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giovedì 11 luglio 2024

MARCO TRAVAGLIO - Il Pd è tornato, purtroppo - IFQ - 11 luglio 2024

Bisogna ringraziare il Pd, perché ogni tanto fa il Pd e ci ricorda cos’è il Pd: quel partito che, anche quando portava altri nomi, ci ha regalato 10 anni di governi B. (evitando di opporglisi) e 4 e mezzo di governi con B. (alleandosi con lui), porcate sulla giustizia come il “giusto processo”, la bozza Boato, l’immunità extra-large, il lodo Maccanico, l’abolizione dell’ergastolo e dei pentiti di mafia, le proroghe a Rete4 in barba alla Consulta e varie schiforme costituzionali: quella renziana bocciata dagli italiani; il Titolo V che ora consente alla destra di rifilarci l’Autonomia differenziata; e il premierato, proposto dall’Ulivo in Bicamerale, che ora la destra copia e traduce in legge.

Si dirà: acqua passata, ora c’è il nuovo Pd di Elly Schlein e guai a criticarlo: il popolo chiede unità. Magari.
Il Pd continua a votare con le destre contro i giudici che chiedono di usare intercettazioni e chat nei processi ai parlamentari. E l’altroieri si è superato con l’ordine del giorno Serracchiani per cancellare parte della legge Severino (votata da tutti nel 2012) e lasciare al loro posto gli amministratori regionali, provinciali e comunali condannati in primo grado, salvo per delitti “di grave allarme sociale”: chi spara a qualcuno o fa rapine a mano armata o spaccia droga deve andarsene; chi intasca solo tangenti o arraffa soldi pubblici o abusa del suo potere può restare fino alla Cassazione. A FI e Lega non è parso vero, infatti hanno votato Sì, mentre il M5S ha votato No e persino FdI si è astenuto.
Vien da chiedersi con che faccia il Pd chieda le dimissioni di Toti, agli arresti domiciliari senza neppure una condanna in primo grado. La risposta è semplice: con la faccia del Pd. Che fino all’altro ieri adorava pure l’Autonomia differenziata, tant’è che Bonaccini la chiese per l’Emilia Romagna al governo Gentiloni nel 2018, senza fare retromarcia neppure quando la Schlein divenne sua vice. “Un accordo di portata storica a beneficio di un territorio virtuoso”, esultò il sito del Pd. E il ministro Boccia esaltò l’Autonomia come “nuovo patto sociale per la lotta alle disuguaglianze, al Nord come al Sud”.
Ora il Pd, senza aver mai chiesto scusa né spiegato perché ha cambiato idea, sale sulle montagne della Resistenza referendaria all’Autonomia differenziata. Ma è tutta scena.
L’altro ieri, alla Regione Campania, il Pd ha votato due quesiti: uno (che rischia di non passare alla Consulta) per l’abrogazione totale della legge Calderoli; l’altro per l’abrogazione parziale, ma molto parziale, talmente parziale da far gridare il costituzionalista Massimo Villone all’“imbroglio politico” di chi “finge di voler bloccare Calderoli e in realtà gli spiana la strada”. Se questo è il partito-guida dell’opposizione, la Meloni può dormire fra due guanciali.

sabato 10 giugno 2023

Il PD della Schlein - Giuseppe Salamone

 

A me non stupisce affatto che il PD della Schlein non abbia invertito la tendenza elettorale italiana. A dirla tutta non mi aspettavo nulla di diverso rispetto a quanto successo.

La fotografia di questa tornata elettorale non è altro che il consolidamento di ciò che si manifesta ormai da qualche anno a questa parte. La destra prende sempre gli stessi voti il che significa che il suo consenso va verso una stabilizzazione. Dall'altra parte, i voti che dovrebbero confluire nello schieramento opposto di cui il PD si arroga con saccenza e presunzione la guida, finiscono nel calderone dell'astensionismo sempre più pieno.

È la fotografia di un'Italia assuefatta e senza alcuno stimolo per recarsi alle urne a causa di una politica incapace di mobilitarla. Davanti a tutto ciò, la "sinistra" o presunta tale, dovrebbe essere quella parte in grado di rappresentare e incarnare una voglia di cambiamento; invece è quella parte che più di tutte risulta priva di un'ideologia, senza strategia e progetto politico valido e con una leadership tutto fumo e niente arrosto. Colori e armocromisti a parte eh...

La destra prospera perché manca la sinistra o perché siamo davanti a una "falsa sinistra" che ormai non riesce più a distinguersi dalla destra. Un consiglio non richiesto alla Schlein: vuole rappresentare un cambio di passo e una nuova rinascita per la sinistra? I temi da cui partire oggi sono i seguenti: NO alla guerra, NO all’invio di armi, NO alla servile sudditanza alla NATO e NO all'imperialismo.

Altrimenti, in queste condizioni, la destra dilagherà non solo alle prossime elezioni Europee, ma anche per il prossimo ventennio a seguire. Non perché viene vista come una speranza, ma per ritiro degli avversari senza nemmeno aver provato a giocarsi la partita. Purtroppo il problema sta sempre da un'altra parte, ovvero che per decidere qualcosa, bisogna chiedere il permesso alla Casa Bianca...

T.me/GiuseppeSalamone
Giuseppe Salamone
Giuseppe Salamone 

https://www.facebook.com/photo?fbid=619775640183781&set=a.390859653075382

martedì 6 dicembre 2022

Ticket restaurant. - Marco Travaglio

 

La manovra Meloni è già stata bocciata da Bankitalia e Corte dei Conti, Istat, Cnel e Upb, docenti e studenti, sanitari e pazienti, sindacati e Confindustria, cattolici e atei, pensionati e giovani ma anche gente di mezza età, Ue e italiani, Nord e Sud. E sta sulle palle persino a Meloni (“il tetto al Pos può scendere”). Ma almeno a due categorie piace: gli evasori fiscali e Ollio&Ollio, alias Renzi&Calenda. La coppia più comica del momento aveva chiesto i voti per il Draghi-2, previsto al massimo in primavera perché “Meloni cadrà in sei mesi”. Ora i pochi elettori che se l’erano bevuta vedono il capocomico Carletto, travestito da Caligola sovrappeso, cazziare FI perché non sostiene Meloni e sostenerla lui al posto loro. Intanto la spalla rignanese annuncia che “nel 2024 farò cadere Meloni e saremo il primo partito”. È “il polo della serietà”. Si aprirebbe un certo spazio per l’opposizione vera, ma il Pd ha il “percorso costituente precongressuale” che richiede tempo perché – si era detto – “prima le idee e poi i nomi”. Purtroppo le idee non si sono trovate (le stanno cercando 87 “saggi”, con rabdomanti e sanbernardo). E si parla solo di nomi. Nomi avvincenti però, che scaldano il cuore degli elettori passati, presenti e futuri. Molto vari, ecco.

Bonaccini è un renziano sostenuto dai renziani. Ricci era renziano, ma piace alla sinistra interna (a quella esterna, meno). De Micheli era sottosegretaria dei renziani Renzi e Gentiloni, ma ce l’ha con Renzi. Schlein è la vice del renziano Bonaccini in Emilia-Romagna ed è appoggiata da Franceschini e Orlando, ex ministri del governo Renzi, però è la più antirenziana su piazza, anche perché non è iscritta al Pd che si candida a guidare. Poi c’è Nardella, renziano al Plasmon e sindaco di Firenze per grazia renziana ricevuta: pareva si candidasse pure lui, poi fu in corsa per un “ticket” con Schlein per alleviarne l’antirenzismo, invece farà ticket con Bonaccini per incrementarne il renzismo: è come il ficus, dove lo metti sta. L’idea del “ticket” è arrapante, anche se nessuno sa cosa voglia dire: in 15 anni il Pd ha avuto 10 segretari che sbagliavano da soli, mai in coppia. Quindi che succede se vince Bonaccini? Fa un po’ per uno con Nardella? O Nardella, oltre al sindaco a tempo perso, fa il presidente del Pd? Ma il presidente del Pd non conta nulla: l’ha fatto pure Orfini. L’attuale, Valentina Cuppi, nessuno sa chi sia: nemmeno Letta, che s’è pure scordato di farla eleggere. Ora Renzi intima al Pd di appoggiare Moratti in Lombardia e di ritirare Majorino, che deve “accettare il ticket con lei”: cioè le porterà caffè e cornetto ogni mattina. Il fatto che Majorino combatta Moratti da quando aveva i calzoni corti è un dettaglio superabile: “Ticket” è la parola magica che fa evaporare le idee. E gli elettori.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/12/06/ticket-restaurant/6896886/

mercoledì 26 gennaio 2022

Specie protetta. - Marco Travaglio

 

Da quando è nato, ci si domanda a che serve il Pd (oltre che a perdere tutte le elezioni e a entrare in quasi tutti i governi). Ieri, dopo anni di sforzi, è arrivata la risposta di Enrico Letta, di quelle che scaldano il cuore al popolo della sinistra: “Il mio ruolo è proteggere Mario Draghi”. Vasto programma, come disse De Gaulle a quel tale che urlava “A morte tutti i coglioni!”. E noi già immaginiamo la ola degli elettori Pd, come già l’altra sera, quando il “giovane Letta” (per distinguerlo dallo zio) ha annunciato da Fazio un’altra lieta novella: “Parlerò con Salvini di Draghi e del Mattarella bis, che sarebbe l’ideale”. Soprattutto per un politico di 55 anni che sembra lo zio dello zio. Ieri poi ha sfiorato la standing ovation bocciando Frattini in tandem con Renzi (molto amato dalla base): ma non perché è il cameriere di B. che gli tagliò su misura la legge-farsa sul conflitto d’interessi; bensì perché non è abbastanza “atlantista” per spezzare le reni a Putin in Ucraina, dove gli eserciti restano in surplace in attesa di un cenno dal Quirinale. Il fatto che Frattini non l’avesse candidato nessuno aggiunge un tocco di surrealismo alla gag di due leader che, per dimostrare la loro esistenza, bocciano un candidato inesistente.

Resta da capire da chi o da cosa Letta voglia proteggere Draghi, facendogli scudo col suo gracile corpicino. Possibile mai che un supereroe come SuperMario, già Salvatore dell’Euro e poi della Patria, Capo dell’Ue post-Merkel, necessiti della protezione di uno che si fece fregare da un tweet di Renzi? Se Letta sperava di rafforzarlo, è riuscito a indebolirlo più ancora di quanto non si fosse già indebolito da solo. Perché l’unico nemico da cui Draghi va protetto è se stesso. Con buona pace di giornaloni, talk e maratone, che raccontano un mondo dragocentrico e furioso contro la politica puzzona “in stallo” perché non ha eletto nessuno nei primi due round (come in 10 elezioni quirinalizie su 12). Peraltro, se non s’è ancora trovato un accordo, è perché – per la prima volta nella storia – due egolatri si sono autocandidati al Colle a dispetto dei santi, delle regole e dei numeri: B., lanciato dal centrodestra il 14 gennaio e tramontato il 22; e Draghi, che si è lanciato il 24 dicembre, ma nel vuoto, visto che nessuno lo ha raccolto, e ora sta per schiantarsi al suolo col suo prestigio, la sua maggioranza, il suo governo e un bel pezzo dell’Italia senza che gli passi per l’anticamera del cervello di prender atto che nessuno lo vuole al Quirinale (neppure gli amici dell’Economist e gli amati “mercati”), riporre ambizioni e capricci, smettere di usare il piedistallo di Palazzo Chigi per farsi campagna elettorale a urne aperte e rassegnarsi a fare ciò per cui Mattarella lo chiamò un anno fa: governare, se ci riesce.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/26/specie-protetta/6468615/

domenica 13 giugno 2021

Pd: la federazione-fuffa per rompere col M5S. - Wanda Marra

 

Si scrive “Federazione di centrosinistra”, si legge “No all’alleanza privilegiata con i Cinque Stelle”. Il dibattito dentro il nuovo Pd di Enrico Letta (o piuttosto presunto tale) in questi ultimi giorni si è concentrato sulla formula, vagamente creata a tavolino. Tra le difficoltà della nuova segreteria e la tattica scelta dalle correnti (ovvero, logorare, non affrontare), non si attacca frontalmente la linea del Nazareno, ma si lavora a indebolirla. Anche perché, poi, la linea non è diritta: l’alleanza privilegiata con il Movimento guidato da Giuseppe Conte finora si è scontrata con le difficoltà sia del M5S che del suo appena ufficializzato leader. E le Amministrative raccontano di accordi che si fanno e si disfano in 24 ore. Ma in tutto questo ieri il Pd in un sondaggio Ipsos risulta il primo partito. Una posizione che da un certo punto di vista consentirebbe di trattare tutti i compagni di strada da una posizione di forza.

Dunque, la “federazione”. Che significa unire le forze da Renzi e Calenda a Bersani. A lanciarla sono stati il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, ma soprattutto il senatore Luigi Zanda. Uno di quelli che quando parla fa raddrizzare le antenne: fu il primo a esprimersi chiaramente contro la linea “Conte o voto” allora strenuamente raccontata dalla segreteria dem targata Nicola Zingaretti. Quindi, sa tanto di slavina. La ridotta, poi, sta tutta in Senato. Andrea Marcucci a Letta gliel’ha giurata e non perde occasione per dirlo. Ma non è il solo. A Palazzo Madama è andata in scena giovedì una riunione del gruppo in cui a scagliarsi contro il segretario sono stati Gianni PittellaSalvatore MargiottaStefano Collina. “Il nostro destino è il matrimonio con Conte o la maggioranza Ursula?”, ha chiesto Pittella, con un tono molto polemico.

Dopodiché è tutta Base Riformista, la corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini, che inizia a contestare la strategia di Letta. Mercoledì sera c’è stata una riunione dei parlamentari nella quale è stato presentato un documento per ribadire la “vocazione maggioritaria” dei dem, intesa come approccio verso il centro e verso i Cinque stelle: il “contributo” ha l’obiettivo di riequilibrare, e al tempo stesso di proporsi come alternativa alla linea gauchiste di Enrico Letta. “Noi freniamo? No, non c’è alcuna contrarietà ma prudenza. I 5Stelle sono in evoluzione, vediamo dove arrivano”, per sintetizzarla con il coordinatore, Alessandro Alfieri. Nella riunione ha fatto capolino Graziano Delrio insieme a Debora Serracchiani (in teoria franceschiniana). Lui nega sia di essere entrato dentro Br, sia di essere contro l’alleanza con M5S. Di certo, però, i rapporti con Letta non sono dei migliori, dopo la sostituzione alla guida del gruppo dem alla Camera.

Va detto che quattro mesi dopo la fine del governo giallorosa, coloro che fecero da sponda nel Pd a Renzi per defenestrare Conte sono gli stessi che oggi iniziano a venire allo scoperto contro Letta. Ma non è questo l’unico tema.

A tre mesi dal ritorno da Parigi dell’ex premier, si è assistito a un proliferare di correnti.

L’ultima in ordine di tempo è “Prossima”, e praticamente riunisce gli zingarettiani senza Zingaretti: Nicola Oddati, ex responsabile Enti Locali, l’ex responsabile comunicazione Marco Furfaro, l’ex responsabile lavoro Marco MiccoliStefano Vaccari (ancora responsabile dell’organizzazione). Poi ci sono le “Agorà” di Goffredo Bettini e “Rigenerazione democratica” di Paola De Micheli. Anche qui, il gioco delle correnti si incrocia con quello delle alleanze. Gli zingarettiani, per dire, sono per un’alleanza con i Cinque Stelle, ma senza sudditanza. Lo stesso Bettini – il fautore dell’amalgama giallorosa – si va raffreddando, come si evince dall’uscita sulla giustizia della settimana scorsa, in cui più che a Conte si riferiva a Matteo Salvini. Perché il rocchetto si è ampiamente complicato.

Letta e Francesco Boccia hanno cercato in tutti i modi di chiudere accordi su candidati di coalizione con il Movimento, ma si sono trovati di fronte spesso e volentieri le resistenze dei grillini e le difficoltà dello stesso Conte a interpretare la sua leadership. O almeno così se la raccontano al Nazareno. A Roma, dopo aver cercato di chiudere su Nicola Zingaretti, hanno dovuto virare su Roberto Gualtieri, visto che il primo non aveva ottenuto la garanzia che i Cinque Stelle non avrebbero fatto cadere la sua giunta alla Regione Lazio. A Napoli, dopo aver puntato su Roberto Fico, hanno ripiegato su Gaetano Manfredi. A Torino, anche se in silenzio, sperano nella vittoria del civico Enzo Lavolta, con conseguente accordo con il M5S. Speranze, entrambe, piuttosto peregrine.

E poi c’è il caso Calabria: con il candidato dem, Nicola Irto che si è ritirato una volta, è tornato in corsa, è stato poi di nuovo indotto a ritirarsi in nome dell’accordo con il Movimento. Un pasticcio tutto ancora da risolvere e che la dice lunga sulle difficoltà dell’alleanza. Anche qui, l’alfiere dell’accordo con il Movimento è stato Peppe Provenzano. A proposito di sfumature.

Nel frattempo, Letta conduce la sua battaglia piuttosto complessa. Ha scelto i temi di sinistra, come identitari, dal ddl Zan allo Ius soli. Criticatissimo. Nella partita dei licenziamenti, si è visto scavalcare dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che poi però ha dovuto cambiare posizione e dare spiegazioni più volte. Per inciso, mentre Letta lanciava la dote sui 18enni da finanziare con la tassa di successione, Orlando era al tavolo per la conferenza stampa con Mario Draghi e non ne sapeva niente. In generale, i rapporti del segretario del Pd con il premier sono più difficili di quanto ci si potesse aspettare. Ma questa è un’altra storia. Nel capitolo “relazioni difficili con M5s” va aggiunta la storia della candidatura alle suppletive. Per Letta è pronto il seggio di Siena, ma lui tentenna. Tra i motivi, il fatto che Conte non vuole candidarsi a sua volta a Pietralata, a Roma. E questo, non aiuta l’immagine. In mezzo a questo mare di incertezze, però, ieri al Nazareno si consolavano con il sondaggio Ipsos, che dava il Pd al 20,8%.

IlFQ

venerdì 4 giugno 2021

Giustizia & C.: Le affinità elettive Lega-pd. - Wanda Marra

 

Nuova offensiva pseudo-garantista.

Non c’è pace sotto al cielo del Partito democratico. E così, mentre Enrico Letta cerca di mettere in campo una strategia dialogante anche con la Lega di Matteo Salvini, dopo i primi mesi passati ad attaccare all’arma bianca il leader del Carroccio, tocca a Goffredo Bettini fare la mossa che spiazza tutti. In una lettera al Foglio (come aveva già fatto Luigi Di Maio una settimana fa, chiedendo scusa all’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, dopo l’assoluzione), nel nome del fatto che la giustizia va radicalmente trasformata, si schiera a favore dei referendum dei Radicali e della Lega. Che prevedono la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, la custodia cautelare, l’abrogazione della legge Severino (in modo che non ci sia nessun automatismo per quanto riguarda i termini di incandidabilità, ineleggibilità, decadenza per parlamentari, consiglieri, governatori regionali, sindaci, amministratori locali), l’abolizione della raccolta firme per la lista dei magistrati che vogliano candidarsi al Csm, l’abrogazione della norma sui consigli giudiziari.

Dice Bettini: “Non credo affatto sia giusto che questo tema sia un po’ pelosamente impugnato solo da quella destra populista, come la Lega, che amava esibire il cappio nelle aule parlamentari”. La mossa di uno degli uomini che è stato centrale nell’esperienza del governo giallorosso ha più livelli di lettura. Il primo si può raccontare attraverso le reazioni a questa uscita, all’insaputa di tutti, anche quelli a lui più vicini. Si arrabbia Letta, si arrabbiano parlamentari, membri delle Commissioni Giustizia soprattutto. Perché stanno lavorando sulla riforma Cartabia, che, per inciso, va fatta con la Lega. E dunque, quella di Bettini viene vista come l’azione di uno che non conta più come prima e dunque agita le acque, complica giochi già complessi di loro. Lo dicono tutti tra i dem, da Franco Mirabelli, capogruppo in Commissione Giustizia al Senato a Alfredo Bazoli, capogruppo alla Camera a Anna Rossomando, responsabile Giustizia dem, che le proposte della Cartabia sono più radicali. E soprattutto che arriveranno prima dei referendum. E dunque, quello di Bettini pare un assist alla propaganda di Salvini, al leader di lotta e di governo, che cerca un suo spazio, con Giorgia Meloni che glielo toglie, un giorno dopo l’altro.

“Qual è la vera posizione di Salvini? Quella di chi dice sì alla custodia cautelare o quella di chi voleva far marcire i detenuti in carcere, buttando la chiave?”, si chiedono non a caso al Nazareno.

C’è però un secondo livello di lettura. Ed è quello che alla fine Bettini apre la strada a una revisione di un certo tipo del dibattito sulla giustizia di questi ultimi 20 anni. Andando a toccare non solo il cosiddetto giustizialismo, che non è mai stato nelle corde dei dem, ma anche andando ad abbattere qualche tabù. Come, ad esempio, la revisione della legge Severino, che aveva portato alla incandidabilità di Silvio Berlusconi. D’altra parte, in una giornata densa per le tematiche della giustizia, non si sentono particolari voci di attacco verso i contabili della Lega condannati.

Si legge nella premessa alle proposte sulla giustizia del Pd: “Sotto il profilo della giustizia, la presenza di un presidente del Consiglio e di una ministra della Giustizia dalla preparazione e dalla autorevolezza inattaccabili può consentire al Paese di voltare pagina. Possiamo davvero chiudere per sempre la stagione delle contrapposizioni politiche sulla giustizia, e consegnare all’Italia un sistema più efficiente, che garantisca il rispetto della legalità insieme alla certezza del diritto e dei diritti dei cittadini, anzitutto quello di ottenere giustizia in tempi rapidi”. Eccola qui, scritta nero su bianco, la volontà di Letta di mediare con tutti, anche con la Lega. Inevitabile, d’altronde, visto che le riforme del Pnrr sono necessarie per avere i fondi europei. E poi, se si parla di ritorno della prescrizione, è più facile pensare che si possa fare asse con il Carroccio che con i Cinque Stelle.

Di certo, negli ultimi giorni, qualcosa è cambiato. Salvini ha dato ragione al Pd sulla proroga del blocco dei licenziamenti. Il Nazareno ha consegnato una replica secca al vice segretario, Peppe Provenzano, che evidenziava la giravolta, ma è un fatto che Letta ultimamente abbia ammorbidito i toni. “Dobbiamo fare le riforme con la Lega, a partire da quelle della giustizia e del Fisco”, ha detto e ridetto. Che cosa è successo?

Prima di tutto, c’è stato l’ennesimo confronto con il premier, Mario Draghi. E il segretario del Pd ha voluto smettere di offrire il fianco a chi lo cominciava a dipingere come il picconatore del governo. “Se non ora, quando?”, ha ribadito ieri sera, da Bruno Vespa, a proposito delle riforme. Senza la Lega, le riforme non si fanno. E il Pd parte da una debolezza prima di tutto numerica, nelle truppe parlamentari. Dunque, Letta non può che cercare dei punti di convergenza, una volta che ha visto fallire il tentativo di spingere Salvini a uscire dal governo e dar vita alla maggioranza Ursula. In questa fase magmatica della vita politica italiana, poi, si assiste a una convergenza di fragilità: i partiti contano sempre meno, rispetto alla forza personale del premier e dei suoi tecnici, ai moniti di Sergio Mattarella, persino alle raccomandazioni europee, rispetto a specifici provvedimenti. Così gli estremi, pur rimanendo estremi, si toccano.

Senza contare che nelle Commissioni parlamentari leghisti e dem si parlano di continuo, senza problemi di comunicazione. Dato di realtà che fa dire alla Rossomando: “Salvini si fidi di più dei suoi parlamentari, invece di fare azioni propagandistiche”. Ma in questa confusione di ruolo e di obiettivi, va anche detto che i dem aspettano con ansia di vedere gli emendamenti leghisti alla riforma Cartabia. La scommessa che si possa lavorare insieme la fanno, si aspetta la controprova della realtà. A proposito di rapporti di forza.

IlFQ

venerdì 7 maggio 2021

Zingaletta. - Marco Travaglio

 

Tra le notizie stupefacenti delle ultime ore, la più stupefacente è il pressing di Letta sul suo predecessore Zingaretti perché lasci la Regione Lazio con un anno d’anticipo e si candidi a sindaco di Roma. O, peggio ancora, lo faccia senza dimettersi, aspettando fino all’ultimo giorno utile (inizio settembre) per mollare la carica, così da far slittare le Regionali anticipate a qualche settimana dopo le Comunali. Il motivo è evidente: se si votasse lo stesso giorno per la Capitale e per la Regione, gli stessi elettori romani del centrosinistra dovrebbero votare separati per il sindaco (o la Raggi o Zingaretti, che già fanno scintille prima della sfida, figurarsi in campagna elettorale) e uniti per il cosiddetto “governatore” (verosimilmente espresso dalla coalizione giallorosa). Diciamo subito che questo trucchetto da magliari sarebbe umiliante per Zingaretti, per il Pd, per la coalizione, ma soprattutto per gli elettori. Un’indecenza etico-politica, oltreché la tomba di quel “nuovo centrosinistra” che il Pd di Zingaretti, con Conte, al M5S e a Leu, ha cercato faticosamente di costruire in questi 20 mesi e in cui Letta dice di credere.

Che Pd e M5S corrano separati alle Comunali è inevitabile: la Raggi aspira legittimamente al bis e il Pd non ha perso occasione di combatterla, con armi proprie e anche improprie, per tutto il mandato. Un accordo al primo turno è impensabile: nulla di strano se i dem presentano il loro candidato (Zingaretti aveva scelto Gualtieri, Letta l’ha ibernato): poi si vedrà chi fra lui e la Raggi passerà al ballottaggio e chi fra 5Stelle e Pd dovrà sostenere l’altro. Ma una forzatura assurda come sradicare Zingaretti dalla Regione sarebbe una dichiarazione di guerra al M5S alleato, che non resterebbe senza conseguenze. Il M5S sarebbe legittimato a rispondere schierando candidati forti a Milano, Torino e Bologna per mettere i bastoni fra le ruote a Sala e agli altri aspiranti sindaci Pd (per ora ignoti). E comunque i cittadini la prenderebbero malissimo: quelli del Lazio si domanderebbero che rispetto abbia Zingaretti a mollarli a metà della campagna vaccinale per traslocare al Campidoglio, fra l’altro dopo aver giurato per mesi che mai e poi mai l’avrebbe fatto; e quelli di Roma, già perplessi per la politica regionale sui rifiuti (molto simile al sabotaggio permanente della sindaca), si sentirebbero usati in una guerra di potere che non ha nulla di nobile (se è pronto Gualtieri, perché far saltare Zinga da una poltrona all’altra?). Davvero Letta pensa che basti spostare le Regionali un paio di settimane dopo le Comunali per far dimenticare agli elettori del Pd e del M5S la battaglia all’arma bianca fra Raggi e Zinga? Ma dove vive: sulla luna?

ILFQ

mercoledì 21 aprile 2021

Il ricambio delle classi dirigenti e la lezione del Pd. - Tommaso Merlo - Libertà di pensiero

 

Per risanare il Pd dovrebbero andarsene a casa tutti i dirigenti, dal primo all’ultimo. La politica la fanno gli uomini. Per cambiarla devi cambiare gli uomini che la fanno. Punto. 

Vale per il Pd come per ogni ambito del nostro vecchio e ottuso sistema paese. Affidandosi a Letta, il Pd dimostra di non aver imparato nulla dalla sua eterna crisi o che i suoi dirigenti non hanno in realtà nessuna intenzione di cambiare alcunché. 

Letta potrà organizzare tutte le assise che vuole e girare le sezioni del partito una ad una, potrà proclamare “nuove fasi” e “rilanci” ma alla fine il Pd tornerà la bolgia correntizia di sempre. Basta guardarsi alle spalle. Scissioni, terremoti, faide. Un segretario dopo l’altro. Eppure il Pd non è cambiato di una virgola. Questo perché se vuoi rinnovare un partito devi rinnovare la sua classe dirigente. Non ci sono scorciatoie. È questa la lezione del Pd. Per arrivare ai vertici di un partito, un politicante deve investire anni della sua vita. Seguire qualche mentore, assorbire logiche e prassi. E solo quando rispecchierà il sistema verrà premiato dallo stesso. Una volta in cima il politicante replicherà gli schemi che ha appreso e che gli hanno permesso di emergere e non ha nessun interesse a cambiare alcunché. 

Vale per il Pd come per qualunque ambito. Ed è questo uno dei mali più gravi del nostro paese. Il ricambio delle classi dirigenti è fondamentale per l’igiene democratica ma anche per la funzionalità del sistema. Il ricambio favorisce il cambiamento. Nuove generazioni portano mordente, coraggio, desiderio d’incidere sulla realtà e non di conservare l’esistente. Il ricambio delle classi dirigenti favorisce l’emergere di nuove sensibilità e punti di vista e quindi stimola nuove idee e programmi. Solo le generazioni figlie dell’era storica che si vive possono rappresentare genuinamente le istanze del momento ma anche i sentimenti. L’ansia di progresso, la fame. Un paese in mano ai nonni è fragile e stanco e con la testa rivolta all’indietro. Un paese in mano a chi no ha futuro, non ne ha. Il ricambio delle classi dirigenti evita poi la formazione del sempiterno fossato tra potenti e cittadini, tra potenti e realtà. La società è in continua evoluzione e solo con un ricambio frequente si mantiene il passo. In un’era di rapidi cambiamenti come questa è ancora più evidente. L’Italia è ferma anche perché è in mano a classi dirigenti che non appartengono a questo paradigma e non lo comprendono. Il ricambio previene anche personalismi e rivalità tra correnti e capibastone. Sprechi di tempo e di energie. Con beghe personali che si trascinano per decenni e non hanno nulla a che fare coi destini del paese. Il ricambio previene poi la formazione di reti e rapporti di potere che piegano l’interesse collettivo. Il ricambio impedisce anche la formazione di caste e cioè dirigenti che si coalizzano per restare in sella, dirigenti che si arricchiscono e si fanno risucchiare dalle lusinghe dello status ammosciandosi e perdendosi in deliri autoreferenziali. È questa la lezione del Pd. Il ricambio delle classi dirigenti è uno dei mali più deleteri del nostro sistema paese. Un problema culturale prima ancora che politico. Un problema di egoismo delle classi dirigenti ma anche di nuove generazioni che invece di ribellarsi cedono al comodo e più redditizio conformismo. Oggi il Pd si affida a Letta, l’ennesimo salvifico segretario. Ma per risanare e rilanciare il Pd dovrebbero andarsene a casa tutti i dirigenti lasciando spazio alle nuove generazioni. La politica la fanno gli uomini. Per cambiarla devi cambiare gli uomini che la fanno. Vale per il Pd come per ogni partito come per ogni ambito di questo vecchio ed ottuso sistema paese.

Tommaso Merlo

domenica 21 marzo 2021

Caduto Conte, Marcucci apre a 4 renziani le porte del Pd.


Il capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci non ha alcuna intenzione di lasciare la sua poltrona e rimettere il mandato nelle mani del neo-segretario Enrico Letta, come si sarebbero aspettati dal Nazareno. Non una mossa obbligatoria ma sarebbe stato un beau geste, come quello di Brando Benifei al Parlamento Ue, dopo l’elezione del nuovo segretario. E così, in vista di martedì, quando Letta riunirà i senatori dem, Marcucci non solo non si dimette ma prova a convincere il segretario che a capo dei senatori deve restarci lui. Entro martedì, infatti, Marcucci dovrebbe ufficializzare l’arrivo di tre senatori renziani che tornano a casa: Eugenio Comincini, Leonardo Grimani e Mauro Marino. Si parla anche della fuoriuscita dal gruppo di Iv per tornare nel Pd del deputato Camillo D’Alessandro che nelle ultime settimane aveva chiesto il congresso nel piccolo partito di Renzi. A metà gennaio, quando i giallorosa cercavano “responsabili” per salvare il governo Conte tra i senatori di Iv, era stato proprio Marcucci (spesso considerato una colonna renziana tra i dem) a frenare i nuovi arrivi ,mentre oggi apre loro le porte.

La mossa di Marcucci non serve solo a mostrare a Letta il suo controllo sul gruppo ma anche ad aumentare i voti per farsi rieleggere capogruppo: al momento su 35 senatori Pd, quelli di Base Riformista sono 22 e altri due voti potrebbero far comodo. Un attivismo, quello di Marcucci, che ha irritato il Nazareno proprio ora che Letta propone una norma contro il “trasformismo parlamentare”. Ieri intanto Renzi ha riunito l’assemblea nazionale di Iv e lanciato la “primavera delle idee”: tre mesi di dibattiti web per “entrare in sintonia col Paese” in vista della Leopolda autunnale. Poi l’ex premier ha sfidato Letta e il Pd: “Su giustizia, sud, cantieri e lavoro decida se stare con noi o con il M5S” ha detto. Infine ha fatto capire che qualcuno potrebbe andarsene: “Chi non vuole stare con noi lo salutiamo”. Nei prossimi giorni, a inizio settimana, Letta e Renzi si incontreranno.

IlFattoQuotidiano

martedì 16 marzo 2021

Ecco perché Letta a capo del Pd è una buona notizia. - Andre Scanzi

 

Enrico Letta (di nuovo) a capo del Pd è una buona notizia? Domanda legittima, ma dalla risposta complicata. Senz’altro è una brava persona, e non è poco. Dopo il tradimento del 2014 patito da Renzi, che pochi giorni prima gli aveva detto di stare “sereno” ospite dell’amica Daria Bignardi, Letta ha navigato a distanza dal sudicio mare della politica politicante.

Profilo centrista e garbato, mai iconoclasta e poco divisivo, Enrico Letta alla guida del Pd è una buona e al contempo una meno buona notizia. Partiamo dalle meno buone. Il suo primo punto debole è il profilo da “usato sicuro”. Letta appartiene a tutti gli effetti a una nomenclatura di centrosinistra che ha fallito, al punto tale che il Pd non ha mai vinto uno straccio di elezione nazionale (Regionali ed Europee fanno storia a sé). Ritornare a Letta sa di polveroso e politichese: chi è l’elettore che dovrebbe votare – o rivotare – il Pd grazie a Letta? Bah. Al tempo stesso, Letta è una figura squisitamente priva di carisma. Se Zingaretti non sapeva incendiare le masse, con Letta non è che si avvertano miglioramenti. Mi si dirà qui che la storia del carisma è una dannazione della politica contemporanea, e che sia meglio un politico serio e silenzioso rispetto a un fanfarone falso ma mediaticamente scaltro. Siamo d’accordo, ma qui non bisogna vincere il Premio della Critica: qui c’è da vincere le elezioni, sconfiggendo questa destraccia e questi mefitici rigurgiti di renzismo. Oltre a ciò, Letta era e resta il leader Pd che ha accettato per primo l’abbraccio con Berlusconi. Anno 2013. Rodotà venne “ucciso” dal suo stesso Pd nella corsa al Quirinale (una delle più grandi vergogne della Repubblica italiana). E Letta fu la faccia dell’orrenda Restaurazione imposta dal Napolitano Bis. Lo stesso Letta, in quei giorni, diceva che Berlusconi fosse meglio dei grillini. È incredibile come, in otto anni, sia cambiato tutto.

E qui veniamo agli aspetti positivi della scelta di Letta. Una scelta assai furbina operata da Franceschini e Orlando, che hanno proposto un nome a cui la Base Riformista renziana (Guerini, Lotti, etc) non può dire di no, ma che certo non può amare. Una sorta di scacco matto, almeno per ora, sebbene il Pd resti un progetto politico drammaticamente balcanizzato (auguri, Enrico!). Letta, al momento, vuol dire due cose. La prima è che il Pd rilancerà l’accordo con M5S e bersaniani (e Sardine, e società civile), perché questa è stata la sua linea dalla nascita del Conte II a oggi. La seconda è che, con lui alla guida, Renzi non ha chance alcuna di rientrare nel Pd. Renzi è quello che lo ha accoltellato politicamente nel 2014. È quello a cui consegnò la campanella col broncio. È quello che, durante le settimane della crisi, Letta criticava duramente un giorno sì e l’altro pure. Se c’è lui al comando, possono rientrare nella “Ditta” i renziani minori ma non certo i Renzi e le Boschi.

In questo senso, verrebbe da esprimere solidarietà a quei soloni senza lettori né morale che, fino a ieri, parlavano di un Renzi “geniale e vincitore”. Come no: è il politico meno amato dagli italiani, almeno tra i sedicenti “leader”, e con la sua crisi scellerata ha consegnato il Pd a Letta e i 5 Stelle a Conte. Ovvero alle sue vittime più note, che ora verosimilmente lo isoleranno ancora di più. Davvero un “genio” e un “vincente”, ’sto Renzi!

Alla luce di tutto questo, a oggi la scelta di Letta è – lungi dal giustificare cortei – più una buona che una cattiva notizia. Tutto il resto si vedrà.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/03/16/ecco-perche-letta-a-capo-del-pd-e-una-buona-notizia/6134710/

lunedì 15 marzo 2021

Letta, primo atto d’accusa al Pd: basta correnti, via i capigruppo. - Wanda Marra

 

860 Sì. Le parole dell’ex premier che ringrazia Zingaretti e nemmeno cita gli altri “big”. Lui li attacca, loro applaudono.

“Senso del limite, decoro e rispetto”. Per imprimere la discontinuità più forte Enrico Letta, che parla per oltre un’ora, illustrando all’Assemblea del Pd, parte dallo stile. E dalla differenza (citando Pirandello), tra “maschere” e “volti”. Atti di accusa velati, ma durissimi, con un sottotesto evidente: i dem hanno sbagliato tutto e il neo segretario ha tutte le intenzioni di andare avanti per la sua strada. Il voto più che bulgaro (860 sì, 2 no, 4 astenuti) ricorda l’applauso in piedi dei partiti a Giorgio Napolitano, che dopo la sua rielezione li criticava senza pietà (ma anche l’acclamazione di Romano Prodi a candidato al Colle, poi impallinato dai 101).

Il Letta tornato al Nazareno dopo l’autoesilio parigino lo dice chiaramente: “Serve un nuovo Pd”, che torni sul “territorio”, che sia “radicale nei comportamenti”, prima ancora che “progressista e riformista”. Che “superi le correnti” e passi per una “verifica” con i gruppi parlamentari. Nella formazione degli assetti del suo Pd, l’ex premier non ha intenzione di procedere con il bilancino delle correnti. Mentre la lealtà e la tenuta dei gruppi andranno verificate, a partire da chi li guida (Graziano Delrio e Andrea Marcucci). Frutto di liste fatte da Matteo Renzi, la diffidenza è d’obbligo. Dal segretario non arrivano esplicite intenzioni di azzeramento. Ma tra gli altri big della maggioranza già circola l’idea di sostituire quanto meno Marcucci, mandandolo alla vice presidenza del Senato, dove ora c’è Anna Rossomando (orlandiana), che prenderebbe il suo posto. Letta va oltre, guarda soprattutto al futuro più prossimo: il superamento di questo modello di partito (beghe personali incluse) passa per l’immissione di altre energie, altre realtà. Da oggi inizia una consultazione nei circoli, previa consegna di un Vademecum. Ma l’appuntamento clou sono le agorà digitali in autunno: l’idea è quella di allargare la partecipazione il più possibile, a partire da giovani e donne. Da notare le omissioni del discorso. Mentre Letta ringrazia Nicola Zingaretti per averlo cercato e ricorda Sergio Mattarella, nemmeno nomina i capi corrente, Orlando, Franceschini, Guerini. Ma cita Sassoli e Gentiloni (la linea europea del Pd) e Romano Prodi, con tutto il riferimento all’eredità dell’Ulivo e Enrico Berlinguer. E Papa Francesco.

Pare che l’accordo sul suo nome sia stato fatto dopo una riunione tra Zingaretti, Bettini, Orlando e Franceschini. Ma lui non ha intenzione di rendere conto alle correnti. Sono le regole d’ingaggio.

Perché poi lo dice con una nettezza che fu solo di Renzi: “Sono qui per vincere”. Parola chiave, coalizione. Gli interlocutori che cercherà nei prossimi giorni li nomina uno per uno, compreso chi lo spodestò da Palazzo Chigi: “Speranza, Bonino, Calenda, Renzi, Bonelli e Fratoianni”. E aggiunge, “questo nostro centrosinistra andrà all’incontro con i 5 Stelle guidati da Conte”. Quest’ultimo ricambia con gli auguri e con il rilancio di un “confronto necessario”. Come conseguenza in serata a Che tempo che fa spiega che il proporzionale non gli è mai piaciuto e dice no alle liste bloccate.

Il resto viene da sé. “Il governo di Mario Draghi è il nostro Governo. È la Lega che deve spiegare perché ci sta”, chiarisce Letta (che in questi giorni ha sentito il premier). Mette lo ius soli come priorità, come scelta di civiltà. Anche un modo per sottolineare la differenza rispetto alla Lega di Salvini. Il quale non a caso reagisce “comincia male”.

Ma sarà sui temi economici che si misurerà davvero la presa del Pd sugli elettori e la sua identità. Letta ieri inizia dall’Europa, ponendo due obiettivi: rendere permanente il Next Generation Eu e un patto di stabilità fondato sulla “sostenibilità sociale e ambientale”. Poi enuncia una serie di riforme: voto ai 16enni, modifiche costituzionali contro il trasformismo, nuovo metodo di elezione dei parlamentari.

Si ferma senza averle mandate a dire, il nuovo Segretario. Pubblicamente, il coro di lodi da parte dei big è unanime. Ma poi i ragionamenti sono diversi. E ruotano intorno a un punto: Letta di “noi” (nel senso di capi corrente) ha bisogno. Mentre si pensa già a un seggio in Parlamento per lui, che ha azzerato tutti i suoi incarichi retribuiti: oltre a quello di Siena, ci sono anche quelli lasciati liberi da Martina e Minniti. Cita anche Sartre, Letta: “L’identità è per metà quello che siamo e per metà quello che vedono gli altri”. Affonda: “L’immagine che abbiamo dato è quella di una torre di Babele”. Viene in mente la Torre di Pisa (sua terra natale): pure se inclinata, una torre è difficile da abbattere.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/03/15/letta-primo-atto-daccusa-al-pd-basta-correnti-via-i-capigruppo/6133279/

sabato 19 dicembre 2020

Raggi e miraggi. - Marco Travaglio

 

L’altra sera a Otto e mezzo Carlo Calenda, reduce da un “tavolo” col Pd, ha dichiarato bel bello: “Il Pd mi ha detto che aspetta la condanna della Raggi per fare l’accordo con i 5Stelle”. Al che mi son detto: “Ora il Pd si affretterà a smentire quell’incredibile affermazione. Altrimenti verrà assalito da torme di garantisti veri o presunti, che avranno buon gioco a denunciare il giustizialismo dei dem e a domandar loro: quando mai abbiano fatto caso alla condanna di qualcuno per eliminarlo dalla vita politica; come facciano a sapere che oggi la Raggi sarà condannata in appello; e, ammesso e non concesso che lo sappiano, cosa si sognano di farlo sapere in giro, mettendo in imbarazzo i giudici che oggi si riuniranno in camera di consiglio e saranno in ogni caso condizionati dal preannuncio del Pd via Calenda: se condanneranno la sindaca, qualcuno dirà che l’avevano già deciso e comunicato al Pd prim’ancora di ascoltare la requisitoria e l’arringa, commettendo un reato; se la assolveranno, qualcuno dirà che han cambiato idea in extremis per smentire la fuga di notizie del Pd”.

Ma, incredibilmente, nessun dirigente Pd ha smentito la rivelazione di Calenda e nessun garantista all’italiana vi ha trovato nulla da ridire. Dunque si suppone che sia vero e normale che il Pd già sappia in esclusiva mondiale che oggi la Raggi sarà condannata e attenda soltanto la formalità chiamata “sentenza” per sedersi al tavolo col M5S per trattare su un altro candidato. Sempreché nel M5S prevalga la corrente dei trombati biliosi De Vito, Lombardi&C., il cui vasto programma politico per la Capitale è invariabilmente “Raggi fuori dalle palle”; e che tutti gli altri fingano di non vedere l’assurdità di un automatismo che non distingue fatti infamanti da accuse neutre, come l’interpretazione della parola “istruttoria” in una dichiarazione all’Anac su una nomina (processo Raggi) o un debito appostato nel bilancio comunale del 2018 anziché del 2016 con l’ok della Corte dei Conti (processo Appendino). Quando Lenin disse “Saranno i capitalisti a venderci la corda con cui impiccarli”, non immaginava che un giorno sarebbero arrivati i 5Stelle non a vendere la corda ai rivali, ma addirittura a regalarla. Infatti l’Appendino, dopo la ridicola condanna, si è autosospesa a norma di Codice etico e non si è ricandidata a Torino. E qualche 5Stelle spera nella condanna della Raggi per liberarsi anche di lei e coronare il sogno di una vita: diventare la ruota di scorta dei dem. I quali, mentre preannunciano a Calenda la condanna della Raggi come cosa fatta, si sono tenuti Beppe Sala sindaco di Milano dopo la condanna per lo stesso reato da cui era stata assolta la Raggi: il falso in atto pubblico.

Un falso che, diversamente da quello contestato alla Raggi senza uno straccio di prova a carico, anzi con tutte le prove a discarico, per Sala è documentale: la retrodatazione di due verbali di gara per il principale appalto di Expo, da lui firmati il 30 maggio con data 17, per sanarne ex post le gravi irregolarità. Condannato a 6 mesi, Sala giurava di non volere la prescrizione: infatti in appello l’ha incassata senza fare un plissé. E ora che si ricandida col Pd, nessuno gli ricorda il suo passato di falsificatore di appalti, anzi tutti esultano per la good news. Un minimo di coerenza, o di decenza, imporrebbe un solo metro di giudizio per tutti: se un sindaco colpevole di falso deve farsi da parte, la regola dovrebbe valere sia per Sala (condannato e prescritto, dunque ritenuto responsabile anche in appello) sia per la Raggi (in caso di condanna in appello dopo l’assoluzione in tribunale); o viceversa. Invece il falso della Raggi, finora assolta, è un reato da ergastolo. E il falso di Sala, confermato da due sentenze, è un falsetto da ridere. Ma la storia dei due gemelli diversi non finisce qui. Da quando la Raggi ha annunciato la sua ricandidatura per completare il lavoro svolto nel primo mandato, non passa giorno senza che i giornaloni deplorino la sua scelta come “ostacolo al dialogo col Pd” e “favore alle destre”, invitandola a “farsi da parte” per la compattezza dei giallorosa. Discorso già bizzarro in sé: chi l’ha detto che i candidati unitari M5S-Pd debba sceglierli sempre il Pd col 18% e mai il M5S col 33%?

I sindaci dopo il primo mandato devono potersi ricandidare per il secondo e, se si trova l’accordo, essere sostenuti dagli alleati: vale a Milano per Sala e a Roma per la Raggi; non vale a Bologna e a Napoli, dove Merola e De Magistris hanno esaurito i due mandati ed è giusto che M5S, Pd e LeU scelgano i nuovi candidati comuni. Se però si attacca la Raggi per la “corsa solitaria” che impedisce l’accordo giallorosa, bisognerebbe attaccare anche Sala per lo stesso motivo: tantopiù che ha già detto di non volere tra i piedi il M5S (se no, come fa a taroccare le carte degli appalti?). Invece Sala può, la Raggi no.

Comica finale: quello che “aspetta la condanna della Raggi” per farla fuori è lo stesso Pd che ha appena chiesto e ottenuto dalla Casellati di violare le regole del Senato per ridare il vitalizio a Del Turco, condannato per tangenti sulla sanità a 3 anni e 11 mesi e a risarcire l’Abruzzo con 700mila euro, ovviamente mai pagati. Lo stesso Pd che chiede a B., pregiudicato per frode fiscale, imputato per corruzione giudiziaria e indagato per strage, di entrare nella maggioranza in veste di “energia migliore”. A riprova del fatto che la politica è la prosecuzione del Circo Togni con altri mezzi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/19/raggi-e-miraggi-2/6042384/

venerdì 4 dicembre 2020

Stormir di fronde. - Marco Travaglio























Per non farci mancare nulla, ora abbiamo pure le fronde. Tre, senza contare quella dei renziani che ce l’hanno nel Dna. C’è quella di un drappello di senatori Pd che contestano il governo sul divieto agli spostamenti tra Comuni durante le feste. C’è quella dei 46 parlamentari 5Stelle capitanati da Morra, Toninelli e Lezzi che contestano il sì dell’Italia alla riforma del Mes. E c’è quella di 4 eurodeputati M5S che se ne vanno con supercazzole sulla buonanima di Casaleggio, sulla “difesa del pianeta e la tutela della salute dei cittadini” e sulla “fine del Movimento” a far data da cotanta perdita. Tre fronde diverse, un comune denominatore: l’assoluto e irresponsabile distacco dalla realtà. Alla fronda pidina ha risposto, a stretto giro, il dato terrificante dei morti di ieri per o con Covid: quasi mille, record assoluto dall’inizio della pandemia. In quattro giorni abbiamo avuto più vittime dell’11 Settembre e certi decerebrati vanno dietro ai capricci dei parenti stretti ed eventuali elettori. La miglior risposta alle due fronde grilline sarebbe una risata, ma siccome c’è in ballo il governo va articolata meglio.

La riforma del Mes, secondo alcuni addirittura peggiorativa di quel prestito-capestro per gli Stati in bancarotta, passerà comunque: FI o chi per essa, viste le pressioni europee, nel voto del 9 dicembre rimpiazzerà i dissidenti 5Stelle. Che così avranno ottenuto questo triplice risultato: screditare vieppiù il M5S, proprio mentre i poteri marci vogliono buttarli fuori da Palazzo Chigi e i giornaloni fanno a gara a demolire le loro conquiste (vedi le fake news del Corriere sul Reddito di cittadinanza); indebolire il governo Conte (di cui il M5S è l’azionista n.1 e che per questo è così inviso ai padroni del vapore); rafforzare il partito delle larghe intese e del governo Draghi all’insaputa di Draghi. La solita eterogenesi dei fini, già sperimentata con la linea Di Battista-Laricchia alle Regionali: il M5S rifiutò l’alleanza col Pd in Puglia, perse per strada un bel po’ di elettori che provvidero da soli, salvo poi entrare nella giunta Emiliano con un peso molto più marginale di quello che avrebbe avuto con un’intesa preventiva. Una soluzione di buonsenso l’ha indicata il viceministro Pierpaolo Sileri: il M5S fa passare la riforma del Mes e gli alleati Pd-Iv-Leu la piantano di invocare il prestito anti-Covid di 36 miliardi, visto che Conte e Gualtieri hanno ribadito mille volte che l’Italia non ne ha bisogno perché non ha problemi di cassa, non è alla bancarotta e ha già stanziato per la sanità quasi 10 miliardi in 9 mesi con vari scostamenti di bilancio. Se ne servono altri, basta prenderli dalle convenzioni fra Regioni e cliniche private. Ma, come tutte le soluzioni di buon senso, anche questa ha un’aspettativa di vita sottozero.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/04/stormir-di-fronde/6026164/

venerdì 27 novembre 2020

Per grazia ricevuta. - Marco Travaglio

 

Nel leggere le lagne quotidiane del Pd – dichiarate o spifferate ai retroscenisti di corte – contro il governo, il premier e gli alleati a 5Stelle, sorge spontanea una domanda: ma glielo prescrive il medico, a questi signori, di sostenere il Conte-2 viste le atroci sofferenze che ciò provoca alle loro animucce candide? Perché non aprono la crisi e non fanno un altro governo o ci rimandano alle elezioni e provano a vincerle? Forse si sono già scordati come e perché un anno fa erano tornati nella stanza dei bottoni. Non per merito loro, ma di Salvini: senza l’harakiri del Cazzaro, il famoso “partito a vocazione maggioritaria” veleggiava sul 16% dopo la più ciclopica batosta della storia del centrosinistra, con la prospettiva di restare all’opposizione altri vent’anni. Invece, con sua grande sorpresa, risalì al governo per grazia ricevuta e per puro culo, aggrappato alla scialuppa di Conte che, essendo da due anni in cima ai sondaggi, sommamente schifava. Salvo poi scoprire che bastava fingersi morto e mandare avanti il premier per rivedere il 20%.

Ora, da qualche settimana, non passa giorno senza una presa di distanze, uno sgambetto, un’imboscata del Pd al suo governo, e nella forma più vile e viscida perché nessuno ci mette mai la faccia. Uno stillicidio quotidiano, tipico delle guerre di logoramento. Le menate giornaliere sul Mes e sul rimpasto (ma perché non si rimpastano la De Micheli?). Le critiche alla Azzolina, prima perché non riapre le scuole, poi perché non vuole richiuderle e ora perché vuole riaprirle. La difesa dell’impresentabile De Luca che insulta premier e alleati. Gli attacchi a Morra in stereofonia con le destre. Il voto per regalare a Gasparri la licenza di diffamare. La guerra alla Raggi, magari a costo di digerire Calenda o di candidare la Lorenzin (le alleanze locali sono obbligatorie solo se il candidato è del Pd). Le mire su Rai, servizi segreti e cybersicurezza. L’insofferenza per la cabina di regia sui 209 miliardi del Recovery Fund (e chissà mai chi li ha ottenuti). Le dichiarazioni d’amore a B. Insomma, dopo un anno di distrazione che avevamo preso per timido cambiamento, il Pd è tornato a fare il Pd, cioè a dare il peggio di sé. Tant’è che non si capisce perché non si riprenda l’Innominabile e il Giglio Fradicio.

Tutte scelte legittime, intendiamoci: in politica i sentimenti non esistono e nulla è indissolubile. Basta dirlo: si apre la crisi, Conte finalmente si leva dalle palle e torna a fare il professore e l’avvocato, nasce un nuovo governo con un’altra maggioranza (auguri), guidato da uno dei tanti Cavour pidini che troneggiano nei sondaggi (non ce ne viene in mente nessuno, ma fa niente), o si va a votare. E poi si ride. O si piange.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/27/per-grazia-ricevuta/6018323/

martedì 20 ottobre 2020

La stampella, - Massimo Erbetti

 

Siete la stampella del PD…ma lo sapete cosa è una stampella? A cosa serve una stampella? La stampella è un ausilio per la mobilità utilizzato per contrastare una difficoltà motoria o un infortunio che limita la capacità di camminare…capito? Essere stampella, come dite voi non è essere sottomessi, ma aiutare qualcuno a muoversi, a camminare…altrimenti senza di noi, senza la stampella, quel qualcuno non potrebbe andare da nessuna parte…è chiaro? E poi, ma stampella di che? Che hanno fatto loro, che noi abbiamo subito? Quali atti? Quali leggi? Dai su forza, elencatene almeno due…aspetto con ansia…non vi vengono in mente vero? E certo che non vi vengono in mente, perché non ci sono, non esistono. L'agenda è la nostra, se non ci fossimo stati noi al governo, a quest'ora già stavate piangendo per il MES…come dite? Il MES lo abbiamo già firmato almeno 5 volte? Ma chi ve lo ha detto? Salvini? Ma Salvini quale? Quello che ieri sera al TG1 inveiva contro il governo per le nuove strette delle misure anti covid e le chiusure alle 24 degli esercizi di somministrazione? Ma lo stesso Salvini che è il leader dello stesso partito di Fontana che nel servizio successivo dello stesso TG, implorava il governo di chiudere tutto perché altrimenti il virus non si contiene?
E noi saremmo la stampella di qualcuno? E voi cosa siete? I boccaloni che credono a tutto e non capiscono nemmeno che il capo va in giro con la mascherina con su scritto Trump facendo finta di essere suo amico e non più di 2 anni fa pagava 50 dollari per farci una foto insieme? Lo stesso Salvini che accusa il governo di non aver fatto nulla contro il virus e se ne andato in giro tutta l'estate senza rispettare una sola regola e dicendo che il virus non c'era più? Ma se non c'era, cosa avremmo dovuto fare? Ma ringraziate l'universo che al governo ci stiamo noi, perché se ci fosse stato il vostro capo, non avreste certo avuto il tempo di pensare alle stampelle, avreste avuto ben altre cose a cui pensare. La stampella? Beh sappiate che se si toglie la stampella ad uno che ne ha bisogno, quello cade a terra…praticamente la fine che avete fatto voi dopo quel giorno di agosto…ah dimenticavo, a voi non c'è stato nemmeno di togliere la stampella…è bastato un mojto di troppo.
E poi ricordate che l'etimologia della parola stampella è: "strumento che lascia un'impronta nel terreno"...noi lasceremo il segno. 

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