizionare la nomina del procuratore della Repubblica di Perugia che avrebbe dovuto gestire il procedimento a suo carico, che si confrontasse con un parlamentare imputato per la nomina del procuratore di Roma e che pensasse di screditare, per varie ragioni, altri colleghi, circostanze che hanno rappresentato le ragioni della sua espulsione dall’Anm”.

Processo alle invenzioni. - Marco Travaglio


Un muro fra politica e magistratura. Bonafede annuncia una riforma ...
Non so quante migliaia fra articoli e talk show siano stati dedicati allo scandalo Palamara. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema: non i giochi di corrente per far promuovere o punire dal Csm il giudice Tizio e il pm Caio (ci sono sempre stati e purtroppo sempre ci saranno se non cambiano l’ordinamento giudiziario e il sistema elettorale del Csm); non le parole in libertà del pm romano e dei suoi interlocutori su Salvini e altri (ciascuno in privato dice ciò che vuole); ma le riunioni clandestine fra Palamara e due estranei alle nomine giudiziarie, i deputati renziani Luca Lotti (Pd) e Cosimo Ferri (allora Pd e ora Iv), mai espulsi né sanzionati dai loro partiti. Allo stesso modo, non so quante migliaia di articoli e talk show siano stati dedicati al caso Di Matteo-Bonafede, mischiato con questioni totalmente diverse, dalle scarcerazioni al caso Palamara, in un frittomisto tanto appetitoso quanto fuorviante incredibilmente approdato in Antimafia. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema istituzionale che dovrebbe interessare la commissione parlamentare: non la nomina a capo del Dap di Basentini anziché di Di Matteo (scelta politica opinabile e, secondo noi, sbagliata del ministro Bonafede, ma discrezionale, legittima e insindacabile); non le scarcerazioni di centinaia di mafiosi, malavitosi e presunti (decise dai giudici di sorveglianza, non dal Dap); ma un’inquietante eventualità, mai esplicitata ma fatta balenare da Di Matteo il 3 maggio nella telefonata a Giletti e poi da molti pelosi alleati dell’ultim’ora: che cioè Bonafede non l’avesse nominato perché i boss al 41-bis non lo volevano.
Il miglior modo per disinformare la gente è imbottirla e intontirla con notizie che sembrano coerenti e invece c’entrano come i cavoli a merenda, in un gran polverone che fa perdere il filo e dimenticare il punto di partenza: è ciò che han fatto Giletti e la sua corte di mitomani per sei puntate di “Non è l’Arena, è Salvini”, con la collaborazione di molti giornali e del Parlamento (question time, sfiducia a Bonafede e Antimafia). Noi abbiamo pazientemente seguito le audizioni di Bonafede, Di Matteo e un esercito di dirigenti del Dap in Antimafia, a prezzo di terribili emicranie e a rischio di labirintite. E abbiamo scoperto ciò che già tutti sapevamo. 
1) Bonafede offrì gli Affari Penali o il Dap a Di Matteo (18 giugno 2018) quando conosceva da 10 giorni le proteste dei boss e se ne infischiò. 
2) Di Matteo ha sempre smentito che Bonafede avesse deciso su input o per paura dei boss (anche sospetta pressioni di“qualcuno”, pronome che non si addice a un pm). 
3) L’ha ribadito in Antimafia: “Se avessi pensato che Bonafede non mi aveva più dato il Dap a causa di pressioni dei detenuti mafiosi, avrei denunciato la cosa in Procura”. 
Così chiarita la sola questione rilevante per la commissione che indaga su mafia e politica, il presidente Morra&C. avrebbero dovuto congedarlo. Invece han trasformato l’Antimafia nella succursale del Giletti Show (fortunatamente in ferie), facendolo parlare altre 4 ore del più e del meno nel disperato tentativo di resuscitare un caso morto prima di nascere: tipo che Di Maio lo voleva al Viminale (embè?), o che Napolitano nel 2012 voleva far la pace coi pm della Trattativa tramite Palamara. Una non-notizia, visto che Palamara era presidente dell’Anm e quel racconto era già uscito nel mio Viva il Re! (2013).
Intanto è stato sentito pure il dg uscente del Dap Giulio Romano, autore della circolare del 21 marzo che, per la vulgata dei mitomani, “ha scarcerato 500 mafiosi col pretesto del Covid”. Questi, carte alla mano, ha dimostrato che: Bonafede nel dl Cura Italia del 23.2 escludeva i mafiosi dalla liberazione anticipata; la circolare del 21.3 non faceva cenno a scarcerazioni e si limitava a chiedere i nomi dei detenuti con le patologie gravi indicate dai medici come concause mortali da Covid; era stata chiesta dai Tribunali di sorveglianza in base alla legge penitenziaria del 1976, al Dpr 230/2000 e a vari ordini di servizio dei precedenti capi- Dap; queste vecchie norme hanno prodotto le scarcerazioni, non la circolare (atto amministrativo che non può ordinare nulla ai giudici); senza la circolare, in caso di detenuti morti con o per Covid, l’intero Dap sarebbe finito alla sbarra (i Radicali avevano già denunciato Bonafede e Basentini per procurata epidemia, ma i morti sono stati solo 4 su 61 mila); molte scarcerazioni sono state disposte prima della circolare e molte successive non fanno alcun cenno alla circolare, ma a norme vigenti da decenni alla luce delle direttive dell’Oms e dell’Iss sul Covid; dei 498 detenuti “pericolosi” scarcerati al 7 maggio, quelli usciti per l’emergenza Covid sono 223 (e 50 sono già tornati dentro dopo il decreto anti-scarcerazioni), di cui 121 pregiudicati e 103 in custodia cautelare (presunti non colpevoli), e fra questi solo 4 erano al 41-bis, di cui 3 estranei alla circolare; il quarto è Zagaria, scarcerato da un giudice che cita la circolare, ma scrive che l’avrebbe messo fuori comunque; l’unico errore del Dap fu la risposta al giudice di sorveglianza per Zagaria sull’email sbagliata, infatti Basentini e Romano si sono dimessi. Sperando che siate sopravvissuti fin qui, azzardiamo una domanda: ma voi avete capito di che minchia stanno parlando?

sabato 20 giugno 2020

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”. - Giuseppe Pipitone

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”

C'è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia: il magistrato al centro dell'inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe era considerato l'ambasciatore scelto dal Colle sotto la presidenza di Napolitano per interloquire con l'ufficio inquirente siciliano, trascinato in quei mesi davanti alla Consulta per la vicenda delle intercettazioni di Mancino col capo dello Stato.

Nel 2012, all’apice dello scontro tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo, all’allora procuratore aggiunto del capoluogo siciliano arrivò una proposta: creare un contatto con il Colle per risolvere “questa situazione“. Questa situazione era il conflitto d’attribuzione di poteri sollevato dall’allora presidente della Repubblica nei confronti dell’ufficio inquirente palermitano, che all’epoca aveva appena chiuso le indagini sulla Trattativa Stato-mafia. Un’interlocuzione assolutamente anomala e per la quale il Quirinale aveva individuato un ambasciatore: Luca Palamara. A raccontarlo è chi all’epoca era uno dei magistrati simbolo della procura di Palermo: Nino Di Matteo. C’è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia. Un fatto che diventa assolutamente emblematico se riletto oggi.
Lo scontro tra il Colle e la procura – Da settimane Palazzo San Macuto sta portando avanti un’indagine sulle scarcerazioni di boss mafiosi avvenute durante l’emergenza coronavirus. Ma anche sulla mancata nomina a capo del Dap di Di Matteo da parte del guardasigilli Alfonso Bonafede nel giugno del 2018. È di questo che ha riferito l’ex pm siciliano: cinque ore di audizione in cui più volte è spuntato sullo sfondo il nome di Palamara, la toga simbolo dello scandalo che imbarazza la magistratura. Ma, a sorpresa, il nome dell’ex presidente dell’Anm è venuto fuori anche quando Di Matteo ha riferito alcuni episodi inediti legati all’inchiesta più delicata della sua carriera: quella sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Un processo importante, finito nel 2018 con pesanti condanne, ma cominciato tra la fibrillazione dei più alti livelli dello Stato. Intercettando l’ex ministro Nicola Mancino, infatti, i pm palermitani si imbatterono per quattro volte nella voce dell’allora presidente della Repubblica Napolitano. Intercettazioni che gli inquirenti non reputarono rilevanti ai fini penali ed è per questo che non le trascrissero e non le depositarono mai agli atti dell’inchiesta, chiusa nel giugno del 2012. Il Colle, però, non gradì. E nel mese di luglio dello stesso anno sollevò un conflitto d’attribuzioni: trascinò cioè la procura di Palermo davanti alla Consulta. Alcuni mesi dopo l’Alta corte diede ragione al capo dello Stato, ordinando la distruzione di quei nastri. Prima, però – stando a quanto ricostruito da Di Matteo – tentò la strada della riconciliazione, in modo abbastanza irrituale.
Il racconto di Di Matteo: “Volevano fare una trattativa sulla trattativa” – “Se non ricordo male – ha raccontato l’attuale consigliere del Csm all’Antimafia – a un certo punto nel periodo più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia, che era ancora un magistrato della procura di Palermo e quindi conduceva le indagini con noi, disse a me e all’allora procuratore Messineo che a Roma aveva incontrato un direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo per risolvere questa situazione e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Palamara“. Praticamente, come l’ha definita lo stesso magistrato con una battuta, il Quirinale tentò di fare “una trattativa sulla trattativa“. “Io – ha proseguito Di Matteo – pensavo che Antonio scherzasse, sia io sia Messineo, e Ingroia era d’accordo, abbiamo detto: ma stiamo scherzando, questi vogliono fare una trattativa sulla trattativa, ma questa fu una battuta. Fu una cosa estemporanea, ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara. In quel momento – ha continuato l’ex pm – io non capivo cosa potesse entrarci con le vicende del procedimento sulla Trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale. Questo è un dato di fatto. Non sono mai più tornato con Ingroia su questa cosa, ma ricordo questo riferimento estemporaneo“. Ma chi fu a comunicare a Ingroia delle “richieste di contatto” del Quirinale? “Credo che il direttore cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro, Ingroia potrebbe essere più preciso. Io ricordo che eravamo nella stanza del procuratore, Ingroia tornava da Roma e fece questo riferimento che noi bloccammo subito, anche Ingroia era convinto che andasse bloccato subito, la pensava esattamente come me”. Ex procuratore aggiunto di Palermo e ora avvocato, qualche settimana fa Ingroia ha accennato quella strana proposta durante un’intervista televisiva sul caso nomine nella magistratura: “Palamara – sono le sue parole su La7- era stato indicato dal presidente Napolitano come possibile ambasciatore per cercare di concludere la contrapposizione tra procura di Palermo e Quirinale“.
L’avversione di Palamara per chi indaga sulle stragi – Il periodo al quale fa riferimento Ingroia è da collocarsi alla fine dell’estate del 2012: Palamara stava per terminare il suo mandato da presidente dell’Anm. Nei quattro anni al vertice del sindacato delle toghe non difenderà mai i magistrati di Palermo, finiti sotto attacco proprio mentre indagano sul Patto segreto tra Cosa nostra e pezzi delle Istituzioni. “Quelle – ha ricordato Di Matteo – furono critiche anche feroci ricevute da tutte le fazioni politiche, critiche particolarmente virulente nel momento in cui la vicenda si intrecciò con quella delle conversazioni di Napolitano“. Anni dopo Palamara non perderà la sua avversione per le indagini sui legami occulti dello Stato. È il 6 maggio del 2019 quando il pm oggi sotto inchiesta a Perugia scrive un messaggio su whatsapp all’amico Cesare Sirignano, ex pm della procura nazionale Antimafia e suo collega in Unicost, la corrente moderata delle toghe di cui Palamara era il leader assoluto: “Questo gruppo per indagare sulle stragi tutti ne parlano. Ma c’era bisogno? Ti dico che non è grande mossa”. Sirignano replica: “Luca ma tu non hai capito che Federico rappresenta la nostra forza”. Palamara risponde: “Lo so. Ma non deve sbagliare mosse”. Il gruppo stragi è il pool di magistrati creato alla Dna per coordinare il lavoro della varie procure sulle bombe del 1992 e 1993.
La rimozione dal pool Stragi e la soddisfazione di Palamara – Fino al 26 maggio del 2019 di quel gruppo di pm faceva parte pure Di Matteo: poi Federico Cafiero De Raho (il Federico citato da Sirignano) ha deciso di escluderlo, dopo un’intervista concessa dal pm ad Andrea Purgatori. Secondo il procuratore nazionale antimafia in quell’intervista Di Matteo svela alcuni elementi in quel momento segreti perché ancora al centro dell’indagine sulla strage di Capaci: “Su quel tema si erano tenute ben due riunioni, con la presenza di vari procuratori distrettuali, si parlava di indagini, di interpretazione di alcune dichiarazioni e le dichiarazioni Di Matteo finiscono per toccare proprio quei temi”, ha sostenuto De Raho domenica scorsa, telefonando in diretta alla trasmissione tv di La7 Non è l’Arena. “L’intervista era stata resa prima della riunione, e nella riunione non si era parlato di questo. E poi se avessi raccontato qualcosa di segreto rispetto alle riunioni penso sarebbe stato d’obbligo denunciarmi all’autorità giudiziaria“, ha detto Di Matteo a Palazzo San Macuto. In seguito alla rimozione dal pool stragi, filone d’inchiesta al quale ha dedicato l’intera carriera in magistratura, Di Matteo ha lasciato la procura nazionale antimafia, dopo aver ottenuto l’elezione al Csm da consigliere indipendente. Per chiarire come è andata davvero quella storia c’è una pratica ancora aperta – e top secret – al Csm. Di sicuro c’è solo che il giorno in cui il quotidiano Repubblica scrive prima di tutti della rimozione del pm siciliano, Sirignano informa in diretta Palamara, girandogli il link dell’articolo. Il leader di Unicost risponde: “Grande Federico”. Pochi secondi dopo Sirignano replica con uno laconico: “Noi siamo seri”. Ma noi chi?
La corrente di Palamara in via Arenula – Faceva parte della stessa corrente di Palamara e Sirignano anche Fulvio Baldi, ex capo di gabinetto di Bonafede, che si è dovuto dimettere dopo che ilfattoquotidiano.it ha svelato le intercettazioni telefoniche in cui il leader di Unicost lo chiamava affettuosamente “Fulvietto“. Non solo: Palamara all’amico Baldi chiedeva anche un aiuto per piazzare altri magistrati amici al ministero della giustizia. In via Arenula Baldi era stato nominato da Bonafede il 20 giugno del 2018, cioè lo stesso giorno in cui il guardasigilli, cercando di convincere di Di Matteo a dare la sua disponibilità per essere nominato direttore generale degli Affari Penali, dice :”Dottore Di Matteo, ci pensi bene. Perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono“. “Una frase – ha detto l’ex pm siciliano all’Antimafia – assolutamente precisa le cui parole io non posso equivocare, né allora e né ora. Mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento“. Il 12 maggio scorso il guardasigilli ha detto alla Camera: “Si continuano a cercare possibili condizionamenti evocando, in modo più o meno diretto, i vari livelli istituzionali. Una volta per tutte: non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Punto!”.
I renziani alla corte di Palamara – Di sicuro quei giorni del giugno del 2018 per Bonafede sono molto convulsi: è arrivato al ministero da due settimane quando – è lunedì 18 giugno – telefona a Di Matteo e gli propone di scegliere tra due incarichi, o il vertice del Dap o gli Affari Penali. Il giorno successivo, prima di ricevere la risposta del magistrato siciliano, sceglie come vertice delle carceri Francesco Basentini, pure lui di Unicost come Baldi e Palamara, pure lui un ex visto che si è dimesso nei primi giorni di maggio dopo le polemiche per le scarcerazioni dei boss. A lavorare col guardasigilli – come vicecapo di gabinetto – c’è anche Leonardo Pucci, già compagno di studi a Firenze di Bonafede, assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce, oltre a Basentini, anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Spina partecipava agli incontri notturni in cui si discuteva del futuro procuratore di Roma. Incontri ai quali – oltre ad alcuni consiglieri del Csm – partecipavano anche due deputati: il magistrato “prestato” alla politica Cosimo Ferri e l’ex sottosegretario Luca Lotti, che della procura di Roma era – ed è – un imputato dell’inchiesta Consip. Entrambi sono renziani di vecchissima data: con l’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, Lotti è stato sottosegretario alla presidenza del consiglio, Ferri invece sottosegretario alla giustizia. Il primo è ancora oggi nel Pd, il secondo, invece, ha seguito Renzi in Italia viva.
Il “pensiero affettuoso” di Renzi per Napolitano – Sarà un caso ma è proprio Matteo Renzi la prima persona che lega il nome di Giorgio Napolitano allo scontro tra Bonafede e Di Matteo. Lo fa, in modo apparentemente inspiegabiledurante il suo intervento in Senato nel giorno della bocciatura della mozione di sfiducia al ministro della giustizia: “Visto che in tanti avete citato Di Matteo, cui va il nostro rispetto e l’augurio di buon lavoro, permettetemi – per aver vissuto una certa pagina di questo Paese – di esprimere un pensiero affettuoso al presidente emerito Giorgio Napolitano. Lui sa perché, voi sapete perché”. Già, perché? Il giorno dopo il leghista Gianluca Cantalamessa lo ha chiesto al guardasigilli. Che ha risposto: “Escludo qualsiasi tipo di pressione, immaginiamo quella dell’ex presidente Napolitano“. Il presidente dell’Antimafia Morra, ora, lo ha chiesto a Di Matteo: “Non posso sapere – ha risposto – perché in quel momento il senatore Renzi abbia sentito la necessità o l’opportunità di ringraziare il presidente Napolitano, non lo dovete chiedere a me”.