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lunedì 11 novembre 2013

Carceri, per gli alimenti prezzi alle stelle ai detenuti. E le ditte fanno affari d’oro. - Chiara Daina

Carceri, per gli alimenti prezzi alle stelle ai detenuti. E le ditte fanno affari d’oro


I quasi 65 mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato che paga 2,90 euro per tre pasti oppure facendo la spesa. Ma il costo di una confezione di pasta o di caffè dietro le sbarre è molto più alto della media.

Nelle carceri italiane si fanno affari d’oro. Accade alla luce del sole ogni giorno e riguarda la routine dei pasti quotidiani dietro le sbarre. I quasi 65mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato, – colazione, pranzo e cena consegnati direttamente in cella nelle “gavette”, recipienti metallici che ogni detenuto riceve in dotazione al momento dell’arresto – oppure mettendosi ai fornelli, esclusivamente da campeggio.
Nel primo caso, la spesa è a carico del ministero della Giustizia, che stanzia 2,90 euro a testa per tre vitti al giorno. Di solito, la qualità del cibo è quello che è e le dosi non saziano mai abbastanza. Nel secondo caso, è il singolo carcerato a pagare la spesa extra, il cosiddetto “sopravvitto”, attraverso un conto corrente postale intestato all’istituto penitenziario su cui la famiglia ha versato dei soldi di tasca propria. La lista della spesa è già pronta, può variare un minimo con le stagioni (d’estate spuntano gelati e pomodorini), ma in generale non concede ripensamenti: al detenuto basta compilare due volte alla settimana un modulo apposta indicando tra gli alimenti disponibili quelli che gli servono. L’elenco comprende oltre ai beni di prima necessità (dalla pasta alle bombolette del gas, assorbenti e carta igienica), cartoleria, sigarette e giornali. Tutto normale fin qui. Se non fosse che chi sta dietro le sbarre non ha diritto alla scelta come chi va al supermercato: lo spaccio interno, dato in appalto a privati, offre un articolo per ogni genere di prodotto, di solito della marca più cara, e zero possibilità di avvalersi di prezzi scontati, offerte, “tre per due” o alimenti da discount. Tanto il detenuto non può non pagare il conto. O cambiare fornitore. Tanto se si lamenta in cella, nessuno lo ascolta. Solo per citare qualche esempio pescato a caso nei listini prezzi delle nostre carceri, da nord a sud: caffè Lavazza (qualità rossa) a 3.39 euro, 250 grammi di burro a 2,55 euro, una confezione monodose (50 grammi) di marmellata a 70 centesimi, olio di oliva (non extravergine) a 5,50 euro, un chilo di biscotti a 4,15 euro, scatola di tonno Rio mare da 80 grammi a 1,05 euro, Scottex (4 rotoli) a 2,39 euro. I marchi non sono naturalmente responsabili di questi prezzi gonfiati e nei vari istituti il prezzo oscilla solo di qualche centesimo. Rare le eccezioni di merce sottomarca in alternativa a quella griffata. Nella casa di reclusione di Bollate (Milano), fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, o in quella di Padova, dove nel 2011 i detenuti hanno fatto due settimane di astensione dalla spesa per denunciare il caro prezzi, si trova anche il caffè low cost a 85 centesimi. Lussi per pochi, appunto. 
Lucrare sulla pelle dei detenuti è diventato un gioco da ragazzi. E il via libera arriva direttamente dai piani alti. La ditta che fornisce il vitto è la stessa che ha in mano il servizio di spesa extra e per massimizzare i profitti impone un’offerta limitata a pochissimi marchi, tra i più costosi in commercio. E poco importa se il direttore di un carcere è costretto a mandare indietro camion carichi di frutta e verdura di scarto venduti come merce di prima qualità. “Nessuna azienda è disposta a fornire tre pasti al giorno a meno di tre euro, quindi alla stessa viene affidata anche il sopravvitto perché non lavori in perdita” spiega Alfonso Sabella, a capo della Direzione generale dei beni e servizi del Dap. Va avanti così dal 1920. Risale a quell’anno infatti il Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari, che disciplina la prestazione congiunta di fornitura pasti e gestione dello spaccio (articolo 1, capitolato d’appalto). Una manna per le quattordici ditte che si sono aggiudicate entrambi i servizi nelle 206 carceri italiane. In pratica, un oligopolio con guadagno doppio e assicurato.
La Saep spa, per esempio, da anni gestisce gli spacci interni di 26 carceri italiane (di cui otto in Lombardia) e nel 2010 ha registrato oltre 4 milioni di utili. È una delle tredici società controllate dalla Tarricone holding srl, con sede a Balvano in provincia di Potenza e un giro d’affari niente di meno che nel gioco d’azzardo: gestisce due sale bingo (Gioco 2000 e Medusa), una piattaforma telematica per il poker online (Poker mondial network) e la raccolta di scommesse sportive e ippiche (Betflag). Un bel pacchetto di licenze garantito dalla nostra Repubblica. Poi c’è la Arturo Berselli & c. spa, con sede a Milano, che vince appalti dal 1930. È attiva in 20 istituti e nel 2012 ha fatto utili per oltre un milione e mezzo di euro. Altra presenza storica è Claudio Landucci, titolare della ditta omonima, alle spalle una carriera a capo dell’Associazione nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip), e oggi attivo in sedici prigioni dello Stivale.  
C’è di più. Per volontà del ministero della Giustizia, gli appalti delle forniture di vitto devono essere effettuati limitando l’ammissione alla gara “alle sole ditte che nel triennio precedente abbiano regolarmente svolto rapporti analoghi con enti pubblici”. Una condizione che non piace all’Antitrust, che il 17 giugno 2005 con una segnalazione al ministero ha chiesto di tenere conto del principio di concorrenza da bilanciare con le esigenze di sicurezza, come stabilito dalla normativa europea. Perfino la sezione delle Marche e della Lombardia della Corte dei Conti per due volte ha respinto i decreti con cui i Dap regionali assegnavano alle ditte gli appalti. Il motivo? Vizi nelle procedure previste dalla legge. Ma dopo otto anni il copione si ripete. E nessuno, neanche per sbaglio, sembra avere intenzione di fare un passo in avanti. È rimasta lettera morta anche la circolare diffusa da Franco Ionta nel 2011, in cui l’ex capo del Dap pretendeva che in sopravvitto ci dovessero essere almeno “tre o quattro articoli per lo stesso genere”. In un’altra circolare del 1996 si chiedeva che il tariffario modello 72 (quello della spesa del sopravvitto) fosse il più ampio possibile. Parole al vento. Alla fine della fiera il detenuto è condannato due volte, alla sua pena e alla negligenza delle istituzioni. 

lunedì 28 ottobre 2013

Carceri sovraffollate? E’ perché l’Italia non rimpatria gli stranieri. Nonostante la legge. - Thomas Mackinson

Carceri sovraffollate? E’ perché l’Italia non rimpatria gli stranieri. Nonostante la legge

Lo prevede la convenzione di Strasburgo del 1983 che il nostro Paese ha sottoscritto. Con l'attuazione di questa norma si risparmierebbero anche 500 milioni. Ma a distanza di 24 anni dalla ratifica nessuno incentiva questo strumento. In più, non ci sono accordi bilaterali con Marocco, Tunisia e Romania che sono in cima alla classifica delle presenze.

Mentre ancora si parla di indulto e amnistia, l’Italia spende un miliardo all’anno per tenere nelle patrie galere detenuti stranieri che in buona parte potrebbero scontare la pena nei loro paesi d’origine. Il piano è pronto da decenni. Gli accordi per lo scambio ci sono, multi e bilaterali, stretti con quasi tutti i Paesi del mondo. Ma nessuno incentiva questo strumento per svuotare le carceri e i detenuti trasferiti, alla fine, sono così pochi che non vengono neppure conteggiati nelle statistiche sulla giustizia italiana. Percorrendo tutte le vie “ufficialissime” dei ministeri competenti – Interno, Giustizia ed Esteri – è materialmente impossibile avere un dato su quanti abbiano usufruito di questa possibilità e diritto, come prevede la convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato e inserito nel proprio ordinamento dal 1989 e via via allargato con una serie di accordi bilaterali.
Una beffa. Perché questa strada avrebbe potuto, almeno sulla carta, segnare la svolta sulla questione carceri prima che diventasse emergenza nazionale. Lo dicono i numeri. Nelle celle italiane, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si contano oggi 22.770 detenuti stranieri, un terzo della popolazione carceraria. Tanti, troppi. E ci sarebbero motivi di mera convenienza, oltre che di civiltà, per incentivare a diminuirne il numero. Il costo medio per detenuto calcolato dalla Direzione bilancio del Dap è di 124,6 euro al giorno. Lo Stato, nel 2013, spenderà dunque 909 milioni di euro, quasi un miliardo l’anno. Ma quanto risparmierebbe se desse seguito agli accordi di rimpatrio? Per saperlo bisogna moltiplicare quel costo unitario per i 12.509 detenuti stranieri che scontano una condanna già definitiva, i soli sui quali può ricadere l’ipotesi di un trasferimento. Il costo reale del mancato rimpatrio, o se si vuole il conto del risparmio virtuale, arriva dunque a 568 milioni di euro l’anno, un milione e mezzo al giorno.  Un bella cifra nel conto dello Stato che potrebbe essere destinata a costruire nuove strutture, ammodernare quelle esistenti, incentivare forme di rieducazione e reinserimento. Per contro, i detenuti italiani all’estero non superano le tremila unità. Una differenza che rende evidente quanto il saldo degli “scambi” sarebbe a favore dellItalia (e degli italiani). “Non si possono fare deportazioni di massa”, ammoniscono gli esperti di procedura penale, mettendo in guardia da operazioni di macelleria detentiva.
Ma a chi oppone a ogni ragionamento questioni di ordine etico-morale va ricordato che dal 2002 nessuno ha sbarrato la strada ai voli di Stato per il rimpatrio dei clandestini che la Bossi-Fini ha reso – almeno per le modalità operative – del tutto simili alla deportazione coatta, per di più espulsi non per aver commesso un reato penale ma amministrativo (l’ingresso in Italia senza permesso di soggiorno o contratto di lavoro a supporto del reddito). Idem per il reato di clandestinità introdotto nel 2009 col decreto sicurezza. Ci sono poi ragionevoli argomenti per ritenere che in quel terzo di popolazione carceraria composta da stranieri ci possa essere chi preferirebbe – vista anche la condizione dei penitenziari nostrani – ricongiungersi ai propri parenti e scontare la pena nel proprio Paese. Peccato che non succeda mai, salvo rarissimi casi. A 24 anni dalla convenzione di Strasburgo gli accordi sul trasferimento sono rimasti lettera morta, con buona pace del tempo e delle risorse che l’Italia ha dedicato per dibattiti parlamentari, mandati esplorativi di funzionari della giustizia, riunioni e servizi d’ambasciata da una capo all’altro del mondo. 
Il paradosso degli accordi all’italiana Il paradosso è che incentivare lo scambio e la detenzione all’estero non sarebbe una politica di destra o di sinistra ma di buona amministrazione, per di più ancorata e supportata nella sua applicazione da convenzioni e accordi. Con alcune bizzarrie e illogicità di fondo, però. L’Italia, si è detto, ha aderito alla convenzione di Strasburgo dell’83 insieme a 60 Paesi (gli ultimi sono la Russia e il Messico nel 2007). Ha poi stretto accordi bilaterali con altri sette che erano rimasti  fuori dalla convenzione. Ma – attenzione – non con quelli che più pesano sul conto delle carceri. Ricapitolandoli: nel 1998 abbiamo firmato un accordo con l’Avana quando i detenuti cubani sono una cinquantina e poco più, nel 1999 con Hong Kong a fronte di popolazione carceraria prossima allo zero, nel 1984 con Bangkok (ancora oggi si contano due soli detenuti thailandesi). Mancano all’appello, per contro, proprio i Paesi che per nazionalità affollano maggiormente le nostre celle: il Marocco, su tutti, visto che con 4.249 detenuti occupa il secondo posto nella classificazione delle presenze straniere (18,7%). LRomania che occupa il secondo con 3.674 detenuti (16,1%). La Tunisia, al terzo posto, con 2.774 (12,2%). Altri sono pronti da vent’anni, ma per l’inerzia del Parlamento restano lettera morta. Emblematico il caso del Brasile, dove l’accordo è firmato e manca solo il passaggio in aula. Siamo riusciti invece ad accordarci con l’Albania (2.787 detenuti, 12%). Quando è stato sottoscritto, nel 2002, nelle carceri italiane c’erano 2.700 detenuti albanesi, di cui 960 condannati in via definitiva. Trecento dovevano scontare una pena residuale superiore ai tre anni e sarebbero stati i primi a lasciare l’Italia per scontare la pena nelle patrie galere. Un modello che doveva essere, secondo il Guardasigilli di allora Roberto Castelli, esportato in Marocco, Algeria e Tunisia. Cosa mai avvenuta, a distanza di un decennio. Ma quanti albanesi sono stati  poi trasferiti? Impossibile saperlo, come per tutti gli altri detenuti stranieri in Italia.  
Il mistero sui numeri: “Non abbiamo il sistema informatico” I trasferimenti autorizzati  sulla base di quegli accordi sono irrilevanti al punto che non vengono neppure monitorati a fini statistici. Sapere quanti siano è un’impresa impossibile. Le interrogazioni parlamentari sulla questione non hanno mai avuto risposta e anche per le fonti giornalistiche la strada porta dritto a un muro di gomma che fa rimbalzare da un ministero all’altro. Dovrebbe averli il ministero degli Interni ma non è così. “Sono numeri molto modesti a fronte di procedure complesse, per questo non sono sottoposti a monitoraggio statistico e vanno a finire nelle diciture “altro” degli annali giudiziari”, premettono imbarazzati i funzionari del Viminale. “Il detenuto fa domanda al direttore del carcere che la gira al magistrato di sorveglianza che fornisce il suo giudizio e lo trasmette al ministero. Dovrebbero però averli al ministero di Grazia e Giustizia che amministra le pene”. Ma si bussa lì senza maggior fortuna. Il direttore dell’ufficio Affari penali Antonietta Ciriaco fa sapere che il suo ministero non ha neppure il sistema informatico necessario a estrapolarli quei dati, che non si tratta di estradizioni, per cui “una volta che c’è l’accordo internazionale e una sentenza favorevole della Corte d’Appello al trasferimento, è materia del Dap”. Ma anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria cadono dalle nuove. “Noi abbiamo solo dati rispetto a detenzione e scarcerazione, questa storia di chi ha i dati sui trasferimenti va avanti da anni e alla fine le richieste arrivano sempre qui, ma noi non li abbiamo. Avete provato al ministero degli Interni?”. E si ricomincia.
Il saldo delle carceri: 20mila restano, 200 (forse) vanno
Qualche barlume, alla fine, illumina almeno il passato. A margine di uno dei tanti trattati bilaterali il ministero degli Interni nel 2008 fornì, con parsimonia, qualche cifra: nel 2005 il trasferimento delle persone straniere condannate è stato pari a 216, 46 nel 2006, 111 nel 2007 e 87 nel 2008. Si presume che da allora le cose non siano cambiate e che a prendere la frontiera per la carcerazione all’estero siano grosso modo un centinaio di detenuti all’anno. Numeri che rendono bene l’idea di come siano stati tradotti nel nostro Paese la convenzione di Strasburgo e tutta la congerie di accordi bilaterali che negli ultimi vent’anni sono stati annunciati, sottoscritti e celebrati in pompa magna tra convegni, delegazioni e voti in Parlamento.
Alla fine del giro tocca chiedersi anche se la resistenza a fornire dati sul trasferimento – insieme al disinteresse per tracciarli, recuperarli e renderli pubblici – sia del tutto casuale, il frutto accidentale della sovrapposizione di competenze e burocrazie, o se sotto ci sia altro. Il sospetto è che non vengano divulgati perché la loro stessa inconsistenza sarebbe fonte d’imbarazzo per le istituzioni italianeRivela come per vent’anni lo stesso ceto politico che alzava la voce sull’emergenza carceri non è stato capace di utilizzare lo strumento del rimpatrio per alleggerirle. Ancora oggi, del resto, sembra baloccarsi con fantomatici “piani carceri” per i quali non riesce a reperire le risorse e alla fine – messo con le spalle al muro dalla condizione ipertrofica delle celle – si affida all’unico “svuotacarceri” che non comporta costi diretti: un atto di clemenza che consenta alla politica di non fare i conti con la propria storica inerzia. E poco importa se amnistia e indulto alimentano il senso di ingiustizia tra i cittadini incensurati.

mercoledì 9 ottobre 2013

Carceri, messaggio di Napolitano alle Camere: “Servono amnistia e indulto”. -

Carceri, messaggio di Napolitano alle Camere: “Servono amnistia e indulto”

Messaggio alle Camere sulle carceri: "Il sovraffollamento cronico è incostituzionale". Proposti 3 anni di sconto" su tutte le pene e cancellazione dei reati minori. E a beneficiarne sarebbero soprattutto (e ancora una volta) i politici.

Intervenire d’urgenza, anche con rimedi straordinari: cioè amnistia e indulto. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano manda il suo primo messaggio alle Camere dopo 8 anni e mette al centro il dramma del sovraffollamento delle carceri. Una situazione “intollerabile”, dice il capo dello Stato, la cui soluzione è diventata “inderogabile”, che “umilia” il Paese davanti alla comunità internazionale, è “mortificante” e viola pure la Costituzione. Per “garantire i diritti elementari dei detenuti” e soprattutto per eseguire la sentenza della Corte di Strasburgo che ha già condannato l’Italia nel gennaio scorso intimando di risolvere la situazione entro il maggio 2014. Quindi servono misure straordinarie, come le pene alternative al carcere, ma bisogna fare presto e quindi si dovrà ricorrere – se serve – anche ai provvedimenti di clemenza che potrà decidere il Parlamento: amnistia e indulto. Parole che immediatamente accendono lo scontro sui possibili benefici per il pregiudicato Silvio Berlusconi e innescano uno scontro durissimo tra il presidente e il Movimento Cinque Stelle
Il messaggio alle Camere del capo dello Stato, dunque, è destinato a diventare l’ennesimo ring sul quale sono destinati a salire i partiti in lotta tra loro, maggioranza o opposizione che siano. Napolitano pone al Parlamento “con determinazione e concretezza la questione scottante” dell’emergenza dei penitenziari e Napolitano aggiunge di dover “mettere in evidenza come la decisione della Corte di Strasburgo rappresenta la mortificante conferma della perdurante incapacità del sistema italiano di garantire i diritti elementari e la sollecitazione pressante ad imboccare una strada efficace”. I dati ufficiali sulla popolazione carceraria, ricorda il presidente, parlano nel 2011 di 64.758 detenuti in carcere con una capienza di 47.615 posti. ”L’Italia – ha spiegato il capo dello Stato – viene a porsi in una condizione umiliante sul piano internazionale per violazione dei principi sul trattamento umano dei detenuti”.
“Le istituzioni e l’opinione pubblica – spiega ancora il presidente della Repubblica – non possono scivolare nell’indifferenza convivendo con una realtà di degrado civile e sofferenza umana”. Per evitare questo sono “necessari immediati rimedi straordinari”, quindi è “opportuno” varare contemporaneamente un provvedimento di amnistia e uno di indulto, perché questo “permetterebbe di conseguire rapidamente i seguenti risultati positivi: l’indulto avrebbe immediato effetto di ridurre popolazione carceraria”, mentre “l’amnistia permetterebbe di estinguere procedimenti per fatti bagatellari”, e con ciò “permetterebbe di ridurre i tempi di custodia cautelare”.
“Amnistia e indulto, ma anche strumenti alternativi”
Napolitano spinge a fondo sulla necessità di utilizzare più strumenti, a partire, con le loro peculiarità, dall’indulto e l’amnistia ma perseguendo anche innovazioni di carattere strutturale e puntando sull’aumento della capienza complessiva degli istituti penitenziari. Tra i rimedi che indica anche una “decisiva depenalizzazione” oltre all’applicazione di pene alternative alla cella: domiciliari o servizi sociali, per esempio. Ma anche “messa alla prova come pena principale”, con la possibilità di iniziare “da subito un percorso di reinserimento” e “riduzione dell’area applicativa della custodia cautelare in carcere”.  Per gli stranieri, inoltre, la possibilità di scontare la pena nei loro Paesi d’origine.
Resta però che “il combinato disposto di amnistia e indulto potrebbe favorire una significativa riduzione della popolazione carceraria”. Il capo dello Stato chiarisce che l’indulto inciderà sulla popolazione carceraria mentre l’amnistia può accelerare i tempi della giustizia e incidere anche sulla custodia cautelare. Quanto all’amnistia, scrive il Quirinale, “di fronte agli obblighi costituzionali e ad un imperativo morale e giuridico penso sia venuto il momento di rivedere le perplessità sull’adozione di atti di clemenza generali. Sull’amnistia non ritengo che il presidente della Repubblica possa indicare la perimetrazione della legge di clemenza, cosa che rientra nelle esclusive competenze del Parlamento e di chi eventualmente avanzerà una proposta di legge in materia”. “Fermo restando l’esclusione dall’amnistia dei reati di particolare allarme sociale come la violenza contro donne – aggiunge Napolitano – non ritengo che il capo dello Stato debba indicare le singole fattispecie da escludere: la perimetrazione dell’amnistia rientra nelle competenze esclusive Parlamento”.
“Risolvere la questione è una necessità inderogabile”
Ad ogni modo – precisa il presidente – quale che sia, serve un intervento d’urgenza, spiega Napolitano. “Sottopongo all’attenzione del Parlamento – scrive il presidente della Repubblica – l’inderogabile necessità di porre fine ad uno stato di cose che ci rende corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo. Esse si configurano come un’inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento si cui si basa l’integrazione europea”. La sentenza pilota della Corte europea da cui è partito Napolitano è quella che nel maggio scorso ha condannato l’Italia a risolvere, entro il maggio prossimo, il problema del sovraffollamento negli istituti di pena e a prevedere i rimborsi per i detenuti vittime del problema. L’Italia non può più opporsi in alcun modo alla richiesta che le viene dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, perché la Corte di Strasburgo ha rigettato il suo appello, confermando il verdetto contro l’Italia che aveva già emesso l’8 gennaio scorso. Nella sentenza i giudici condannano l’Italia per aver sottoposto 7 detenuti del carcere di Busto Arsizio e di Piacenza a condizioni inumane e degradanti: condividevano celle di 9 metri quadri con altri due carcerati e non avevano sempre accesso alle docce dove spesso mancava l’acqua calda. La Corte oltre ad aver condannato l’Italia a risarcirli con quasi 90mila euro, ha dato al governo un anno di tempo per risolvere il problema del sovraffollamento dei penitenziari.
Amnistia, indulto e gli effetti sul caso Berlusconi
Resta da capire come un atto di clemenza possa incidere sulle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. Per quanto riguarda l’amnistia, disciplinata dall’articolo 151 del codice penale, “estingue il reato, e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie” e, per effetto e nei limiti dell’articolo 210 dello stesso codice, “impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione”. Pertanto un’amnistia potrebbe risolvere in parte i problemi giuridici del leader del Pdl, almeno per quanto riguarda la condanna passata in giudicato relativa ai 4 anni per la frode fiscale nel processo Mediaset. Rimarrebbero scoperti però gli altri processi in dirittura d’arrivo. L’indulto invece è “causa generale di estinzione della pena, che condona in tutto o in parte la sanzione inflitta con la sentenza di condanna, ovvero la commuta in pena di specie diversa”. Questo provvedimento quindi non cambierebbe la situazione di Berlusconi per quanto riguarda la decadenza da senatore. Si tratta comunque di due atti di clemenza generali, ad efficacia retroattiva e, come tali, si distinguono dalla grazia che, invece, è un provvedimento individuale. 
I provvedimenti di clemenza e i benefici per la politica
Il rischio è che a beneficiare dei provvedimenti di clemenza collettiva non saranno solo i detenuti che soffrono in carcere del sovraffollamento ben oltre i limiti della decenza. Ma anche e soprattutto i “colletti bianchi“, quelli che in galera sono stati mai e che quindi potrebbero non andarci mai. Per parlare ancora più chiaro: coloro che hanno un’inchiesta in corso partirebbero da “meno 3 anni” (almeno secondo il suggerimento del Quirinale) da togliere alla pena che rischiano. I reati contestati ai politici solitamente sono corruzione, concussione, abuso d’ufficio, peculato. Questo significa che – quando va bene – con sentenze da 6 anni in su potrà accadere che non si sconterà neanche un giorno di carcere. Questo mentre sono una quarantina i parlamentari sotto inchiesta o sotto processo, mentre si trovano nella stessa situazione centinaia di consiglieri comunali, provinciali e soprattutto regionali (in carica o ex) dopo gli scandali sull’uso improprio dei fondi destinati ai gruppi consiliari nelle varie Regioni.
Leghisti scuotono la testa, Cinque Stelle non applaudono
Appena le parole amnistia e indulto sono risuonate nell’Aula della Camera e del Senato (lette dai presidenti Laura Boldrini e Piero Grasso) si è subito capito che il tema sarebbe diventato il nuovo motivo di scontro tra le forze politiche. I deputati leghisti hanno scosso la testa. Il capogruppo Giancarlo Giorgetti si è messo le mani alla fronte. Applausi invece dai banchi del Pdl. “E’ il primo passo verso l’amnistia a Berlusconi con la scusa di risolvere il sovraffollamento delle carceri” scrive subito il capogruppo uscente della Camera del Movimento Cinque StelleRiccardo Nuti su facebook. E i deputati di M5S non hanno applaudito al termine della lettura del messaggio a Montecitorio. E’ stato solo l’inizio dell’ennesima bufera politica. I partiti di maggioranza definiscono il discorso di Napolitano di alta levatura, i Cinque Stelle e la Lega vanno all’attacco. Tanto che alla fine è lo stesso Napolitano a perdere la pazienza: “Chi pensa sia un provvedimento pro-Berlusconi se ne frega dei problemi del Paese”.
Primo messaggio alle Camere in 8 anni
Il messaggio sullo stato delle carceri consegnato alle Camere è il primo in 8 anni per il presidente Napolitano. L’inquilino del Quirinale aveva concluso il primo settennato senza alcun messaggio. A pochi mesi dalla sua rielezione al Quirinale ha scelto di inviare al dibattito parlamentare un messaggio su un tema particolarmente che è quello del sovraffollamento delle carceri. Si tratta del suo primo messaggio al Parlamento in quasi otto anni di permanenza al Quirinale. Una mossa inaspettata ma che nasce da lontano. Da tempi non sospetti Napolitano si interessa al degrado carcerario e chiede alle forze politiche di interessarsi al problema nonostante la difficoltà che presenta il varo di un provvedimento – amnistia o indulto – che necessita di una maggioranza di due terzi del Parlamento. Di recente il presidente della Repubblica era tornato con forza sul tema. “Pongo al Parlamento un interrogativo – aveva detto il capo dello Stato durante la visita al carcere di Poggioreale - se esso ritenga di prendere in considerazione la necessità di un provvedimento di clemenza, di indulto e di amnistia”. Sono 11 anni che le Camere non aprivano un dibattito su un messaggio presidenziale: l’ultimo fu infatti nel 2002 quando Carlo Azeglio Ciampi investì le Camere del tema della libertà di informazione. L’anno successivo peraltro arrivò sulla scrivania dell’allora presidente la legge Gasparri sulle telecomunicazioni e Ciampi la rispedì alle Camere.
E uno, a 88 anni, scrive alle camere un messaggio di 9 pagine?
Per una questione che si protrae da minimo 10 anni?
Si è svegliato adesso o lo hanno fatto svegliare?
Inqualificabile, inoltre, il suo attacco ad una componente del parlamento votata da milioni di persone.
Esigo rispetto! E quando non lo ricevo, non lo rendo!