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lunedì 9 ottobre 2023

“Salario minimo”, il giudice disapplica il contratto collettivo sotto la soglia costituzionale. - Francesco Machina Grifeo

 
 Autore: Marie-Lan Nguyen Copyright: Public Domain

 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 27711 depositata oggi, accogliendo (con rinvio) il ricorso del dipendente di un cooperativa che lamentava la non conformità all’articolo 36 Cost del suo Ccnl.

L’articolo 36 della Costituzione laddove indica che la retribuzione deve essere (oltre che “proporzionata”) “sufficiente” ad assicurare un’esistenza “libera e dignitosa” pone un limite sotto il quale non si può scendere. Un limite sempre sindacabile dal giudice e che dunque prevale anche sulla contrattazione collettiva “che non può tradursi, in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale”. E le cose non cambiano neppure quando sia una legge a rinviare espressamente al Ccnl (come nel caso specifico). Lo scrive la Corte di cassazione, sentenza n. 27711 depositata oggi, accogliendo (con rinvio) il ricorso del dipendente di un cooperativa che lamentava la non conformità all’articolo 36 Cost. del suo stipendio di vigilante (in un supermercato Carrefour) nonostante fosse quello indicato dal Ccnl Servizi Fiduciari. In primo grado il giudice gli aveva dato ragione confermando l’inadeguatezza dell’emolumento. Per la Corte di appello invece la valutazione di conformità del giudice non poteva applicarsi in presenza di contratti collettivi vigendo il principio della libertà sindacale.

Una lettura bocciata dalla Sezione lavoro secondo cui “nell’attuazione dell’art.36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’ art. 36 Cost ., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata”. Inoltre, ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale “il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe”. Infine, nell’opera di verifica della retribuzione minima adeguata “può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici”, non dovendo però ancorare la propria valutazione, per esempio, alla soglia di povertà fissata dall’Istat annualmente ma accogliendo una nozione più ampia, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, per la quale si deve tener conto “anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.

Nel caso concreto il lavoratore aveva dedotto che a seguito dell’applicazione, da un cambio di appalto all’altro, di Ccnl sempre diversi e peggiorativi – sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative – si era prodotto il risultato di una diminuzione della retribuzione pur nell’identità dell’attività di lavoro svolta da esso e dalla stessa datrice di lavoro.

La necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione, prosegue la sentenza, “per individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale, si pone dunque in ogni caso, ed anche in questa causa in cui il giudice è stato chiamato a sindacare il salario applicato da una cooperativa di lavoro ed attraverso di esso la stessa legge che sta a monte imponendone l’applicazione”.

L’intervento giudiziale, precisa la Corte, può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, “ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”. Dal momento che “per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”.

Spetta dunque al giudice di merito “valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.”, mentre il lavoratore “ deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità”. Al lavoratore dunque “spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione”.

Risulta pertanto, conclude la Suprema corte, che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale”, come quella in materia di cooperative, non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva; posto che il rinvio va inteso nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto. “Sicché una legge (come quella in tema di cooperative ed in ogni altro settore) che imponga la determinazione di un salario minimo attraverso la contrattazione deve essere parimenti assoggettata ad una interpretazione conforme all’art. 36 ed all’art 39 Cost.”.

https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/salario-giusto-giudice-disapplica-contratto-collettivo-sotto-soglia-costituzionale-AF5jMj4

mercoledì 4 ottobre 2023

dignitosa e non solo non povera… - Massimo Erbetti

 

Ti alzi la mattina alle 5…
Ti alzi ogni mattina alla 5…
Ti alzi ogni santo giorno la mattina alle 5…
Ti prepari, vai al lavoro… 10 ore al giorno…tutti i giorni…tra lavoro e pausa pranzo stai fuori 12 o 13 ore…
Ritorni a casa che è sera…sei stanco esausto…non ne puoi più…ma devi farlo, non puoi permetterti di smettere…e a dire il vero non puoi neanche sognare di migliorare…"fuori c'è la fila"
Fai tanto…fai più di tanto…ma non basta, non è sufficiente…affitto, bollette, benzina per andare al lavoro…e poi assicurazione, bollo…vorresti dar via quella schifezza di macchina che hai…costa troppo mantenerla…ma ci devi andare al lavoro…e come fai a darla via?
Ti alzi la mattina alle 5…
Ti alzi ogni mattina alla 5…
Ti alzi ogni santo giorno la mattina alle 5…
Una mattina ti fermi…ti guardi allo specchio e ti domandi:
"ma è vita questa?"...
"che senso ha una vita così?"...
"lavorare per sopravvivere"...
"eppure dai il massimo…"
Una "non" vita per uno stipendio da fame…5 euro l'ora…50 ore la settimana…250 euro…al mese fanno 1.000 euro…
Che cosa potresti fare di più?
Non lo sai…non riesci a trovare una soluzione…e nel frattempo ti senti frustrato, inadeguato…
Un fallito…ecco come ti senti…un fallito…non puoi vivere, non puoi far vivere i tuoi figli…e questo schifo di società ti fa sentire uno "scarto"
Ed è quello che devono aver pensato i giudici della cassazione quando hanno emesso la sentenza:
“I giudici possono fissare il giusto salario costituzionale”
Giusto salario costituzionale…
Costituzionale…lo dice la costituzione che non puoi essere sfruttato, che non puoi lavorare per uno stipendio da fame…
Il lavoro deve permetterti:
"una vita dignitosa e non solo non povera"
Dignitosa…quando lavori tutto il giorno, quando dai il massimo…non puoi fermarti a guardarti nello specchio e pensare che sei un fallito…perché il fallito non sei tu…
Ora te lo dice la cassazione…il fallito…o chi ha fallito è questo governo che continua a pensare che il benessere della nazione deve passare sul tuo sfruttamento…sul tuo sacrificio…sulla tua frustrazione e senso di inadeguatezza…ecco chi ha fallito.
Parlano di "Merito"...ma tu…
Tu non credi di meritarti di più?
Non pensi che sia arrivato il momento di vivere e non sopravvivere?
Non credi che meriti di vivere una vita dignitosa? In fondo te la sei guadagnata.
Pensaci…pensaci bene, perché la vita è una e puoi viverla una volta sola…e un futuro ai tuoi figli puoi darlo una sola volta…non farti ingannare…il tuo nemico non viene dal mare…il tuo nemico non ha un colore della pelle o una religione diverse dalle tue…
Lo so sei arrabbiato…con qualcuno devi pur prendertela…ma…
Il tuo nemico, quello vero… è quello che non vuole che tu viva con uno stipendio che ti dia dignità…e per fortuna che se n'è accorta anche la Corte di Cassazione…

domenica 27 giugno 2021

Pagamento Tari, verso slittamento al 31 luglio per definire tariffe e rate. - Gianni Trovati

 

Con il decreto fisco-lavoro arriva la proroga in extremis dei termini per i Comuni.

Arriverà in extremis la nuova proroga al 31 luglio del termine per approvare i Piani economico finanziari e le tariffe della Tari 2021. Il treno utile spuntato un po’ a sorpresa all’orizzonte è quello del decreto in arrivo sul tavolo del consiglio dei ministri per ospitare le norme più urgenti a cui governo e maggioranza avevano lavorato nella preparazione degli emendamenti al decreto sostegni-bis. Il monte dei correttivi si è gonfiato insieme all'emergere delle spese parecchio inferiori del previsto per gli aiuti a fondo perduto.

Nel nuovo decreto, fra le altre cose, ci sarà la proroga al 31 agosto dello stop alla riscossione. E, appunto, il rinvio dei termini per decidere piani economico finanziari e tariffe 2021 della Tari, chiesto a gran voce dai Comuni e annunciato ieri dalla viceministra all’Economia Laura Castelli. «È una necessità su cui c’è grande sensibilità e ampia convergenza», ha sottolineato.

Preventivi e rendiconti.

La stessa convergenza non si incontra invece per un’altra richiesta arrivata nei giorni scorsi dagli amministratori locali, che spingono per un rinvio generalizzato di preventivi e rendiconti al 31 luglio. Quest’ultimo, a meno di sorprese dell’ultima ora, non dovrebbe trovare spazio nel decreto. Il termine del 31 luglio rimarrebbe quindi limitato ai 1.786 enti locali che hanno ricevuto le anticipazioni di liquidità sblocca-debiti del 2013-2015 e che quindi sono inciampati nelle incognite su tempi e modalità del ripiano dell'extradeficit dopo la sentenza 80/2021 della Corte costituzionale. In questi enti, secondo una nota pubblicata dall’Ifel nei giorni scorsi, il rinvio dei bilanci già trascina con sé le scadenze della Tari.

Il perché del rinvio delle delibere Tari.

Sul fronte delle entrate, in ogni caso, a dominare ancora una volta la scena è il caos della TariIl rinvio al 31 luglio risposterebbe in avanti un termine che nel sostegni-1 aveva ballato fino al 30 settembre, per poi attestarsi al 30 giugno. La proroga arriva in extremis, e più che aiutare la programmazione toglie le castagne dal fuoco ai tanti enti che in ogni caso non sarebbero arrivati in tempo con la scadenza decisa nel Dl 41/2021 (articolo 30, comma 5). Il rebus della tariffa rifiuti, già abitualmente parecchio complicato, quest'anno è riservato ai solutori più che abili. 

Quest’anno il debutto del nuovo sistema tariffario. 

Dopo le incertezze e le deroghe del 2020, questo sarebbe l’anno del debutto vero e proprio per il nuovo metodo tariffario costruito dall'Arera , che modifica drasticamente per molte amministrazioni l'articolazione fra costi fissi e variabili. In questo gioco a incastri entrano poi gli effetti del decreto legislativo che ha recepito in Italia la direttiva Ue sull’economia circolare (Dlgs 116/2020), e che continua a essere al centro di un conflitto fra il ministero della Transizione ecologica che ha deciso per l'esenzione generalizzata dei magazzini delle imprese e le amministrazioni locali che contestano (anche sulla scorta delle indicazioni Mef a Telefisco 2021) questa interpretazione.

Il fondo da 600 milioni per le restrizioni anti-Covid

In ogni caso, la nuova disciplina per le industrie modifica la platea dei contribuenti, e quindi la distribuzione dei pesi fra le varie utenze per la copertura integrale dei costi del servizio. Nei giorni scorsi, poi, ha passato l'esame della Stato-Città il decreto che distribuisce il nuovo fondo da 600 milioni per gli sconti alle utenze non domestiche colpite dalle restrizioni anti-Covid nella prima parte dell'anno, a cui i Comuni potranno aggiungere riduzioni ulteriori finanziate per altra via (anche con i residui del fondone 2020). La ciliegina sulla torta è rappresentata dai conguagli tra i costi risultanti dal Pef 2020 e quelli fissati per il 2019. Resta da capire se un mese in più sarà sufficiente a risolvere la sciarada. Per chi non ce la dovesse comunque fare nonostante la proroga, la prospettiva è la conferma delle tariffe 2020 che però in molti casi, per le regole emergenziali, sono quelle del 2019; con un congelamento a catena che renderebbe ancora più duro l’impatto con le nuove regole l’anno prossimo.

IlSole24Ore

venerdì 2 aprile 2021

Consulta. Sì ai domiciliari per gli over 70 anche se recidivi. - Antonella Mascali

 

I detenuti ultrasettantenni potranno ottenere gli arresti domiciliari anche se condannati con l’aggravante della recidiva. La Corte costituzionale, relatore Francesco Viganò, ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario, che prevede per loro il divieto assoluto. La magistratura di sorveglianza dovrà valutare caso per caso se il condannato recidivo “sia in concreto meritevole di accedere” ai domiciliari, “tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosità sociale”. La misura, spiega la Corte, “si fonda su una duplice presunzione. Da un lato, il legislatore presume una generale diminuzione della pericolosità sociale del condannato anziano, secondo, le prescrizioni del giudice e con i dovuti controlli”. Inoltre, aggiunge la Corte, la norma è stata ritenuta irragionevole “anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena” e in modo conforme “alla costante giurisprudenza che considera contrarie” alla Costituzione (3 e 27) “le preclusioni assolute”. Questa sentenza non riguarda i detenuti anziani mafiosi o terroristi. La Corte, però, ribadendo il suo no alle preclusioni automatiche per benefici o misure alternative potrebbe applicare lo stesso concetto quando, dopo Pasqua, deciderà in merito al divieto attuale per mafiosi ergastolani di accedere alla libertà condizionale se non hanno collaborato.

IlFattoQuotidiano

giovedì 9 luglio 2020

La Corte costituzionale dà torto ad Autostrade: "Legittimo estromettere la società dalla costruzione del nuovo ponte". - Liliana Milella e Marco Preve

La Corte costituzionale dà torto ad Autostrade: "Legittimo estromettere la società dalla costruzione del nuovo ponte"
(Leoni)

Aspi aveva presentato ricorso contro il decreto con cui veniva istituito il commissario per la ricostruzione dell'opera, escludendo di fatto la società. La Consulta: "Scelta dettata dalla grave situazione". I 5Stelle esultano: "Avevamo ragione". Conte: "Una scelta che ci conforta".

"L'eccezionale gravità della situazione" giustifica l'esclusione di Aspi dai lavori per la ricostruzione del ponte di Genova. Con questa motivazione la Corte costituzionale ha respinto i 6 ricorsi del Tar della Liguria che aveva sollevato dubbi di costituzionalità sull'articolo 41 della Carta per l'esclusione di Aspi dalla ricostruzione del Morandi, il cui crollo provocò la morte di 43 persone. Era stata la società a rivolgersi al Tar per lamentare la violazione di una serie di diritti che sconfinavano, secondo i legali dell'azienda, nell'illegittimità costituzionale. La sentenza arriva nel giorno delle polemiche per la notizia che sarà Aspi a gestire il nuovo ponte di Genova, almeno fino alla possibile revoca della concessione. A reagire sono innanzitutto i 5Stelle: "Avevamo ragione". E Di Maio: "Grazie a Toninelli". "La sentenza ci conforta", dice il premier, Giuseppe Conte. "Conferma la piena legittimità costituzionale della soluzione normativa a suo tempo elaborata dal governo". Ma ecco il comunicato con cui la Corte ha annunciato la sua decisione.

Il comunicato della Corte.

"La Corte costituzionale ha esaminato nell'odierna camera di consiglio le questioni sollevate dal Tar della Liguria riguardanti numerose disposizioni del Decreto legge n. 109 del 2018 (cosiddetto Decreto Genova) emanato dopo il crollo del Ponte Morandi. Il Decreto ha affidato a un commissario straordinario le attività volte alla demolizione integrale e alla ricostruzione del Ponte nonché all'espropriazione delle aree a ciò necessarie. Inoltre, è stato demandato al commissario di individuare le imprese affidatarie, precludendogli di rivolgersi alla concessionaria Autostrade Spa (Aspi) e alle società da essa controllate o con essa collegate. Infine, il Decreto impugnato ha obbligato Aspi a far fronte ai costi della ricostruzione e degli espropri.  

In attesa del deposito della sentenza, l'Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non fondate le questioni relative all'esclusione legislativa di Aspi dalla procedura negoziata volta alla scelta delle imprese alle quali affidare le opere di demolizione e di ricostruzione. La decisione del Legislatore di non affidare ad Autostrade la ricostruzione del Ponte è stata determinata dalla eccezionale gravità della situazione che lo ha indotto, in via precauzionale, a non affidare i lavori alla società incaricata della manutenzione del Ponte stesso. La Corte ha poi dichiarato inammissibili le questioni sull'analoga esclusione delle imprese collegate ad Aspi e quelle concernenti l'obbligo della concessionaria di far fronte alle spese di ricostruzione del Ponte e di esproprio delle aree interessate". 

La ricostruzione del caso.

Il ricorso affrontato oggi dalla Consulta era intitolato "Aspi contro la presidenza del Consiglio dei ministri e altri undici". Fra questi "undici" c'era soprattutto la struttura commissariale, presieduta da Marco Bucci, il sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del ponte Morandi, che ha poi ricostruito il viadotto sul Polcevera.
 
Con il celebre decreto Genova, poi diventato legge, Autostrade per l'Italia era stata estromessa dalle attività di ricostruzione del Ponte Morandi, affidate al Commissario straordinario con spese a carico del concessionario. Aspi aveva presentato una serie di ricorsi al Tar Liguria. L'elenco delle presunte violazioni di diritti costituzionali era lungo e ruotava in primis attorno al mancato rispetto della Convenzione fra Stato e concessionaria. Soprattutto sull'imposizione ad Aspi, lasciata fuori dalla porta della ricostruzione, dei costi per il nuovo viadotto ma anche di quelli per i risarcimenti alle imprese e agli sfollati: "Non è dato comprendere - hanno scritto i giudici del Tar - con precisione sulla scorta di quali parametri economici sono state determinate le indennità per metro quadro".
 
I giudici, nelle sei ordinanze sul tavolo della Consulta, sostenevano "la sussistenza di un contrasto con i principi di  separazione dei poteri, di difesa e del giusto processo, nonché del complesso delle disposizioni censurate  con il principio di proporzionalità".  E che "l'esclusione della società concessionaria dalle attività  in questione costituirebbe una restrizione della libertà di iniziativa  economica  in contrasto con l'articolo 41 della Costituzione (che garantisce la libertà dell'iniziativa economica privata, ndr)".
 

L'esclusione di Aspi dalla ricostruzione, inoltre, era stata decisa in assenza di qualsiasi responsabilità accertata processualmente della società - visto che l'inchiesta della procura non è neppure arrivata all'udienza preliminare - nel crollo del 14 agosto 2018. Secondo i giudici del Tar "il legislatore" avrebbe "alterato il complesso di diritti e obblighi attribuiti alla ricorrente Aspi dalla Convenzione unica". Sulla base di queste considerazioni giuridiche il Tar ha sospeso il giudizio sul ricorso perché ha ritenuto "rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale". Ma oggi la Consulta ha bocciato queste argomentazioni. E ora, tra governo ed Autostrade, si preannuncia lo scontro finale.

https://www.repubblica.it/politica/2020/07/08/news/consulta_ponte_concessione_autostrade-261342237/?fbclid=IwAR3e0KZ4IO5QSURk2KcQolWOfSNpk0OK-Ku3oBDotin2XMp3cFtCJ9MEKME

giovedì 24 ottobre 2019

Sanno quello che fanno - Marco Travaglio - IFQ - 24 OTTOBRE 2019


Siccome non c’è limite al peggio, la Corte costituzionale ha seguito quelle europee e ha deciso che in Italia l’unico ergastolo possibile è quello finto. In tutto il mondo, da che mondo è mondo, l’ergastolo significa “fine pena mai”. Da noi invece “fine pena forse”. Tant’è che nel 1992, dopo Capaci e di via D’Amelio, si dovette escogitare la ridicolaggine dell’“ergastolo ostativo” per affermare un principio che dovrebbe essere ovvio: l’ergastolo è incompatibile con permessi, sconti di pena e altre scappatoie, per tener dentro a vita almeno qualcuno, cioè i criminali più pericolosi, irriducibili e irredimibili (mafiosi e terroristi). L’8 ottobre i giudici di Strasburgo avevano bocciato questa norma di puro buonsenso e tutti avevano spiegato che, essendo provenienti perlopiù da Paesi immuni dalla mafia, non sanno che un mafioso è per sempre, salvo che parli o muoia. E ritenere l’ergastolo vero come una negazione del principio di rieducazione della pena è una doppia fesseria: intanto perché uno può rieducarsi restando in carcere (ci sono svariati casi di ergastolani che lavorano, studiano, si laureano senza mettere piede fuori); e soprattutto perché per redimersi davvero il mafioso deve innanzitutto recidere i legami col suo clan, e può farlo solo se collabora.
Ma questi elementari principi sembrano sfuggire anche ai giudici costituzionali italiani, che un’idea della cultura e della prassi mafiosa dovrebbero averla. Quindi sanno quello che fanno. Perciò la loro sentenza è ancor peggio di quella europea: perché non può essere giustificata neppure con l’ignoranza. Affidare alla discrezionalità dei giudici la decisione pro o contro un permesso premio a un mafioso irriducibile li espone a lusinghe, minacce e vendette mafiose: se oggi nessun ergastolano “ostativo” ottiene permessi premio è perché la legge li vieta; domani gli ergastolani “ostativi” (tipo i fratelli Graviano, condannati per tutte le stragi del 1992-’94) chiederanno permessi e, se non li otterranno, sarà “colpa” del giudice che li ha negati pur potendoli concedere. Dunque proveranno a comprarlo e a intimidirlo e, in caso di diniego, a punirlo. L’accesso ai permessi premio è la prima breccia nel muro finora impenetrabile del decreto Scotti-Martelli (41-bis, ergastolo vero e benefici ai pentiti) battezzato 27 anni fa col sangue di Falcone, di Borsellino e delle altre vittime delle stragi. Un muro che i boss provano da allora a scalfire con le buone (la trattativa) e con le cattive (le bombe, le minacce e i ricatti). Dopo Capaci e via D’Amelio, il Ros domandò a Riina, tramite Ciancimino, cosa volesse per una tregua.
E il boss rispose con un papello di richieste: via l’ergastolo, il 41-bis, i pentiti, le supercarceri di Pianosa e Asinara. Nel ’93 il 41-bis fu ammorbidito, con la cacciata del capo del Dap Niccolò Amato e la revoca del carcere duro a 334 mafiosi. Nel ’94 B. tentò col decreto Biondi di abolire l’arresto obbligatorio per i reati di mafia, poi la norma fu bloccata da Bossi e Fini (perché liberava anche i mazzettari di Tangentopoli); ma nel ’95 fu approvata da destra e sinistra insieme. Nel ’97 il centrosinistra chiuse Pianosa e Asinara, nel ’99 abolì l’ergastolo per due anni, poi nel 2001 ci ripensò, ma in compenso introdusse i benefici e aumentò i limiti ai pentiti. Poi tornò B. e i suoi uomini al Dap aprirono alla “dissociazione” dei boss irriducibili (benefici senza confessare nulla né denunciare nessuno), ma furono bloccati. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella, cognato di Riina, prese la parola in un processo, collegato dal carcere dell’Aquila, e lesse un comunicato a nome degli altri detenuti in sciopero della fame contro i politici che non mantenevano “le promesse” sul 41-bis: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Con chi ce l’aveva? Lo svelò il Sisde: Cosa Nostra minacciava di tornare a sparare, stavolta senza “fare eroi”: “L’obiettivo potrebbe essere una personalità della politica percepita come compromessa con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica”. Chi? Il Sisde mise subito sotto scorta Dell’Utri e Previti.
Il 19 dicembre 2003 il governo B. riformò il 41-bis, rendendone più facili le revoche. Ma i mafiosi lo volevano proprio abolito. Il 22 dicembre allo stadio di Palermo, durante la partita fra la squadra di casa e l’Ascoli (il club della città dov’era detenuto Riina), comparve un mega-striscione: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. La risposta arrivò nel 2006, in campagna elettorale, quando B. esaltò Mangano come “eroe”. Ma evidentemente le promesse erano ben altre. Ancora nel 2016-2017 Giuseppe Graviano si sfogava col compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi: nel 1992 “Berlusca” gli aveva chiesto “una cortesia” (le stragi?) perché aveva “urgenza di scendere” in campo e “lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. E accusava B. di ingratitudine: “Pigliò le distanze e ha fatto il traditore… 25 anni fa mi sono seduto con te, giusto è?… Traditore… pezzo di crasto… ma vagli a dire com’è che sei al governo… Ti ho portato benessere. Poi… mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi… Dice: non lo faccio uscire più e sa che io non parlo perché sa il mio carattere e sa le mie capacità… Mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta… Alle buttane glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso… e tu mi stai facendo morire in galera…”. Graviano affidava poi ad Adinolfi – in procinto di uscire – un messaggio ricattatorio per un misterioso intermediario col mondo berlusconiano a Milano2. E discuteva col compare dell’opportunità o meno di dire ai magistrati tutto ciò che sa. Ma sbagliava destinatario. Bastava aspettare le due Corti. Quod non fecerunt berluscones, fecerunt ermellini.

sabato 11 maggio 2019

Vitalizi Trentino-Alto Adige, la Consulta: “Taglio previsto da legge legittimo”. M5s: “Privilegi e non diritti acquisiti”. - Giuseppe Pietrobelli

Vitalizi Trentino-Alto Adige, la Consulta: “Taglio previsto da legge legittimo”. M5s: “Privilegi e non diritti acquisiti”

Anche se reatroattive, per i giudici, le norme rispondevano a due esigenze fondate. La prima era quella “di ricondurre a criteri di 'equità e ragionevolezza' gli assai favorevoli meccanismi di calcolo dell’attualizzazione degli assegni vitalizi”. La seconda esigenza era quella “di provvedere al contenimento della spesa pubblica”. E la Lega annuncia un nuovo disegno di legge.

I tagli ai vitalizi dei consiglieri regionali del Trentino-Alto Adige decisi nel 2014 non erano incostituzionali. Lo ha stabilito la Consulta che ha esaminato i quesiti posti dal giudice civile di Trento Massimo Morandi e riguardanti la norma che aveva cercato di ridurre gli effetti a favore della casta politica di una precedente legge regionale del 2012. La causa riguardava gli effetti “retroattivi, permanenti ed irreversibili” che vietavano il cumulo con altri vitalizi nazionali o europei oltre i 9.000 euro lordi mensili e prevedeva un taglio del 20 per cento dell’importo erogato dalla Regione.

Le cause erano state promosse dalle vedove di Hans Rubner e di Ioachim Dalsass, che avevano visto ridurre gli assegni di reversibilità mensili lordi da 4.765,89 a 1.895 euro e da 6.761 a 1.895. Altre cause erano state promosse da due ex consiglieri e deputati, Hubert Frasnelli (vitalizio calato da 7.965 a 5.891 euro, che si aggiungeva a 3.108 da deputato nazionale) e Siegfrid Brugger (da 3.543 a 139 euro euro, oltre agli 8.860 incassati da deputato). Erano tagli legittimi e proporzionati? Poteva la Regione prendere una decisione che incideva sui benefici acquisiti? La Consulta dà una risposta precisa e ritiene infondata la censura di incostituzionalità. Anche se retroattive, le norme rispondevano a due esigenze fondate. La prima era quella “di ricondurre a criteri di ‘equità e ragionevolezza’ gli assai favorevoli meccanismi di calcolo dell’attualizzazione degli assegni vitalizi” introdotti da una legge regionale del 2012 e da due delibere dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale nel 2013. La seconda esigenza era quella “di provvedere al contenimento della spesa pubblica”. In particolare, scrivono i giudici della Consulta, “l’intervento legislativo aveva mirato a correggere gli effetti di una normativa che aveva complessivamente determinato un ampliamento della spesa pubblica regionale, in controtendenza rispetto alle generali necessità di contenimento e risparmio perseguite dal legislatore statale, a fronte di una crisi economica di ingente (e notoria) portata”.
La notizia arrivata da Roma ha scatenato qualche scintilla tra Lega e Movimento Cinquestelle. Roberto Paccher, presidente leghista del Consiglio regionale, ha commentato: “Dopo questa storica sentenza, che conferma che si possono tagliare i vitalizi, è mia intenzione presentare un nuovo disegno di legge per trasformare i vitalizi dal sistema retributivo a quello contributivo”. Pungente la replica di Filippo Degasperi, di M5S: “Siamo molto soddisfatti, anche perché la sentenza di fatto chiarisce che la vicenda non riguarda diritti acquisiti, ma privilegi auto-riconosciuti da un’intera classe politica”. Il consigliere trentino punta il dito contro “i commenti entusiastici di rappresentanti appartenenti a partiti che non hanno offerto alcun sostegno alla causa e che anzi, oltre ad aver approvato la legge con cui sono stati distribuiti 96 milioni di euro a circa 150 colleghi ed ex, hanno mantenuto il segreto più rigoroso per quasi due anni sul pagamento degli assegni d’oro”. A che cosa si riferisca Degasperi è presto detto: “Solo l’avvento del M5s, con un’interrogazione a mia prima firma ha scoperchiato il pentolone della legge Vergogna che era stata approvata nel 2012 per acclamazione e senza riserve dal Consiglio regionale”.
Leggi anche: 

martedì 13 novembre 2018

Intascava soldi dall'imputato La Consulta boccia il Csm: «Quel giudice è da cacciare». - Luca Fazzo



I colleghi provano a salvare il magistrato che andava licenziato. Stop della Corte Costituzionale.

Va a sbattere contro la Corte Costituzionale uno dei tentativi più arditi del Consiglio superiore della magistratura di salvare la poltrona a una toga scoperta a prendere soldi.

Che nel giudicare le colpe dei giudici al Csm siano inclini al garantismo è cosa risaputa: di magistrati assolti, o puniti blandamente, nonostante prove granitiche sono piene le cronache di questi anni. Ma nel caso di Luisanna Figliola, giudice preliminare a Roma e oggi pm a Napoli, sembrava che non ci fosse scampo: la legge prevedeva per lei come unica sanzione possibile la destituzione, ovvero il licenziamento. Il Csm ha ritenuto che l'obbligo di sfilare la toga alla collega violasse addirittura la Costituzione, e si è rivolto alla Corte Costituzionale perché cancellasse la norma. Ricevendone in risposta una brusca bocciatura. Se un magistrato si fa pagare da un imputato, non può continuare a fare il magistrato: sembra una ovvietà, ma per farla digerire al Csm c'è voluta la Consulta.
La Figliolia è un magistrato maturo e di grande esperienza, con alle spalle processi importanti nella Capitale (compreso quello alle nuove Brigate Rosse) e con un passato di militante in una delle correnti della magistratura. Ma questo rende ancora più grave quanto avviene tra lei e Vittorio Cecchi Gori, il produttore cinematografico finito in dissesto.

La sentenza della Corte Costituzionale riassume così le colpe: alla Figliolia «è contestato di avere ottenuto da un imprenditore, che sapeva essere indagato presso il proprio ufficio di appartenenza per il delitto di bancarotta fraudolenta, vantaggi indiretti (consistenti nel conferimento al proprio coniuge di un contratto per un corrispettivo mensile di 100.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056 euro)». Più colorito il contesto dei rapporti tra i due come li ha raccontati, nel processo alla Figliolia, l'ex fidanzata di Cecchi Gori, Mara Meis: secondo cui la giudice avrebbe imposto al produttore oltre ai servigi del marito anche la presenza di una maga, grazie alla quale l'uomo poteva dialogare con la madre morta.
La Figliolia è stata assolta in sede penale, perché non si è dimostrato quali favori - a parte i dialoghi con l'Oltretomba - fornisse a Cecchi Gori in cambio dei soldi. La cacciata però sembrava inevitabile. Il Csm, nel luglio 2017, prova a salvarla. Ma la Consulta, con la sentenza depositata ieri, va giù dura: se l'obiettivo deve essere «restaurare la fiducia dei consociati nell'indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario», allora «una reazione ferma contro l'illecito disciplinare può effettivamente contribuire all'obiettivo delineato (...) non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite». E il licenziamento lascia alla Figliolia «la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale».
Fonte: ilgiornale del 13/11/3018

sabato 12 agosto 2017

Sulle pensioni anche la mina perequazione. - Davide Colombo

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Tra le incognite d’autunno che possono condizionare dimensioni e contenuti della manovra non c’è solo la questione dell’adeguamento o meno dei requisiti di pensionamento alla speranza di vita. Sul tavolo c’è anche il nodo dell’indicizzazione delle pensioni all’inflazione, tema in discussione al tavolo governo-sindacati (se ne parlerà giovedì 7 settembre) ma sul quale grava la pesante attesa della Consulta. Il 24 ottobre, infatti, saranno discusse le questioni di costituzionalità delle regole sulla perequazione messe a punto dal governo Renzi con il decreto legge 65/2015 in risposta alla bocciatura delle norme precedenti, arrivata sempre dalla Corte costituzionale con la famosa sentenza 70/2015. E come nel caso degli adeguamenti automatici, anche la soluzione sulle perequazioni rischia di innescare nuova spesa previdenziale.

Stop alle indicizzazioni.
Per capire la posta in gioco bisogna tornare alla riforma Monti-Fornero (dl 201/2011), quando si decise non solo il definitivo passaggio al contributivo per tutti e l’innalzamento dei requisiti ma anche, con una norma transitoria, di bloccare parzialmente l’adeguamento all’inflazione degli assegni già in pagamento. Nel 2012 e nel 2013 venne così riconosciuto l’adeguamento pieno solo per le pensioni di importo fino a 3 volte il trattamento minimo, mentre nulla è stato pagato per gli importi superiori. Con la sentenza 70, la Corte ha dichiarato illegittima questa norma innescando una mina per i conti pubblici, dato che il costo di un pieno riconoscimento, a posteriori, della mancata perequazione venne stimato in 24 miliardi di euro. Di fronte a questo scenario il governo, nella primavera di due anni fa, ha varato il decreto 65/2017, con cui è stato introdotto un nuovo meccanismo di perequazione riferito al biennio 2012-2013 che ha stabilito un adeguamento al 100% per gli assegni fino a 3 volte il minimo; del 40% tra 3 e 4 volte; del 20% tra 4 e 5; del 10% tra 5 e 6; nullo per importi oltre sei volte il minimo. Inoltre è stato definito un meccanismo di “consolidamento” parziale degli effetti di tali arretrati negli anni seguenti. Costo dell’operazione “solo” 2,8 miliardi di maggiore spesa previdenziale. 
Ovviamente chi è rimasto escluso ha fatto ricorso in tribunale e in diversi casi sono state poste questioni di legittimità costituzionale sia sul biennio di mancata perequazione sia sul cosiddetto “mancato trascinamento” sul periodo 2014-2018, ritenuto penalizzante per gli importi più elevati. Il 24 ottobre il giudice delle leggi dovrà discutere una dozzina di ordinanze che puntano, a vario titolo, a smantellare la soluzione low cost del decreto legge 65/2015. L’esito è tutt’altro che scontato.

Il confronto sindacale.
L’attuale meccanismo di indicizzazione è oggetto, come si diceva, della “fase due” del confronto sindacale. L’impegno del governo è di introdurre un sistema di perequazione basato sugli “scaglioni di importo” e non più sulle “fasce di importo” a partire dal 2019, lo stesso anno in cui scatterebbe il nuovo adeguamento alla speranza di vita dei requisiti di pensionamento.In pratica si tornerebbe al meccanismo previsto dalla legge 388 del 2000. Ma nel protocollo siglato l’anno scorso si parla anche della possibilità di valutare l’utilizzo di indici diversi di inflazione, più rappresentativi della spesa dei pensionati, e non manca l’ipotesi di un recupero di parte della mancata indicizzazione passata per una rivalutazione “una tantum” del montante del 2019

Spesa per pensioni e inflazione.
L’Italia non è l’unico paese in cui le leve della riduzione o del differimento dell’indicizzazione delle pensioni sono state utilizzate per mitigare la spesa. Basta uno sguardo agli ultimi rapporti Ocse per scoprire che in almeno altri dieci paesi dell’area, negli ultimi anni, i meccanismi di perequazione sono stati toccati, ridotti o temporaneamente congelati. La ragione è sempre la stessa: tenere bassa la traiettoria di una spesa in costante crescita. Gli interventi sono stati dei più vari, calibrati tenendo conto sia delle esigenze di sostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali sia della dovuta protezione del potere di acquisto di pensioni.


L’adeguamento negli altri Paesi.
Vediamo qualche esempio recente. In Francia nel 2014 l’adeguamento delle prestazioni all’indice dei prezzi è stato spostato dal mese di aprile a ottobre per le pensioni che sono sopra i 1.200 euro al mese, mentre in Grecia il congelamento delle indicizzazioni è iniziato nel 2011 ed è durato quattro anni. In Giappone nel 2015 è stato chiuso un temporaneo stop delle indicizzazioni, mentre in altri Paesi gli interventi sono stati di più lungo termine, con la scelta di indicizzare le pensioni non più ai salari ma ai prezzi o a coefficienti che contengono un mix di inflazione e salari. È il caso dell’Ungheria (dal 2012) o della Repubblica di Slovenia (dal 2013 al 2017) mentre in Australia è previsto il passaggio all’indicizzazione all’inflazione e non più agli stipendi a partire dal 2017. In Finlandia nel 2015 l’indicizzazione è stata temperata, passando da un fattore dell’1% a uno dello 0,4%, un “fattore di riduzione” degli adeguamenti è stato introdotto anche in Lussemburgo nel 2013 e in Polonia nel 2012 mentre meccanismi di riduzione degli adeguamenti per le pensioni di vecchiaia e invalidità sono stati varati nella Repubblica Ceca nel 2012 per una durata prevista fino alla fine del 2015. In Spagna, infine, l’indicizzazione è stata calibrata anche sulla base dei contributi versati ed ogni cinque anni, a partire dal 2019, gli assegni saranno adeguati anche sulla base dell’aspettativa di vita.

mercoledì 30 novembre 2016

Furbetti del cartellino, nessuna salvezza dalla Consulta (a differenza di quanto dice Renzi). Ma pioveranno ricorsi. - Luisa Gaita

Furbetti del cartellino, nessuna salvezza dalla Consulta (a differenza di quanto dice Renzi). Ma pioveranno ricorsi

Dopo la decisione dei giudici supremi sulla legge Madia si è diffuso il timore che i provvedimenti contro gli assenteisti del settore pubblico potessero finire al macero. Ilfattoquotidiano.it ha interpellato diversi esperti. Secondo i quali tutti gli strumenti per licenziarli c'erano già. L'effetto può esserci però sui tempi e sull'incentivo a impugnare.

Nessuna salvezza per i fannulloni e furbetti del cartellino. Si potranno ancora licenziare, al contrario di quanto dichiara il premier Matteo Renzi. Intervistato da Barbara D’Urso a Domenica live 48 ore dopo il verdetto della Consulta sulla riforma Madia, il premier ha infatti lamentato che “la Corte costituzionale con una sentenza ci ha impedito di licenziare quelli che fanno i furbetti a timbrare il cartellino”. Non è proprio così. In questo ambito le problematiche conseguenti alla bocciatura da parte della Consulta di quattro articoli della legge delega della riforma Madia sulla Pubblica amministrazione sono principalmente legate ai ricorsi che è prevedibile fioccheranno da parte di dipendenti pubblici sospesi e licenziati con tempi e modalità dettate dal decreto legislativo 116 del 2016 diventato poi legge. Fra i sei decreti attuativi che derivano dalla legge delega ritenuta incostituzionale e travolti dalla sentenza 251 della Corte Costituzionale c’è infatti anche il cosiddetto decreto fannulloni che prevede la sospensione in 48 ore del dipendente pubblico colto sul fatto (nel caso del cartellino timbrato da un collega, la norma colpiva anche quest’ultimo), il blocco dello stipendio e il licenziamento entro 30 giorni. Che cosa accadrà, dunque, ai dipendenti pubblici colti in flagrante e già licenziati? La sentenza della Consulta rappresenta davvero un enorme passo indietro, un dramma nella lotta all’assenteismo oppure, in fin dei conti, non cambia poi molto? Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto ad alcuni esperti. Che concordano soprattutto su un punto: il decreto in questione non ribaltava in maniera così clamorosa la situazione precedente e, dunque, anche senza quello strumento le amministrazioni sono perfettamente in grado di licenziare i dipendenti infedeli. Nessun dramma.
IL CASO DI SIRACUSA. Eppure agli inizi di settembre la ministra della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, è stata la prima ad annunciare sui social ‘l’era del licenziamento sprint’ quando un’operazione della Guardia di Finanza ha portato a scoprire 29 dipendenti assenteisti del Libero consorzio comunale di Siracusa: “Si applica la riforma della Pa: licenziamento rapido a tutela di tutti i dipendenti onesti” sono state le sue parole. Nei 137 giorni presi in esame sono state documentate 1114 ore di assenze ingiustificate. Com’è finita? Diciannove lavoratori sono stati sospesi per due due mesi e, agli inizi di novembre (circa due mesi dopo il blitz ‘Quo vado’), ci sono stati i primi 4 licenziamenti dei dipendenti del Libero Consorzio di Siracusa, ex Provincia regionale. Un paio di giorni fa la stessa sorte è toccata a sei dipendenti di Siracusa Risorse, società partecipata dell’ex Provincia di Siracusa, sempre nell’ambito della stessa indagine.  Ora che cosa accadrà?
IL RITORNO AL PRE-RIFORMA. Secondo Lorenzo Zoppoli, ordinario di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ non c’è dubbio sul fatto che rimanga, nonostante la sentenza “la possibilità di licenziare il dipendente che viene colto in flagranza di infrazione perché non timbra il cartellino o non è puntuale, non l’ha certo introdotta la riforma Madia”. Cambiano i tempi, ma anche tutta la questione probatoria, il nodo della nozione di flagranza di comportamento di cui si è molto discusso in sede di approvazione e che non si è risolta in maniera pacifica e lineare. “I tempi sono infatti legati ad adempimenti e alla necessità di dare delle garanzie a chi viene incolpato di un certo comportamento” spiega Zoppoli. Discorso diverso sul fronte dei ricorsi: “È chiaro che la sentenza della consulta indebolisce i provvedimenti precedenti, ma non manda tutto al macero”. I ricorsi? “Rinunceranno solo i dipendenti che non ne trarrebbero convenienza e si tratta di casi piuttosto rari”. Qualcosa cambia con la sentenza della Consulta, ma che le regole ci fossero già dalla riforma Brunetta del 2009 e che alcune previsioni fossero state nel frattempo introdotte anche nei contratti collettivi di lavoro lo conferma anche Aurora Notarianni, avvocato specialista in Diritto del lavoro.
CHE COSA CAMBIA. “L’obbligo di avviare un procedimento disciplinare nel caso di un’alterazione (come il cartellino timbrato da un collega), per esempio, esisteva già” spiega l’avvocato. Dal punto di vista amministrativo, poi, era prevista anche la responsabilità di chi agevola, ma non quella del dirigente che si gira dall’altra parte. E se dal 13 luglio di quest’anno, data di entrata in vigore della legge, era possibile sospendere automaticamente (senza stipendio, salvo l’assegno alimentare), senza l’audizione del dipendente, ora il lavoratore colto in flagranza potrà essere sospeso, ma solo dopo essere stato sentito. Discorso a parte per i tempi di licenziamento che con la nuova legge erano ridotti a 30 giorni. “Succede che bisognerà seguire il vecchio iter – spiega Notarianni – che consente di scegliere se sospendere il procedimento in attesa dell’eventuale processo penale, oppure se concluderlo autonomamente”.
Le amministrazioni sceglievano spesso di sospenderlo (con i conseguenti ritardi) per una questione legata alla raccolta delle prove, a maggior ragione nei casi in cui l’accertamento era partito da una procura della Repubblica, con l’utilizzo di strumenti come le cimici, tanto per fare un esempio. “In ogni caso le regole sono sempre state chiare – spiega l’avvocato – il termine per la definizione del licenziamento è di 180 giorni e, se l’iter si sospende in attesa del procedimento penale, deve poi riprendere entro 60 giorni e concludersi entro 180”.
ROMAGNOLI: “GLI EFFETTI VENGONO STRUMENTALIZZATI”. Anche il giuslavorista Umberto Romagnoli, professore emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Bologna sottolinea che “i licenziamenti nel settore pubblico si sono sempre potuti fare”. E va oltre: “Il problema è inventato, mi sembra che si strumentalizzino gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale e che si vogliano descrivere come molto più devastanti di quanto in effetti non siano”. Qualcosa cambia, però. I fannulloni sono salvi? “Ritengo sia una questione gonfiata ad arte per dimostrare che questo governo sta cambiando il Paese, mentre ci sono delle forze oscure che vogliono impedirlo”.

sabato 26 novembre 2016

Consulta boccia riforma Madia della pubblica amministrazione. Renzi: “È la dimostrazione che il Paese è bloccato”.

Consulta boccia riforma Madia della pubblica amministrazione. Renzi: “È la dimostrazione che il Paese è bloccato”

Secondo la Corte Costituzionale la riforma è illegittima nelle parti in cui prevede che l’attuazione attraverso i decreti legislativi possa avvenire dopo aver acquisito il solo parere della Conferenza Stato-Regioni, sede dove serve invece un'intesa per poter procedere. I sindacati dei dirigenti: "Esiste un giudice a Berlino. E domani la delega scade. Mattarella non firmi il decreto". Ora per i decreti attuativi spunta l’ipotesi del ritiro.

Ennesimo incidente, questa volta sostanziale, sulla strada della riforma della pubblica amministrazione targata Marianna Madia. Secondo la Corte Costituzionale, la delega è illegittima nelle parti in cui prevede che l’attuazione attraverso i decreti legislativi possa avvenire dopo aver acquisito il solo parere della Conferenza Stato-Regioni, sede dove serve invece un’intesa per poter procedere. La pronuncia della Consulta è arrivata in seguito a un ricorso della Regione Veneto e riguarda le norme relative a dirigenzapartecipateservizi pubblici locali e pubblico impiego: rende quindi illegittimi anche i decreti approvati giovedì in via definitiva dal Consiglio dei ministri, tra cui quelli sui dirigenti e sui servizi locali (ancora da varare invece il testo unico sul pubblico impiego).
Ha fatto subito buon viso a cattivo gioco Matteo Renzi, che a nove giorni dal referendum costituzionale ha approfittato del pronunciamento per sottolineare: “La Consulta ha dichiarato parzialmente illegittima la norma sui dirigenti perché non abbiamo coinvolto le Regioni. E’ un Paese in cui siamo bloccati“. Chiaro il riferimento agli effetti della revisione del titolo V prevista dalla riforma Renzi-Boschi: se passerà, il governo potrà bypassare gli enti locali evitando la grana dei conflitti di competenza. Poco dopo è arrivata anche una nota del Comitato ‘Basta un sì’ che parla di “un ricorso basato su motivazioni meramente formali” che causa “l’ennesimo blocco burocratico, che ha fatto sprecare tempo e soldi al Parlamento per le sedute necessarie ad approvare questi provvedimenti e che impedisce ai cittadini di ricevere i benefici in essi contenuti. Uno stop che la riforma costituzionale permetterebbe di superare, riportando la gestione della pubblica amministrazione, com’è giusto che sia, alla competenza dello Stato”. Di parere diametralmente opposto i dirigenti, da tempo sulle barricate contro il ruolo unico e il rischio di restare senza poltrona e con lo stipendio ridotto: “E’ tutto da rifare. E domani la delega scade“, cantano vittoria. La Madia si limita a dire che “le sentenze si rispettano”. E, già che c’è, aggiunge anche lei che “se votiamo sì non ci sarà più la possibilità che una Regione blocchi l’innovazione di tutto il Paese”.
Tornando alla pronuncia, la Corte ha circoscritto il giudizio alle misure della delega Madia impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative. “Le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa”, si spiega nella sintesi della sentenza. In particolare, sono stati respinti i dubbi di legittimità costituzionale relativi alla delega per il Codice dell’amministrazione digitale. Lo stop riguarda quindi esclusivamente le deleghe al governo “in tema di riorganizzazione della dirigenza pubblica”, “per il riordino della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni”, “di partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale”. La Consulta, guardando al futuro, sottolinea comunque che “le eventuali impugnazioni delle norme attuative dovranno tener conto delle concrete lesioni delle competenze regionali, alla luce delle soluzioni correttive che il Governo, nell’esercizio della sua discrezionalità, riterrà di apprestare in ossequio al principio di leale collaborazione“.
Ora per i decreti Madia spunta l’ipotesi del ritiro. I provvedimenti sulla dirigenza pubblica e sui servizi pubblici locali, approvati giovedì in Consiglio dei Ministri, potrebbero essere bloccati in uscita e il ‘timbro’ del Quirinale per questi diventerebbe superfluo. Invece per i decreti già pubblicati in Gazzetta Ufficiale, in vigore, quelli sulla razionalizzazione delle partecipate pubbliche e sui licenziamenti lampo per i furbetti, l’ipotesi di correttivi potrebbe non risultare sufficiente lasciando spazio all’alternativa del ritiro. Per quanto riguarda il testo unico sul pubblico impiego il problema non si pone, visto che la presentazione era prevista per febbraio. Quanto alla legge deroga, da cui i decreti discendono, dovrebbe essere rivista con anche una riapertura dei termini, ovvero delle scadenze per la definizione dei provvedimenti di attuazione.
Nei mesi scorsi alcuni tasselli della riforma erano già stati “smontati” dalla giustizia amministrativa: a metà ottobre il Consiglio di Stato ha bocciato il decreto sulla dirigenza pubblica per assenza di copertura finanziaria e mancanza di nuovi sistemi di valutazione, arrivando alla conclusione che  “occorrono rilevanti modifiche al decreto per un miglior risultato sul meritoefficienza e responsabilità dei dirigenti”. Sia il Tar sia il Consiglio di Stato hanno poi giudicato “illegittimi” e “irragionevoli” i requisiti richiesti dal decreto sulla pa digitale ai gestori di pec, certificatori e conservatori di documenti digitali. Ciliegina sulla torta, il Tar del Lazio ha demolito pure il regolamento attuativo di quest’ultimo decreto sulla digitalizzazione dei servizi ribadendo che i requisiti di capitale sono ingiustificati.
Dall’Unadis al Fedir, i sindacati dei dirigenti pubblici esultano. “Esiste un giudice a Berlino“, commenta l’Unione nazionale dirigenti dello Stato attraverso il segretario generale Barbara Casagrande. “Qualcuno comincia a dire che la legge Madia è incostituzionale e, di conseguenza, lo è il decreto legislativo adottato ieri dal Consiglio dei Ministri, laddove non vi è una intesa con la Conferenza Stato Regioni (ma solo un parere). Dopo le numerose iniziative volte ad evidenziare le nostre preoccupazioni nei confronti di una riforma inapplicabile, incostituzionale, che lede l’imparzialità della funzione amministrativa e ingenera incrementi dei costi all’esterno, adesso dobbiamo ragionare sulle azioni immediate a tutela della difesa della dirigenza”. “Domani la delega scade”, ma “auspichiamo che non si blocchi il processo di riforma, ma che avvenga in modo corretto e condiviso”. Per mercoledì è convocata una “grande assemblea della dirigenza, insieme ai nostri legali, per definire le azioni imminenti a difesa della categoria e del Paese”.
Il segretario nazionale della Federazione dei Dirigenti e Direttivi Pubblici (Fedir), Antonio Travia, fa appello al presidente Mattarella chiedendogli “di non rendersi complice di Renzi di ulteriori illegittimità e quindi di non firmare il decreto Madia sulla dirigenza”.