A edicole unificate, Roberto Saviano su Repubblica, Sandro Veronesi sul Corriere e Luigi Manconi sulla Stampa hanno scritto tre articolesse quasi identiche per unirsi per un paio di giorni allo sciopero della fame dei radicali e detenuti a favore di amnistia e/o indulto e/o altre tre misure svuota-carceri per “far uscire qualche migliaio di persone”: bloccare l’esecutività delle condanne definitive (cioè lasciare a spasso i nuovi pregiudicati); estendere a tutti i condannati, senza distinzioni di reati, la detenzione domiciliare speciale del dl Ristori (cioè mandare a casa anche i mafiosi e i terroristi, saggiamente esclusi dal governo); allungare la liberazione anticipata dagli attuali 45 giorni l’anno a 75 (cioè cancellare due mesi e mezzo da ogni anno di pena da scontare). Il tutto per scongiurare la presunta “strage” da Covid, con tanto di “condanne a morte” decise dal governo cattivo. I tre si dipingono come intellettuali scomodi, censurati ed emarginati dai media, alfieri di una battaglia che richiede “una grossa dose di coraggio”: infatti occupano tre pagine sui tre principali quotidiani italiani.
Noi pensiamo che i detenuti, a parte le restrizioni previste dalla legge, debbano godere degli stessi diritti degli altri cittadini. Quindi, se davvero la situazione fosse l’apocalisse descritta dal trio, ci assoceremmo immantinente al grido di dolore. Per fortuna i dati – quelli veri, non i loro – dicono l’opposto: le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese: 5 morti da febbraio su 54.363 (contro i 29 reclusi morti in Gran Bretagna). E solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa (per chi ne ha una). Che, trattandosi di gente perlopiù povera, è di solito un ambiente altrettanto esiguo, promiscuo, sovraffollato, ma per giunta incontrollato. Già nella prima ondata i “garantisti” all’italiana strillavano all’“olocausto” nelle carceri, accusando il ministro Bonafede di non metter fuori nessuno, mentre altri geni gli imputavano di metter fuori centinaia di boss (che poi erano tre). Risultato: 2 morti da marzo a maggio e picco massimo di 140 contagiati sui 51mila detenuti di allora. Un’inezia, in rapporto ai dati nazionali. Del resto, bastava un po’ di buonsenso: contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è; e rimetterlo in circolazione non riduce il rischio che si contagi, ma lo aumenta. Ora che la seconda ondata è più diffusa e uniforme in tutta Italia, anche le carceri ne risentono. Sugli attuali 53.720 detenuti (dati del 24 novembre: chissà dove Saviano ne ha visti “oltre 60mila”), i morti sono 3 e i positivi 826 (l’1,5% del totale).
Di questi, 772 sono asintomatici, cioè non malati (93,5%), 32 paucisintomatici curati nelle strutture carcerarie e 22 sintomatici in ospedale. Poi ci sono gli agenti penitenziari: 970 positivi su circa 36mila, di cui 871 asintomatici (90%) e 99 sintomatici (10%). Ma sommarli ai detenuti, come fanno i tre tenori per raddoppiare i positivi in carcere, non ha senso, perché gli agenti positivi non mettono piede in carcere: 941 sono isolati in casa (97%), 19 in caserma e 10 in ospedale. Idem per il personale amministrativo e dirigenziale (72 positivi). Chi conosce i dati sul Covid (quelli veri) noterà la percentuale enorme di positivi asintomatici in carcere (93,5%) rispetto a chi sta fuori (55-60%). Il perché è presto spiegato: in carcere chiunque entri per iniziare la detenzione (“nuovo giunto”) viene sottoposto a tampone, resta isolato per 10-14 giorni e va in cella con gli altri solo dopo il secondo test negativo; per chi invece è già lì, appena si scopre un positivo scatta il tampone per tutti gli ospiti dell’istituto. Quindi la copertura di screening è pressoché totale, cosa che ovviamente non avviene per chi sta fuori: su 60 milioni di italiani, ogni giorno ne vengono testati 200-220 mila, spesso gli stessi che fanno il secondo tampone o più coppie di test. Il che rende ridicola la tesi del trio Saviano-Veronesi-Manconi, secondo cui si rischia il Covid più dentro che fuori. È vero il contrario: su 51mila detenuti, l’indice di positività è dell’1,5%, mentre sui 220-200 mila cittadini liberi testati al giorno è dell’11-12% (che sale addirittura al 23-24 escludendo i secondi tamponi e quelli ripetuti dagli stessi soggetti). Il che smentisce platealmente la tesi di Saviano-Veronesi-Manconi.
È falso che le carceri registrino “un tasso di infetti circa 10 volte superiore a quello, già pesante, che c’è fuori” (Veronesi), anche perché nessuno sa quanti siano i positivi fuori. Ed è falso che il governo – in particolare Bonafede e il Dap – se ne freghi per “indifferenza”, “ottundimento”, “paralisi”, “disumanità” e sadica sete di “tortura”. Anzi i protocolli finora adottati, con i test, i triage, gli isolamenti hanno circoscritto i contagi. E il sovraffollamento endemico delle carceri (che dipende dalla carenza di posti cella in rapporto al numero dei delinquenti, non certo da un eccesso di detenuti, il cui numero è inferiore alle medie europee) è stato alleviato senza tana liberi tutti, ma con misure equilibrate: la semilibertà prolungata (chi deve rientrare la sera dorme a casa) e la detenzione domiciliare speciale (con braccialetto elettronico per i casi più gravi, esclusi mafiosi e altri soggetti pericolosi). Se i numeri cambieranno, ne riparleremo. Per ora l’unica strage in corso nelle carceri è quella della verità.
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