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sabato 18 maggio 2019

Elezioni europee, sfida su Facebook: Salvini spende più di tutti, M5S (quasi) assente. - Marco Lo Conte

Tanto Salvini, quasi altrettanto il Pd, Movimento 5 Stelle pressoché zero. E poi Berlusconi, con un gran numero di post sponsorizzati ma targettizzati poco. È in sintesi la fotografia delle campagne elettorali in vista delle elezioni europee del prossimo 26 maggio, scattata da Facebook che ha deciso di fornire piena trasparenza sulle sponsorizzazioni dei post pubblicati sulla propria piattaforma. Da cui emerge chi ha speso di più e meglio, per attirare l'attenzione degli elettori in queste ultime settimane cruciali per l'esito elettorale.

Perché, per chi non lo sapesse, ciò che guardiamo magari distrattamente sui social arriva sul nostro profilo perché magari qualcuno ha pagato del denaro affinché quel messaggio politico ci venisse sottoposto, considerandoci un “target” interessante ai fini elettorali (Facebook offre un livello di precisione in questo senso del 90%).

La ragione è nota: gli italiani trascorrono in media 6 ore e 42 minuti connessi a Internet, di cui due ore e un quarto da smartphone. Inevitabile che questo sia diventato il terreno in cui conquistare consenso politico, tralasciando i desueti cartelloni pubblicitari, desolatamente vuoti in questi giorni. 

Complessivamente dal marzo scorso ad oggi, sono stati spesi su Facebook 868.254 euro per promuovere 16.772 post legati alle elezioni europee. Questo è il dato offerto dalla piattaforma fondata da Mark Zuckerberg, che mostra il pubblico di riferimento coinvolto da ciascun post, distinti per classi di età, genere e regione, oltre al denaro stanziato. Una trasparenza che ha fatto seguito allo scandalo Cambridge Analytica, che ha intaccato l'immagine e messo in difficoltà Facebook, dopo che in occasione delle presidenziali Usa e del referendum su Brexit, erano state sponsorizzate dall'estero centinaia di pagine che veicolavano talvolta messaggi contenenti fake news.

Ora le parole d'ordine per il social seguito nel mondo da oltre 2 miliardi di persone – 34,8 milioni solo in Italia, oltre ai 23,4 della controllata Instagram –sono rimuovereridurreinformare: una volta identificate (Pagella Politica collabora in Italia su questo tema con Facebook) le fake news vengono cancellate, le campagne devono essere certificate e se non rispettano le regole indicate nel disclaimer vengono ridotte e le somme investite restituite (all'80%).

Gli investimenti quantitativamente maggiori riguardano Matteo Salvini, per il quale la Lega ha speso poco meno di 78mila euro, di cui 43.500 solo nell'ultima settimana. Da registrare l'effetto prodotto nei differenti target dai differenti messaggi politici: post come “Stavolta voto Lega!” è stato distribuito dall'algoritmo di Facebook in particolare tra le donne over45 con forte prevalenza nelle regioni del Centro-Sud (Sicilia 16%, Lazio 13%, Campania 13%), analogamente a “Salvini ha fermato la mangiatoia dell'immigrazione”.



Molto visto soprattutto tra le donne il post sponsorizzato (con il budget maggiore, fino a 5mila euro) sulla castrazione chimica (“Il 58% degli italiani è favorevole”, recita il post), distribuito in modo più uniforme a livello territoriale; mentre ha incontrato l'interesse prevalentemente giovane e maschile il post l'immagine di un giovane di colore che affronta un vigile urbano (“Se non avessi questa divisa”): la Campania, la regione in cui si è rivelato più popolare, almeno per il periodo in cui è stato visibile, prima di essere bloccato da Facebook. Da registrare come invece sia stato rimosso da Facebook il famoso post sponsorizzato del VinciSalvini, il gioco messo in campo dallo staff del leader della Lega, popolare in larga parte tra gli uomini under44, in base alla normativa di Facebook.

Il Partito Democratico ha stanziato finora 73mila euro (26mila circa nell'ultima settimana) per sponsorizzare i post del suo segretario, Nicola Zingaretti. Da registrare il cartellino giallo di Facebook che ha segnalato il ritardo nell’adeguamento alle policy di pubblicazione (per una somma pari alla metà dello stanziamento circa). Molti i post del Pd, anche se con cifre basse, ad eccezione di “Una nuova Europa per andare #avantitutti”, per cui sono stati stanziati 5mila-10mila euro, coinvolgendo un pubblico soprattutto di uomini over45.



Tra i 500 e i mille euro il post sull'indennità europea di disoccupazione che, come prevedibile, ha raggiunto soprattutto gli uomini giovani, ma in modo rilevante anche uomini e donne over55. Appena presente invece Carlo Calenda, capolista Pd nel nord est: l'ex ministro, particolarmente attivo su Twitter, ha sponsorizzato pochi post sulla piattaforma più seguita, rivolgendosi in particolare agli uomini giovani e, in un caso, unicamente agli abitanti del Trentino Alto Adige. 

Meno efficace la campagna dell'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che ha sponsorizzato quasi 400 post, ciascuno però con budget particolarmente basso: complessivamente sono stati spesi 66mila euro, di cui 16mila nell'ultima settimana, parcellizzati in un pulviscolo di messaggi. Da segnalare la forte targettizzazione di alcuni post di Silvio Berlusconi, che ha puntato in modo netto sugli over45, escludendo nella campagna i più giovani.



Insieme al fondatore, da registrare un post sponsorizzato da Forza Italia riguardante il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, targhettizzato a livello regionale: il 57% degli utenti raggiunti, infatti, risiede in Lazio, gli altri lettori del post sono in Toscana, Marche e Umbria.

Sempre nel centro destra, sono da segnalare i numerosi post di Giorgia Meloni, sponsorizzati complessivamente per 17mila euro (8mila nell'ultima settimana) da Fratelli d'Italia. Numerosi, ma in gran parte uguali tra loro, il che non migliora la comunicazione meno efficace nel raggiungimento dei target di riferimento. Da notare la forte prevalenza di pubblico maschile coinvolto da questi post e la bassissima percentuale di lettrici donne, ad eccezione del post “Casa diritto di tutti”. 

Per un movimento nato sulla rete può apparire un paradosso, ma per questa competizione elettorale le pagine del MoVimento 5 Stelle non hanno messo in campo alcuna sponsorizzazione su Facebook. Effetto anche del cambio di passo comunicativo che il M5S ha messo in campo ormai da tempo, con una sterzata “moderata” (in concomitanza con l'arrivo di Augusto Rubei ai vertici della comunicazione del movimento). Di fatto sui social la comunicazione dei grillini è solo organica e sponsorizzati sono solo alcuni post di singoli candidati. 

Non solo i partiti: Facebook stessa ha stanziato in Italia circa 62mila euro per due post “istituzionali” in vista delle elezioni europee. Ma la parte più consistente degli investimenti pubblicitari di post politici su Facebook è stata realizzata dal Parlamento europeo: 200mila euro, poco meno di un quarto del totale, per una campagna istituzionale che è iniziata molto mesi fa e che in molti casi è stata mirata ai giovanissimi che si recano alle urne per la prima volta.



https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-05-17/elezioni-europee-sfida-facebook-salvini-spende-piu-tutti-m5s-quasi-assente-182704.shtml?uuid=ACuarBE

venerdì 17 maggio 2019

Finanziamenti ai partiti: a +Europa 200mila euro da Soros e moglie, milioni a Forza Italia da Berlusconi e famiglia.

Finanziamenti ai partiti: a +Europa 200mila euro da Soros e moglie, milioni a Forza Italia da Berlusconi e famiglia

Su Repubblica i versamenti ai principali partiti. Il gruppo industriale dell'ex ministra Guidi nel 2018 ha finanziato Lega e Alternativa popolare, ma anche esponenti di Forza Italia, Pd e Fdi. Guido Alpa, ex socio di Conte, ha donato 5mila euro al dem Orlando.

Forza Italia sorretta dai capitali della famiglia BerlusconiFininvest ed Ennio Doris, la Lega e la sinistra finanziate dalle aziende e +Europa di Emma Bonino che ha ricevuto 100mila euro di finanziamento da Soros. Tutto lecito e trasparente, anche se il registro per potere consultare in tempo reale le donazioni – che devono essere pubbliche oltre il tetto dei 3mila euro – a tutt’oggi non esiste. Repubblica spiega di avere ottenuto dati dalla banca dati di Montecitorio dopo un percorso tortuoso, durato giorni tra la richiesta alla Tesoreria e l’attesa di una risposta. Una risposta che alla fine è arrivata e dalla quale emergono nomi e cognomi dei finanziatori più importanti del panorama politico italiano. Incluse alcune sorprese, pur tenendo ben presente che la maggior parte dei finanziamenti non passa dal Parlamento ma confluisce “in associazioni, fondazioni spesso di comodo dove la trasparenza è un optional e l’opacità la regola”.
Venendo alle sorprese, la prima riguarda Guido Alpa: l’ex socio dello studio legale col presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha scelto di donare 5mila euro all’ex ministro dem Andrea Orlando e a nessuno dei due partiti al governo. A incassare somme importanti da pochi ma illustri finanziatori è + Europa di Emma Bonino che può vantare 100mila euro da George Soros, altrettanti da sua moglie Tamika Bolton e 30mila da Guido Maria Brera, amministratore del gruppo di private banking Kairos. Tra tutti i finanziatori spicca Peter Baldwin, filantropo nel board della Wikimedia Foundation nonché suo grande benefattore, che in tutto ha versato 516mila euro così suddivisi: 100mila a +Europa, 260mila al segretario del partito Benedetto Della Vedova e 156mila al braccio destro di Bruno TabacciCarlo Romano. Con Soros, ha detto Emma Bonino parlando con Corriere Tv, “ci siamo trovati, prima della caduta del Muro, a sostenere i dissidenti dell’epoca e dopo la caduta del Muro la sua attività a sostegno della democrazia e della società aperta ha permesso di portare a casa battaglie di libertà come il Tribunale penale internazionale. Ma è tutto chiaro e trasparente, pubblicato sui bilanci”.
Passando invece a Forza Italia, negli ultimi cinque anni Silvio Berlusconi ha versato ben 100 milioni di euro, mentre i suoi figli tra il 2015 e il 2016 hanno versato un milione: 200mila Marina, Piersilvio, Luigi e suo fratello Paolo e 100mila da Eleonora e Barbara. Stessa cifra, quest’ultima, data cinque anni fa da Ennio Doris e dai suoi figli Sara e Massimo, nonché da Bruno Ermolli, consigliere Fininvest. Un’azienda che, per parte sua, ha contribuito “con mezzo milione dal 2014 a oggi”. Guardando sempre al centrodestra ma al fronte leghista, il partito di Salvini e le sue diramazioni incassano decine di migliaia di euro da un variegato ventaglio di imprese: Vaporart (100mila euro), Carbotermo spa (15mila), ConsorzioGisa (45mila euro) e nel comparto agricolo la Biogreen (30mila), Giulia Srl di Ormello(10mila), Confagricoltura Roma (25mila) e Now, “azienda inaugurata dal vicepremier e finita nell’inchiesta dei 49 milioni che alla Lega Liguria ha donato 67mila euro. Nell’area di centrosinistra, invece, il gruppo della ex ministra allo Sviluppo Economico Federica Guidi, tramite la sua controllata Telefin, ha dato 25mila euro alla Lega e 20mila a Carfagna e La Russa. Nello stesso gruppo invece Ducati energia ha guardato a sinistra e donato 10mila euro a Boschi, Ferri e Madia. Stessa cifra che il gruppo emiliano Cremonini ha dato a Bernini, Martina e Alfano.

sabato 16 marzo 2019

Caso Ruby, morta la teste Imane Fadil per “mix di sostanze radioattive”. La procura di Milano indaga per omicidio.


Risultati immagini per Imane Fadil

La modella marocchina aveva 34 anni: il decesso all'Humanitas di Rozzano, Milano, dopo trenta giorni di ricovero. "Un mese di agonia", lo hanno definito gli investigatori. Il pm Greco: "Nella cartella clinica ci sono anomalie. Abbiamo disposto l'autopsia". Gli esiti degli esami tossicologici sono arrivati il 6 marzo, cinque giorni dopo la morte, e sono stati trasmessi alla Procura di Milano. Sequestrate le bozze del libro che la donna stava scrivendo. Poche settimane fa aveva chiesto di costituirsi parte civile al Ruby ter, dove Berlusconi è accusato di corruzione in atti giudiziari.

È morta dopo un lungo ricovero in ospedale per un “mix di sostanze radioattive”. Sostanze, però, diverse dal polonio. E prima di morire ha telefonato al fratello e all’avvocato, per dire la stessa identica frase: “Mi hanno avvelenato“. È un vero e proprio mistero quello legato alla morte di Imane Fadil, modella marocchina di 34 anni, testimone del processo Ruby ter, che vede tra gli imputati l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Due mesi fa aveva chiesto di costituirsi parte civile: richiesta rigettata dai giudici. La procura di Milano ha aperto un’indagine per omicidio volontario e sono stati gli esiti degli esami tossicologici disposti lo scorso 26 febbraio dai medici dell’Humanitas di Rozzano, dove era ricoverata, ed effettuati in un centro specializzato di Pavia a evidenziare che la donna è deceduta a causa di un “mix di sostanze radioattive”. Gli esiti, scrive l’Ansa, sono arrivati il 6 marzo e trasmessi immediatamente dallo stesso ospedale alla Procura di Milano.
Disposta autopsia: “Sintomatologia da avvelenamento” - In ospedale era arrivata il 29 gennaio. Per trenta giorni esatti è rimasta ricoverata. “Un mese d’agonia“, lo hanno definito gli investigatori. Poi l’uno marzo la morte, per cause ancora tutte da accertare. La notizia, infatti, è stata diffusa soltanto oggi, direttamente dal procuratore capo di Milano, Francesco Greco. È lo stesso capo dell’ufficio inquirente lombardo a spiegare che la giovane aveva detto ai suoi familiari e avvocati che temeva di essere stata avvelenata. Nella cartella clinica di Fadil, spiega Greco, ci sono “più anomalie” e per capire la causa esatta della morte “è stata disposta l’autopsia, che dovrebbe essere seguita a breve”. Ma visto il risultato degli esami tossicologici, i tempi per effettuarla sono tutti da verificare, visto che le sostanze rilevate potrebbero mettere in pericolo i medici stessi.
La procura ha riferito di essere stata informata del decesso solo la settimana scorsa, quando l’avvocato di Fadil si è rivolto alla magistratura. “I medici della clinica non hanno avvisato la procura del decesso”, ha detto il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, titolare dell’inchiesta. Ma in serata in una nota l’Humanitas ha spiegato: “Al decesso della paziente, il 1 marzo scorso, l’Autorità Giudiziaria ha disposto il sequestro di tutta la documentazione clinica e della salma. Il 6 marzo, Humanitas ha avuto gli esiti tossicologici degli accertamenti richiesti, lo ha prontamente comunicato agli inquirenti”. L’ospedale ha poi precisato di avere messo “in campo ogni intervento clinico possibile per la cura e l’assistenza” della giovane. Stando a quanto ricostruito, i medici dell’Humanitas dopo aver effettuato sulla giovane tutti gli esami generali possibilipoiché continuava lo stato di sofferenza e di agonia, il 26 febbraio scorso hanno deciso di disporre accertamenti tossicologici ad ampio spettro, che sono stati effettuati in un centro tossicologico specializzato di Pavia. Il primo marzo la giovane è morta e, da quanto si è saputo, quello stesso giorno sono state sequestrate le cartelle cliniche. Il 6 marzo è arrivato il referto tossicologico che parlava di sostanze radioattive, immediatamente trasmesso dall’ospedale all’autorità giudiziaria. La ragazza era risultata anche  negativa agli esami che le erano stati effettuati per capire se facesse uso di sostanze stupefacenti.
Secondo le indagini, la modella era stata ricoverata prima in terapia intensiva e poi rianimazione: è stata vigile fino all’ultimo, nonostante i forti dolori e il “cedimento progressivo degli organi”. “Non c’è una diagnosi precisa sulla morte – ha detto l’aggiunto Siciliano –  ma dalle analisi emerge una sintomatologia da avvelenamento“. A quanto si apprende da fonti vicine alla struttura ospedaliera, inoltre, la ragazza non si è mai ripresa durante tutta la degenza: le cure non hanno avuto l’esito sperato. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, titolari dell’indagine, hanno sentito testimoni fino a tarda sera, incluso i medici curanti della giovane.
“Ha detto di essere stata avvelenata” – “Sono in corso gli accertamenti sui campioni di sangue prelevati durante il ricovero – spiega Greco – non si può escludere nessuna pista visto che dalla cartella clinica non emerge nessuna malattia specifica“. La giovane riferiva di gonfiori e dolori al ventre. “Fadil – ha detto il procuratore di Milano – durante il ricovero ha telefonato ad alcune persone, il fratello e l’avvocato, sostenendo di essere stata avvelenata. Stiamo sentendo i testimoni, verranno sentiti anche i medici dell’Humanitas, e abbiamo disposto l’acquisizione dei suoi oggetti personali”. Come per esempio il libro che la modella stava scrivendo: la procura ha sequestrato le bozze di quel manoscritto. Quel libro, però, non sembra contenere elementi interessanti a spiegare il decesso della giovane.
L’ospedale: “Abbiamo riferito agli inquirenti” – Greco ha spiegato che mai nelle settimane in cui la ragazza era ricoverata e nemmeno il giorno della morte, l’ospedale aveva comunicato alcunché alla magistratura, sebbene non fossero state individuate le cause della morte e non ci fosse una diagnosi certa sul decesso. Con una nota l’ospedale Humanitas ha voluto precisare che “la paziente è stata ricoverata lo scorso 29 gennaio in condizioni cliniche molto gravi. È stata presa in carico da una équipe multidisciplinare che ha messo in campo ogni intervento clinico possibile per la cura e l’assistenza della paziente, compresi tutti gli approfondimenti diagnostici richiesti dai curanti”. Al decesso della paziente, si legge ancora nel comunicato, “il 1 marzo scorso, l’Autorità Giudiziaria ha disposto il sequestro di tutta la documentazione clinica e della salma. Il 6 marzo, Humanitas ha avuto gli esiti tossicologici degli accertamenti richiesti, lo ha prontamente comunicato agli inquirenti”. Per rispetto della privacy e dell’indagine in corso, “Humanitas non rilascerà ulteriori commenti su nessun aspetto di questa vicenda”.
L’avvocato: “Era sofferente ma lucida” – “Imane durante il mese di ricovero alla clinica Humanitas era sofferente ma mentalmente era lucida ed è rimasta lucida fino alla fine”, ha raccontato l’avvocato Paolo Sevesi, legale della modella. È Sevesi che ha accompagnato il fratello di Imane in procura dopo la morte della ragazza. “Che sostanza poteva essere ad averla avvelenata? Ci sono diverse ipotesi che sono al vaglio della Procura”, ha spiegato il legale. Che poi ha aggiunto: “Ho letto il libro che aveva scritto Imane sul caso Ruby ma non so se avesse trovato un editore. Di sicuro l’aveva terminato diversi mesi fa. Conoscendo la situazione e conoscendo bene Imane, io una mia idea me la sono fatta, ma ci sono delle indagini in corso e di più non posso dire”.
La testimonianza al processo – La giovane, insieme ad Ambra Battilana e Chiara Danese, aveva raccontato agli inquirenti delle cosiddette “cene eleganti” di Arcore, cioè le serate hot passate alla storia come il bunga bunga. Fadil aveva partecipato a otto di quelle cene. Qualche tempo dopo si era presentata in procura, diventando testimone del caso Ruby. Le tre ragazze, che avevano chiesto di costituirsi come parte civile, erano però state escluse dal filone principale del processo Ruby ter perchè i giudici della settima sezione penale, davanti ai quali si celebra la tranche principale del processo che vede imputati Berlusconi e altre 27 persone per corruzione in atti giudiziari, (compresa Karima El Mahroug e molte altre olgettine che avrebbero testimoniato il falso), avevano ritenuto che i reati contestati non ledessero direttamente le tre ragazze, ma ‘offendessero’ lo Stato. Imane, Ambra e Chiara avevano anche intavolato una trattativa con la senatrice di Forza Italia, Maria Rosaria Rossi, fedelissima di  Berlusconi, per un risarcimento in sede stragiudiziale. Da indiscrezioni era trapelato che avessero chiesto danni per 2 milioni di euro. L’accordo, però, non era stato raggiunto e le trattative erano saltate. Le tre ragazze, a quel punto, avevano chiesto di costituirsi parte civile anche in una altro filone del processo, che vede imputati Berlusconi e la showgirl Roberta Bonasia, pendente davanti ai giudici della quarta sezione penale e che presto verrà riunito con quello principale. A margine di una delle udienze, a cui non mancava mai, la modella 34enne aveva raccontato che stava scrivendo un libro sulle “cene eleganti“.
L’intervista al Fatto: “Ad Arcore setta che adora il demonio” – Di quel libro aveva parlato anche in un’intervista al Fatto Quotidiano dell’aprile scorso. “Voglio raccontare tutto. La cosa non si limita a un uomo potente che aveva delle ragazze. C’è molto di più in questa storia, cose molto più gravi”. La modella sosteneva di avere lasciato Arcore dopo aver ricevuto una proposta indecente. Dopo poco tempo era diventata una testimne dell’accusa. Al Fatto, però, Fadil aveva raccontato anche dettagli mai resi in tribunale. “Questo signore fa parte di una setta che invoca il demonio. Sì lo so che sto dicendo una cosa forte, ma è così. E non lo so solo io, lo sanno tanti altri, che in quella casa accadevano oscenità continue. Una sorta di setta, fatta di sole donne, decine e decine di femmine complici”, era un altro passaggio del suo racconto. In cui diceva di aver “visto presenze strane, sinistre. Io sono sensitiva fin da bambina: da parte di mio padre discendo da una persona che è stata santificata e le dico che in quella casa ci sono presenze inquietanti. Là dentro c’ è il Male, io l’ho visto, c’è Lucifero“. Accuse gravi, sulle quali sosteneva di avere le prove. Che sarebbero state esibite, a suo dire, presto. “Non manca molto, devo solo finire questo libro. E poi il mondo saprà”.
Il caso dell’ex avvocato di Ruby – Recentemente, tra l’altro, il caso Ruby era tornato al centro della cronaca quando il procuratore aggiunto Siciliano e il sostituto Luca Gaglio avevano ascoltato come persona informata sui fatti la socia di studio dell’avvocato Egidio Verzini, morto col suicidio assistito in Svizzera il 5 dicembre, dopo che il giorno precedente aveva raccontato, in un comunicato affidato all’Ansache Berlusconi avrebbe versato 5 milioni di euro a Karima El Mahroug, con i soldi transitati da Antigua in Messico. Verzini fu legale di Ruby nel 2011. La sua socia di studio ha confermato che il legale decise di fare quelle rivelazioni per una “esigenza di giustizia” e per un “dovere etico“, come da lui stesso scritto nel comunicato, ma che lei non sapeva altro su questa sua scelta. Verzini era già stato sentito quattro volte nel corso delle indagini, avvalendosi più volte del segreto professionale: era anche un teste dell’accusa nel processo in corso. Nel comunicato diffuso un giorno prima di morire parlò di “un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Antigua Commercial Bank su un conto presso una banca in Messico”, sostenendo che la “operazione Ruby” sarebbe stata “interamente diretta dall’avvocato Ghedini con la collaborazione di Luca Risso”, ex compagno di Karima. Lo storico legale di Berlusconi aveva annunciato querela. Nell’ultima riga del comunicato Verzini aveva scritto di essere “in possesso di ulteriori elementi ed informazioni documentate“. Ed è proprio su questo aspetto, ossia sulla ricerca di carte e documenti per trovare riscontri alle sue dichiarazioni, che si stanno concentrando le indagini in corso dei pm, i quali poi depositeranno gli atti dei nuovi accertamenti nel dibattimento in corso. Il processo ha al centro i milioni di euro che l’ex premier avrebbe versato a Ruby e alle ‘Olgettine’ per ottenere il silenzio o la reticenza sulle serate ad Arcore. A quel processo Imane Fadil voleva costituirsi parte civile. Poi il 29 gennaio è finita in ospedale: stava male, sosteneva di essere stata avvelenta. È morta dopo un mese di agonia.

venerdì 9 febbraio 2018

Elezioni, non c’è la maggioranza? I Responsabili li porta il Pd I candidati ex di Berlusconi pronti a un governo (qualsiasi). - Diego Pretini

Elezioni, non c’è la maggioranza? I Responsabili li porta il Pd I candidati ex di Berlusconi pronti a un governo (qualsiasi)

Nelle liste del centrosinistra almeno 20 tra ex Pdl, ciellini, ex seguaci di Cuffaro, Lombardo e Musumeci. Facili da convincere nel caso di larghe intese. O addirittura sensibili al richiamo alla "casa madre".

Coi baffi posticci come in un romanzo di Agatha Christie. Col volto travisato come in Point Break. Ciellini per scuola e curriculum, berlusconiani accaniti, ex compari di Cuffaro, ex sodali di Raffaele Lombardo, ex collaboratori di Saverio Romano, ex campioni di preferenze per il Pdl, e poi democristiani devotissimi, socialisti col garofano, avvocati di Berlusconi ex soci di Ghedini. Hanno indossato le nuove maschere e ricominciano a respirare. Il Partito Democratico li ha fatti accomodare, fate come foste a casa vostra. Col rischio di diventare un taxi, di portarsi dentro un virus trojan. Ilfattoquotidiano.it ne ha contati almeno 20: ex duri e puri berlusconiani, casiniani, alfaniani. A loro se ne possono aggiungere altri 7-8 che, pur avendo abbandonato il centrodestra da un po’ o magari avere da tempo garantito lealtà ai governi delle intese medio-larghe, in quell’area sono nati all’alba del berlusconismo e sotto quella stella sono cresciuti in Parlamento. Hanno il pedigree dei Responsabili, il partito che non manca mai lo sbarramento. Al primo occhiolino, al primo richiamo dalla casa madre, al primo posto in un cda, non si farebbe fatica a vedere garantito il pacchetto di voti (20-25) che, secondo i sondaggi, mancano al centrodestra per formare una maggioranza. D’altra parte – per strategia o per conseguenza – si riconosce di nuovo in filigrana l’operazione fortino di Renzi: portare in Parlamento chi di certo limiterà i mugugni, le resistenze, anche in caso di “momenti di responsabilità istituzionale”. Chi c’è di più facile da convincere di un ex berlusconiano nel caso di un patto con Berlusconi?
Di molti di loro ilfatto.it ha già parlato. Dal collegio di Rozzano, vicino a Milano, fino a Trapani: alcuni devono sudarsela nei collegi uninominali, altri – comodi come su un sofà – in cima ai listini proporzionali, altri ancora un po’ più impanicati perché sono nei listini, sì, ma in fondo.
A partire dai candidati di Civica Popolare, il partitino guidato da Beatrice Lorenzin. A parte la ministra della Salute (un tempo leader dei giovani forzisti), ci sono Sergio Pizzolante (per tre volte legislature parlamentare del Pdl), ma anche i ciellini Gabriele ToccafondiAngelo Capelli e Paolo Alli (quest’ultimo per anni braccio destro dell’ex governatore Roberto Formigoni). C’è anche Domenico D’Ascola detto Nico, ex avvocato dell’ex presidente della Calabria Giuseppe Scopelliti e dell’ex ministro Claudio Scajola, ma anche di Giampaolo Tarantini. D’Ascola è stato anche socio di studio di Niccolò Ghedini, oltre ad essere stato sempre su posizioni vicine a quelle di Jole Santelli, già sottosegretaria alla Gustizia nel governo Berlusconi. Su Guido Viceconte, invece, i dubbi sono proprio pochi: fu eletto europarlamentare di Forza Italia per la prima volta nel 1994. Da allora ha fatto il sottosegretario in due governi Berlusconi, prima dal 2001 al 2006 (ai Trasporti) e poi dal 2009 al 2011 (prima all’Istruzione poi all’Interno, è eclettico).
Gioacchino Alfano è solo omonimo, ma come il suo ex leader autorottamato è stato a lungo simbolo delle nuove leve berlusconiane. Eletto 5 volte sotto i simboli del centrodestra: due volte dal sindaco del suo paese, Sant’Antonio Abate, e altre tre da parlamentare (2001, 2006, 2008). Federica Chiavaroli è stata una delle parlamentari più fedeli di Alternativa Popolare nei quattro anni di governi di Renzi e Gentiloni. Ma prima di entrare in Parlamento fu anche consigliera regionale in Abruzzoper il Pdl e per lo stesso partito anche coordinatrice a Pescara. Abituato alla spola è, invece, Giuseppe De Mita, nipote di Ciriaco, che partì dalla Democrazia Cristiana, poi finì nel Partito Popolare, infine nella Margherita e poi nel Pd. Ma si stufa presto e riparte dall’Udc, con la quale tenta l’elezione una prima volta (fallendo) e poi una seconda insieme a Scelta Civica (riuscendoci). Dopo vari zigzag che risparmiamo ai lettori, si è convinto di tornare a sinistra, subito dopo aver fondato un nuovo movimento, L’Italia è popolare, insieme allo zio. Da un ex Dc a un ex Psi, ché la Prima Repubblica non finisce mai: Giacomo Mancini junior si chiama così perché è nipote di Giacomo senior (già ministro, segretario del Psi e sindaco di Cosenza). Ma poiché l’eredità politica non è necessariamente legata al sangue, si può ricordare solo che Giacomo junior potrebbe finire eletto in Parlamento col centrosinistra, ma se gli va male può comunque entrare in consiglio regionale in Calabria perché è il primo dei non eletti nelle liste del centrodestra delle elezioni del 2014.
E’ il prezzo pagato dal Pd pur di avere una coalizione, anche se un po’ male in arnese. Ma gli ex berlusconiani si nascondono fin dentro il midollo del Pd. Il record è, come per abitudine, in Sicilia. Sono candidati democratici Paolo Ruggirello (per anni luogotenente dell’ex governatore Raffaele Lombardo, leader del Movimento per le Autonomie), Nicola D’Agostino (che dell’Mpa è stato capogruppo all’Ars), Valeria Sudano (ex deputata regionale del Cantiere Popolare guidato dall’ex ministro Saverio Romano), Salvo Lo Giudice (già eletto con la lista di Nello Musumeci), Giuseppe Sodano (figlio dell’ex sindaco di Agrigento e senatore di centrodestra e cresciuto nell’area di Fini), Leopoldo Pianpiano (per anni consigliere comunale col Pdl e prima ancora con An), Luca Sammartino (mister preferenze alle Regionali ex dell’Udc). Candidato in Lombardia è il formigoniano Maurizio Bernardo, già democristiano e berlusconiano dal 1994 con un lungo cursus honorum: a luglio Cupido lo ha fatto incontrare col Pd e lui si è trasferito armi e bagagli. In Campania, un altro posto dove i confini a volte si fanno poco definiti, c’è Franco Manniello, presidente della Juve Stabia e gran collettore di voti – con l’Udc – alle Regionali 2010 in sostegno di Stefano Caldoro. Percorso analogo ha fatto Francesco Spina, candidato nella sua Puglia, svolazzante dal Ccd a Forza Italia fino all’Udc e poi entrato in area Emiliano.
A tutti questi vanno aggiunti gli insospettabili e i lealisti. Per esempio ci sono i candidati del M5s che molti anni fa erano con Forza ItaliaPdl o ancora Lombardo. Ma anche gli altri “moderati” sempre pronti alla “responsabilità”. Pierferdinando Casini non ha bisogno di presentazioni, l’ex radicale Benedetto Della Vedova ha già sostenuto un governo Berlusconi, Valentina Castaldini è stata portavoce del Nuovo Centrodestra e la consigliera del ministro Enrico Costa (tornato al centrodestra con Noi con l’ItaliaCosimo Ferri, figlio dell’ex leader del Psdi Enrico, fratello del vicecoordinatore di Forza Italia in Toscana Jacopo (che ha rinunciato alla candidatura proprio per evitare lo scontro diretto) e entrato nel governo Letta da indipendente ma in quota centrodestra, quando era segretario di MagistraturaIndipendente, la corrente conservatrice dell’Anm. Di sicuro è finito il tempo delle toghe rosse.

mercoledì 14 settembre 2016

Referendum, gli apocalittici che mettono in guardia contro il No: da Confindustria a Goldman Sachs, da Fitch a Marchionne. - Marco Pasciuti

Referendum, gli apocalittici che mettono in guardia contro il No: da Confindustria a Goldman Sachs, da Fitch a Marchionne

L'endorsement sul referendum costituzionale firmato dall'ambasciatore Usa in Italia, John Phillips, sorprende ma non troppo: numi tutelari della politica e vertici della finanza nostrana e mondiale si sono a più riprese espressi a favore delle riforme del governo Renzi. Il più delle volte con toni da day after, prefigurando 'caos politico', recessione e tracolli dell'occupazione.

In principio fu Jp Morgan. Hanno costituzioni “influenzate da idee socialiste”, “esecutivi deboli”, tutele dei diritti dei lavoratori”, ma anche “la licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo”, si legge in un report di 16 pagine, datato 28 maggio 2013. La banca d’affari annoverata tra le protagoniste della finanza creativa, e quindi della crisi dei subprime che dal 2008 ha inceppato l’economia mondiale, giudicava così i “sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni”, definendole “inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”. In questo contesto l’endorsement sul referendum costituzionale firmato dall’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia,John Phillips, sorprende ma non troppo: numi tutelari della politica e vertici della finanza nostrana e mondiale si sono a più riprese espressi a favore di riforme di respiro liberista come quelle del governo Renzi.
I toni si fanno spesso apocalittici, degni del più cupo dei day after gli scenari prefigurati in caso di fallimento: la vittoria del “No” al referendum, rilevava il 1° luglio l’ufficio studi di Confindustria, causerebbe un “caos politico” e lo scenario economico interno “sarebbe caratterizzato da cinque eventi ciascuno dei quali foriero di recessione“. Tradotto in numeri: “L’effetto complessivo della vittoria del “No” è stato quantificato per il triennio 2017-2019: il Pil cala dello 0,7% nel 2017 e dell’1,2% nel 2018, salendo dello 0,2%nel 2019. In totale si riduce dell’1,7%“. E il Pil pro capite, “una misura di benessere, calerebbe di 589 euro. Ciò porterebbe a un aumento di 430mila persone in condizione di povertà“. Senza contare la perdita di posti di lavoro: “L’occupazione diminuisce complessivamente di 258mila unità, mentre altrimenti salirebbe di 319mila”. “Noi siamo per il sì – ribadiva quindi il 20 luglio al Meeting di Rimini il presidente Vincenzo Boccia, eletto il 25 maggio – perché riteniamo che la governabilità e la stabilità siano la precondizione per una politica economica di lungo termine”.
Apocalittici anche i toni usati da Fitch, che esprimeva il proprio parere nelle stesse ore in cui Phillips spiegava che una vittoria del “No” sarebbe un “passo indietro” per attrarre gli investimenti stranieri in Italia: “Ogni turbolenza politica o problemi nel settore bancario – ha spiegato il responsabile rating sovrani per Europa Medio Oriente Edward Parker – che si possano ripercuotere sull’economia reale o sul debito pubblico, potrebbe portare a un intervento negativo sul rating dell’Italia. Se ci fosse un voto per il No, lo vedremmo come uno shock negativo per l’economia e il merito di credito italiano”. Più o meno lo scenario delineato anche da Goldman Sachsche in un rapporto di 14 pagine mette in rilievo i rischi che un fallimento del referendum comporterebbe per le banche: “Una fase di turbolenza politica e uno stop al percorso riformista ridurrebbe le probabilità di arrivare a una soluzione di mercato per le banche in difficoltà, aumentando per contro quelle di un intervento del governo”.
Lassù, tra le nubi che circondano i resti di quello che fu Olimpo della grande industria italiana, le riforme piacciono anche a Sergio Marchionne, che con Matteo Renzi ha dimostrato di avere un feeling particolare: “Quello che interessa a noi come azienda è la stabilità del sistema”, spiegava il 27 agosto a margine di un convegno alla Luiss l’amministratore delegato di Fca, dicendosi ”a livello personale per il sì” al referendum. ”Non voglio – tentava quindi un distinguo – prendere una posizione. Ma personalmente condivido alcune delle scelte che sono state fatte per cercare di alleggerire il costo di gestione di questo Paese. Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa che va nella direzione giusta”.
Più in basso, nella Castalia della politica nostrana, il nome che spicca per qualità e quantità degli interventi in favore delle riforme è quello di Giorgio Napolitano: “Sosterrò la conferma della legge di riforma approvata dal Parlamento e mi auguro che le opposte parti politiche si confrontino sul referendum nella sua oggettività”, rompeva gli indugi il presidente emerito in un’intervista al Corriere della Sera il 6 gennaio, per poi esprimere il 5 luglio un invito direttamente agli italiani: “Auspico che la stragrande maggioranza dei cittadini non faccia finire nel nulla gli sforzi messi in atto in questi due anni in Parlamento”, fino all’ultimo appello, datato 10 settembre: “Bocciare la revisione della Carta sarebbe un’occasione mancata“. Difficile, comunque, quantificare le occasioni in cui l’ex capo dello Stato ha sponsorizzato le riforme firmate da Maria Elena Boschi, ampiamente ricambiato con l’iscrizione a caratteri cubitali (secondo i maligni, un epitaffio) che il premier ha scolpito loro in calce: “Portano la sua firma“. Con tutte le conseguenze che in termini di giudizio storico da questa affermazione potrebbero discendere.
Per un certo periodo, più o meno corrispondente alla durata del patto del Nazareno, le riforme hanno riscosso successo anche negli ambienti berlusconiani: “In un Paese che ha bisogno di riforme – argomentava il 2 luglio 2014 Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente di Mediaset, alla presentazione dei palinsesti autunnali – come italiano e come imprenditore io tifo per Renzi, e chi non lo farebbe con chi ha preso il 40% (alle elezioni europee di quell’anno, ndr)? Abbiamo bisogno innanzitutto di stabilità e in secondo luogo di riforme che facciano ripartire l’economia“. Perché è “indispensabile” intervenire su “giustizia, lavoro, tasse”. Poi però, sottolineava il delfino, “è importante vedere come sono le riforme, perché vanno fatte bene, e con chi si fanno”. Renzi le avrebbe fatte con suo padre Silvio, fino a che quest’ultimo, scottato dall’inversione a “U” fatta dal premier in occasione dell’elezione di Sergio Mattarella al Colle, non aveva fatto crollare il patto. Passando quindi l’ideale staffetta a Denis Verdini. Ma questa è un’altra storia.
La lista degli insospettabili tifosi delle riforme arriva fino a Jyrki Katainen, implacabile fustigatore delle mollezze amministrative di Atene. Il 15 gennaio 2015, nella prima tappa a Roma del suo tour per lanciare il fondo Juncker per gli investimenti, il vicepresidente della Commissione europea parlava di un “programma di riforme coraggioso”, promuovendo a pieno voti il Jobs Act: “Aiuterà soprattutto i giovani a trovare un impiego”, assicurava il falco finlandese la cui affabilità nei confronti di un’Italia che chiedeva flessibilità era giustificata dalla necessità di Bruxelles di dare un segnale di distensione a quei Paesi che rischiavano di essere attratti come mosche dal miele dalle ricette greche di Syriza. Che prometteva ai greci, prima di auto-normalizzarsi, un’Unione Europea meno ostaggio del partito dell’austerity.

venerdì 17 aprile 2015

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”. - Giuseppe Pipitone

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”

Sono alcune delle dichiarazioni rilasciate alla Corte d'Assise di Palermo da Carmelo D'Amico, l'ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l'ultimo super testimone dell'inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. I magistrati lo considerano un collaboratore altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano.

Il ministro dell’Interno Angelino Alfano? “Portato da Cosa nostra, ma poi gli ha voltato le spalle”. Forza Italia? “Nata per volere dei servizi segreti”. Silvio Berlusconi? “Una pedina nelle mani di Marcello Dell’Utri”. Il pm Nino Di Matteo? “Lo vogliono morto sia Cosa Nostra che i servizi segreti”. Parola di Carmelo D’Amico, l’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l’ultimo super testimone dell’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra.
È un collaboratore importante D’Amico, un pentito che i pm del pool Stato – mafia considerano altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano. “Rotolo mi disse che Matteo Messina Denaro non è il capo di Cosa nostra, perché è il capomandamento di Trapani: ma il capo di Cosa nostra non può essere un trapanese, deve essere palermitano”, è uno dei tanti passaggi della deposizione di D’Amico, ascoltato come testimone dalla corte d’Assise di Palermo che sta processando politici, boss mafiosi ed alti ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra.
Un racconto cominciato con un mea culpa: “Ho commesso almeno una trentina di omicidi, soprattutto per i catanesi dal 1992 in poi: a un ragazzo ho anche tagliato le mani”, ha confessato D’Amico, spiegando di aver deciso di collaborare con la magistratura “dopo la scomunica dei mafiosi di Papa Francesco, quelle parole mi hanno colpito moltissimo”. L’anatema del pontefice contro i boss è del 21 giugno 2014: da quel momento D’Amico inizia ad aprire il suo personalissimo libro dei ricordi, prima davanti ai pm della dda di Messina, e poi con i magistrati del pool palermitano.
È davanti ai pm Nino Di Matteo, Roberto TartagliaVittorio Teresi e Francesco Del Bene che D’Amico mette a verbale tutto quello che ha appreso sui rapporti tra Cosa Nostra e le Istituzioni. Un racconto pieno di rivelazioni inedite, replicato davanti alla Corte d’Assise, che coinvolge direttamente il ministro dell’Interno. “Angelino Alfano – ha spiegato D’Amico collegato in videoconferenza con l’aula bunker del carcere Ucciardone– è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”.
Ma non solo. Perché a godere dell’appoggio delle cosche sarebbe stato anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, già indagato per concorso esterno alla mafia e poi archiviato. “Cosa nostra ha votato anche Schifani, poi hanno voltato le spalle, e la mafia non ha votato più Forza Italia”. Per il collaboratore, poi, il partito di Silvio Berlusconi sarebbe nato perché sostenuto direttamente da Totò Riina e Bernardo Provenzano. “I boss votavano tutti Forza Italia, perché Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perché l’hanno voluta loro”. Poi però il patto tra politica e boss s’interrompe. “All’epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”.
D’Amico ha anche raccontato che a Barcellona Pozzo di Gotto era attiva una loggia massonica. “Ne facevano parte uomini d’onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico Nania (ex vice presidente del Senato col Pdl) : a questa apparteneva anche Dell’Utri”. La fonte dell’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto è Rotolo, il boss palermitano con il quale condivide tra il 2012 e il 2014 l’ora di socialità. Rotolo è un pezzo da novanta, ex fedelissimo di Totò Riina e poi di Bernardo Provenzano. “Mi raccontò che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”. Ma il boss di Pagliarelli avrebbe fatto a D’Amico anche confidenze sulla latitanza di Provenzano. “Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”.
Ed è sempre Rotolo che racconta a D’Amico il piano di morte per assassinare Di Matteo. “Rotolo ne parlava con Vincenzo Galatolo: all’inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all’altro la notizia dell’attentato”. Il racconto di D’Amico riscontra implicitamente le rivelazioni di Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, il boss dell’Acquasanta, che per primo ha svelato come a partire dal dicembre del 2012, Cosa Nostra avesse studiato nei dettagli un piano per assassinare il pm della Trattativa. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire – ha aggiunto D’Amico – Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”.
Anche Vito Galatolo ha raccontato che in un primo momento l’attentato contro il pm palermitano doveva essere fatto con 200 chili di tritolo, già acquistati dalla Calabria e arrivati a Palermo. Poi però si passò ad un piano di riserva, che prevedeva l’eliminazione del magistrato in un agguato a colpi di kalashnikov. Appena poche settimane fa l’allerta al palazzo di Giustizia è tornata ai massimi livelli, dato che uomini armati sarebbero stati localizzati nei pressi di un circolo tennistico sporadicamente frequentato dal pm. E se Galatolo aveva indicato in Messina Denaro il mandante dell’omicidio (“Perché Di Matteo si sta spingendo troppo oltre” aveva scritto il padrino di Castelvetrano ai boss di Palermo) per D’Amico l’ordine arrivava anche da altri ambienti.
“A volere la morte di Di Matteo erano sia Cosa Nostra che i Servizi perché stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”. E quando ad un certo punto l’attentato sembra essere entrato in fase d’impasse, Rotolo e Vincenzo Galatolo provano ad inviare D’Amico a Palermo. “Io – ha spiegato il pentito – dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”. Il vero chiodo fisso di D’Amico, però, sono i servizi. “Arrivano dappertutto ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffré non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”. Alla fine ecco anche una paradossale precisazione. “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.