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martedì 4 gennaio 2022

Il Pd e gli ex: pochi posti, tanti in corsa. - Antonio Padellaro

 

Pochi sono i chiamati perché pochi saranno gli eletti: il detto evangelico rovesciato può essere la vera (e poco confessabile) ragione delle rispostacce piovute dal Pd sul figliol prodigo Massimo D’Alema. Che nell’auspicare il ritorno al Nazareno di Articolo 1, la frangia di sinistra uscita quattro anni fa perché bullizzata da Matteo Renzi, ha usato la frase giusta al momento sbagliato.

Infatti, affermare come ha fatto l’ex leader Maximo, che il renzismo era stata la malattia da cui fuggire, proprio perché vero ha suscitato la finta indignazione dei renziani rimasti nel Pd. In realtà finalizzata a molestare, una volta di più, il segretario Enrico Letta. Ma è stata soprattutto l’occasione di un vade retro, poiché il possibile rientro armi e bagagli dei fuoriusciti accrescerà l’affollamento degli aspiranti candidati quando, presto o tardi, arriveranno le elezioni.

Un sempiterno problema acuito dal robusto taglio dei parlamentari che riguarda adesso l’intero arco partitico. Comprensibile quindi che i numerosi trasferimenti in atto di girovaghi e frontalieri della politica – ex forzisti alla corte della Meloni, ex italovivi ed ex grillini dove capita – in genere non venga accolto nei luoghi di approdo con entusiasmo per le stesse motivazioni di cui sopra. Un si salvi chi può che nel caso di Articolo 1 porterebbe nel Pd pochi voti, ma alcuni nomi piuttosto ingombranti.

Se nel caso di D’Alema parliamo di un personaggio che si è ritagliato un meritato ruolo di padre nobile della sinistra, e da lì non si muove, un rientro di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza potrebbe creare seri problemi di competizione interna. Il primo per la notevole popolarità che ha saputo conservare, per la schiettezza tutta emiliana con cui dice pane al pane assai apprezzata nei decisivi salotti tv (in confronto allo stile non proprio frizzante di Letta). Come ministro della Salute che ha combattuto la pandemia, il secondo è molto salito in visibilità e sondaggi e nel governo non c’è ministro Pd capace di tenergli testa. Si chiama concorrenza, altro che malattia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/04/il-pd-e-gli-ex-pochi-posti-tanti-in-corsa/6444508/?fbclid=IwAR1WAs5u1H3X1aqd6PFGQhBiqK48d3fBrlLcaFMtyqOSyfwhz0Gg65eYjuE

domenica 4 luglio 2021

Sennò? - Marco Travaglio

 

Guai a farsi distrarre troppo dall’ultimo show di Grillo “Te lo do io il M5S” (l’ultima gag è il Comitato dei 7 al posto del Direttorio dei 5) e dal serial “La spallata” del generalissimo Figliuolo (passato dal Cts a Santa Rita da Cascia e da “Un milione di vaccini al giorno a luglio” a “Il piano resta a 500mila” che poi sono meno). Sennò non resta tempo per la sit-com “Casa Letta”, inteso come Enrico. Da quando il Pd entrò nel governo Draghi alleandosi con la Lega, Letta non fa che ripetere che Salvini deve scegliere: o fa quello che gli dice lui, oppure molla il governo. Salvini risponde: “Sennò?” e resta nel governo continuando a fare e a ottenere tutto quel che vuole, mentre il Pd non tocca palla come 5Stelle e Leu. E tutto va avanti come prima. Anzi, se qualcuno fa notare che gli intrusi in questo governo di centrodestra non sono i partiti di centrodestra, ma quelli di centrosinistra, si sente rispondere: zitto, sennò regali Draghi a Salvini (manco fosse un pacco postale). Ergo, l’unico modo per non regalare un premier di centrodestra al centrodestra è approvare le sue politiche di centrodestra senza fiatare, anzi ringraziando e sorridendo. Che è un po’ come dire che Chiellini, nella semifinale degli Europei, deve garantire almeno due autogol nella porta azzurra, sennò regala Morata alla Spagna. Intanto Salvini, per non regalare Orbán alla Meloni, firma con Orbán, Meloni e altri nazionalisti il manifesto antieuropeista perfettamente coerente col programma della Lega, oltreché con quello della Meloni. E Letta riattacca con la tiritera: “Salvini o sta con Draghi o sta con Orbán, stare con entrambi è come tifare per l’Inter e il Milan”.

È il classico sillogismo a cazzo, visto che è proprio Draghi a tifare Inter e Milan, governando con Letta e Salvini. Infatti il manifesto Salvini-Orbán fa infuriare Letta, ma non Draghi. E Salvini, per nulla preoccupato di regalare Draghi a Letta (mission impossible), risponde: “Se non gli sta bene Orbán, Letta esca dal governo”. Infatti anche Letta tifa Inter e Milan. Almeno finché non risponderà ai “sennò?” salviniani con la conclusione di ogni aut aut che si rispetti: “Sennò il Pd esce dal governo”. Ma è proprio questo che spaventa Letta: il fatto che poi, siccome Salvini non ha alcun motivo per non essere Salvini, il Pd dovrebbe uscire per davvero. E non ne ha alcuna intenzione (certi miracoli, tipo stare al governo avendo perso le elezioni, càpitano una volta nella vita, e per il Pd è già la sesta in dieci anni). Anche perché né Salvini né Draghi lo rincorrerebbero. Quindi Letta continuerà a chiedere a Salvini di uscire dal governo e a restare al governo con Salvini, riuscendo persino a farlo apparire più coerente di lui. Sennò rischia di regalare Salvini a Draghi.

ILFQ

martedì 18 maggio 2021

Letta snobba i lavoratori non garantiti. - Antonio Padellaro

 

Non ha sicuramente torto il sociologo Luca Ricolfi quando rimprovera alla sinistra “l’iper-tutela della sua base elettorale, ossia dei garantiti, e il cinico abbandono dei non garantiti, come se questa non fosse la diseguaglianza fondamentale dell’Italia di oggi” (intervista a La Verità). Infatti, continua a fare rumore il silenzio del Pd, e del suo segretario, Enrico Letta, dopo che le conseguenze di 15 mesi di pandemia e lockdown hanno reso quasi incolmabile il fossato tra chi ha potuto contare su un salario comunque garantito (dipendenti pubblici e impiegati di aziende medio grandi) e il complesso del lavoro autonomo (commercianti, artigiani, partite Iva) dal reddito massacrato.

Stupisce che la sinistra dell’equità sociale non sembri granché interessata alla tutela di un mondo di almeno cinque milioni di persone (senza contare le famiglie) – la spina dorsale dell’economia nazionale, soprattutto al Nord – e che abbia preferito lasciarne la rappresentanza politica alla destra di Lega, FdI, Forza Italia. Anche se per il Pd il blocco dei non garantiti costituisse una causa persa dal punto di vista elettorale, come può disinteressarsene il partito cha affonda le radici nelle idee di progresso e nei valori del cattolicesimo sociale? Forse da Enrico Letta sarebbe lecito aspettarsi una spiegazione sul perché, nella non facile coabitazione di governo con il Carroccio, il Pd sia impegnato a polemizzare con Matteo Salvini quasi esclusivamente sul tema dei diritti (contro l’omofobia e a favore dello ius soli). E si tralasci, per esempio, di intervenire sul davvero poco che l’esecutivo Draghi (in linea con l’esecutivo Conte) riesce a produrre nel sostegno al lavoro non garantito. Un rimprovero che non può essere mosso al M5S: senza il reddito di cittadinanza (contestatissimo dall’establishment Ztl) gli ultimi e i penultimi di questo Paese sarebbero letteralmente alla fame. Forse però a parlare bene dei 5stelle si fa peccato.

Ps. Il direttore de La Verità assai si duole per il mio articolo di domenica dedicato al piagnisteo della destra sulla legge Zan. Ha ragione: avrei dovuto avvertirlo che lo scritto (sul vittimismo della sinistra che la destra adesso imita) era autoironico. Purtroppo, la carta stampata non consente segnalazioni come quelle televisive: per esempio, il cartello a protezione dei bambini per immagini che non capiscono o che potrebbero turbarli. O come le faccine su WhatsApp.

IlFQ


A mio parere Letta non può definirsi un uomo di sinistra. Starebbe bene al centro, tra color che son sospesi, perché non ha ancora capito da che parte stare. Fa il mestierante politico.

venerdì 7 maggio 2021

Zingaletta. - Marco Travaglio

 

Tra le notizie stupefacenti delle ultime ore, la più stupefacente è il pressing di Letta sul suo predecessore Zingaretti perché lasci la Regione Lazio con un anno d’anticipo e si candidi a sindaco di Roma. O, peggio ancora, lo faccia senza dimettersi, aspettando fino all’ultimo giorno utile (inizio settembre) per mollare la carica, così da far slittare le Regionali anticipate a qualche settimana dopo le Comunali. Il motivo è evidente: se si votasse lo stesso giorno per la Capitale e per la Regione, gli stessi elettori romani del centrosinistra dovrebbero votare separati per il sindaco (o la Raggi o Zingaretti, che già fanno scintille prima della sfida, figurarsi in campagna elettorale) e uniti per il cosiddetto “governatore” (verosimilmente espresso dalla coalizione giallorosa). Diciamo subito che questo trucchetto da magliari sarebbe umiliante per Zingaretti, per il Pd, per la coalizione, ma soprattutto per gli elettori. Un’indecenza etico-politica, oltreché la tomba di quel “nuovo centrosinistra” che il Pd di Zingaretti, con Conte, al M5S e a Leu, ha cercato faticosamente di costruire in questi 20 mesi e in cui Letta dice di credere.

Che Pd e M5S corrano separati alle Comunali è inevitabile: la Raggi aspira legittimamente al bis e il Pd non ha perso occasione di combatterla, con armi proprie e anche improprie, per tutto il mandato. Un accordo al primo turno è impensabile: nulla di strano se i dem presentano il loro candidato (Zingaretti aveva scelto Gualtieri, Letta l’ha ibernato): poi si vedrà chi fra lui e la Raggi passerà al ballottaggio e chi fra 5Stelle e Pd dovrà sostenere l’altro. Ma una forzatura assurda come sradicare Zingaretti dalla Regione sarebbe una dichiarazione di guerra al M5S alleato, che non resterebbe senza conseguenze. Il M5S sarebbe legittimato a rispondere schierando candidati forti a Milano, Torino e Bologna per mettere i bastoni fra le ruote a Sala e agli altri aspiranti sindaci Pd (per ora ignoti). E comunque i cittadini la prenderebbero malissimo: quelli del Lazio si domanderebbero che rispetto abbia Zingaretti a mollarli a metà della campagna vaccinale per traslocare al Campidoglio, fra l’altro dopo aver giurato per mesi che mai e poi mai l’avrebbe fatto; e quelli di Roma, già perplessi per la politica regionale sui rifiuti (molto simile al sabotaggio permanente della sindaca), si sentirebbero usati in una guerra di potere che non ha nulla di nobile (se è pronto Gualtieri, perché far saltare Zinga da una poltrona all’altra?). Davvero Letta pensa che basti spostare le Regionali un paio di settimane dopo le Comunali per far dimenticare agli elettori del Pd e del M5S la battaglia all’arma bianca fra Raggi e Zinga? Ma dove vive: sulla luna?

ILFQ

venerdì 23 aprile 2021

Draghi e Letta augurino lunga vita ai 5stelle. - Antonio Padellaro

 

Secondo lo stupidario politico in voga, l’autoprodotta video-catastrofe di Beppe Grillo, con successiva lapidazione del suddetto, dovrebbe comportare la rapida dissoluzione dei 5stelle, del resto giudicati in avanzato sfacelo. Oltre, di conseguenza, al fallimento di Giuseppe Conte, impegnato nella difficile rifondazione del Movimento. Con il suo definitivo ritorno all’insegnamento, e amen. Esemplare il commento soddisfatto di Matteo Renzi secondo il quale “le parole di Grillo dicono molto su cosa è diventato il Movimento 5 Stelle. O forse è sempre stato così, ma adesso se ne accorgono in tanti. Sipario”. Purtroppo per il neoimpresario di Rignano sull’Arno (con addentellati nei peggiori suq levantini) l’auspicato sipario sugli odiati grillini – ove calasse con la stessa velocità con la quale egli e Maria Elena Boschi, dopo lo storico rovescio, si rimangiarono la promessa di abbandonare per sempre la politica – comporterebbe, tanto per dirne una, l’immediata crisi del governo Draghi. Parliamo di quel capolavoro napoleonico da lui promosso grazie al quale Italia Viva, che prima poteva ricattare ogni giorno il governo Conte, oggi conta come la Superlega di Andrea Agnelli, ovvero una risata. Dalla guerra sulla piattaforma Rousseau alle polemiche sul doppio mandato alle risse tra le correnti, il M5S naviga in acque sicuramente tempestose. Ma resta pur sempre la forza politica prevalente in Parlamento, l’azionista di riferimento nell’attuale maggioranza, il contrappeso sul quale il premier può contare per arginare le nefaste incursioni del salvinismo. Quanto al Pd, è comprensibile che certi suoi illuminati esponenti gongolino nello scommettere sull’implosione grillina, e sentano l’odore del sangue (per dirla con Gad Lerner). Convinti di potersi riprendere quella quota di consensi che il Movimento acquisì a sua volta sottraendoli al Nazareno annichilito dallo choc renziano. Un calcolo del tutto sconclusionato visto che se privati sul piano delle alleanze della sponda 5stelle, con il prossimo voto autunnale nelle grandi città i pidini resterebbero come don Falcuccio, alla mercé del Salvini&Meloni. Ragion per cui fossimo in Draghi e Letta pregheremmo ogni giorno in aramaico per il rinsavimento di Grillo, per il successo di Conte, augurando lunga vita e prosperità al Movimento.

IlFQ

mercoledì 7 aprile 2021

“Sostegno a Draghi ma profonda divergenza su Conte e M5s”. Letta vede Renzi (dopo i big di centrosinistra, centrodestra e pure le Sardine).

 

I due rivali si vedono per un faccia a faccia durato 40 minuti che fonti del Nazareno definiscono "franco e cordiale". Sulle amministrative di autunno, il segretario si è limitato ad ascoltare alcune idee del leader di Italia viva. Poi ha sottolineato che considera il rapporto coi 5 stelle essenziale per costruire in prospettiva un’alternativa vincente a Fdi e Lega.

E alla fine i due rivali si sono seduti insieme. Più di sette anni dopo la monovra che lo portò a essere sfrattato da Palazzo Chigi, a quasi un mese dal suo ritorno in Italia per essere eletto segretario del Pd, Enrico Letta ha incontrato Matteo Renzi. Il leader di Italia viva è stato ricevuto nella sede di Arel, Agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta. Un faccia a faccia di 40 minuti, il cui contenuto è stato diffuso da fonti del Nazareno: i due hanno fatto un’analisi a tutto campo e convenuto sul fatto che in questo momento lo sforzo prioritario debba essere sul sostegno alla campagna vaccinale del governo e alle azioni di sostegno economiche. Letta e Renzi hanno poi ragionato sulle prospettive future trovando, spiegano ancora dal Nazareno, alcuni punti di accordo e altri disaccordo. Una è in particolare la madre di tutte le divergenze che separa Letta dall’uomo che lo cacciò da Palazzo Chigi: il rapporto Giuseppe Conte e il M5s. Rapporto che Letta considera essenziale per costruire in prospettiva un’alternativa vincente a Fdi e Lega. Renzi, invece, è il responsabile della caduta del governo Conte.

Che i due la vedessero all’opposto sui 5 stelle e sull’ex presidente del consiglio – uno dei primi big visti da Letta – era cosa nota. Sarà per questo che dal Nazareno provano a buttare acqua sul fuoco definendo l’incontro tra i due rivali come “franco e cordiale“. Sulle amministrative di autunno, invece, pare che Letta si sia limitato ad ascoltare alcune idee di Renzi. Insomma: a parlare era quello di Rignano sull’Arno, mentre il pisano ascoltava, in un incontro tutto toscano che ha animato il dibattito interno al Pd tra il 2013 e il 2014, cioè quando Renzi prima lanciò l’hashtag #enricostaisereno, per tranquillizzare l’allora premier, salvo decidere di sostituirlo a capo del governo. È per questo motivo che l’incontro tra i due era atteso sin dal ritorno di Letta in Italia. Il segretario del Pd, però, prima di Renzi ha preferito vedere praticamente tutto l’arco costituzionale. “Dulcis in fundo ha visto me? Non so quanto dulcis ma non è un problema che mi abbia visto dopo altri …il Pd ha detto che è stato un incontro franco e cordiale, io dico molto franco e molto cordiale, sono d’accordo”, ha commentato Renzi a La 7. Poi ha confermato: “Con Letta, su Conte e il M5s abbiamo opinioni diverse, questo era noto ed è stato confermato. Io non voglio stare con Salvini e Meloni a destra ma nè con i grillini e i populisti a sinistra. Letta, comprensibilmente, cerca una alleanza strategica con il M5s e Conte. Vedremo chi avrà ragione da qui ai prossimi 2 anni”. Quindi ha dato un consiglio al rivale: “Al posto di Enrico non farei accordi con i 5 Stelle”.

Prima di vedere il leader di Italia viva Letta aveva incontrato Giuseppe Conte a Roberto Speranza, cioè quelli che considera gli alleati naturali del suo partito, ad Antonio Tajani e Giorgia Meloni, le facce dell’opposizione ai dem. E pure Matteo Salvini, con il quale ha avuto modo di dialogare durante un evento in videoconferenza dell’Ispi. Poi ha incontrato Carlo Calenda, le Sardine, i Verdi, persino quelli di Demos, il network di democrazia solidale guidato da Mario Giro. Un’agenda affollata in cui il nome di Renzi sembrava non esserci mai. E infatti da Italia viva si erano lamentati: “Non ci sono stati contatti per il momento tra Letta e Renzi. Il segretario del Pd ha evitato di chiamare il leader di IV che però fa sapere di non avere alcun problema sulla questione“, avevano fatto sapere il 31 marzo. Letta si era dovuto giustificare: “Renzi? Lo incontrerò e parleremo di che tipo di futuro costruire per la Sinistra“, aveva detto a domanda diretta posta da Lilli Gruber. Che aveva chiesto: Quando intende incontrarlo? Alla fine del suo lungo giro di colloqui? “No, non è l’ultimo, devo fare ancora diversi incontri”, era stata la risposta. Che poi aveva messo le mani avanti: “Noi vogliamo costruire un’alleanza di centrosinistra con i 5 Stelle“. Renzi, invece, pare di no.

IlFattoQuotidiano

martedì 6 aprile 2021

Enrico “il tiepido” non riesce ancora a derenzizzare il Pd. - Andrea Scanzi

 

Come si sta comportando Enrico Letta da segretario del Pd? È presto per dare un giudizio definitivo, ma è abbastanza per farsi già un’idea. Così come la sua scelta giustificava applausi e perplessità, anche le sue prime mosse risultano ambivalenti.

Letta ha scelto Provenzano come vicesegretario del Pd, mossa dichiaratamente di sinistra e antirenziana. Bene. Ma ha dovuto subito bilanciare questo azzardo (per lui) con una seconda vicesegretaria ben meno divisiva come Tinagli. Il nuovo (?) segretario del Pd ha poi incontrato in rapida successione Conte, Fratoianni e Di Maio. Ovvero tre figure che puntano dritte verso quel “campo progressista” (cit. Bersani) che significherebbe chiudere per sempre con Renzi e con un’idea di centrosinistra poco sinistra e molto centro (tendente a destra). Tutti e tre si sono detti soddisfatti dell’incontro con Letta. Fin qui le cose buone.

Poi però ci sono le perplessità. Una delle prime è ciò che Michela Murgia ha giustamente chiamato “pink washing”, ovvero imporre due donne come capogruppo a Camera e Senato. Un maquillage imposto dall’alto e risolto alla maniera piddina: ovvero Marcucci che si oppone mestamente, per poi indicare un nome femminile (Malpezzi) che vuol dire ancora renzismo. E dunque nulla sposta in termini politici.

Enrico Letta, prima vittima illustre di quella tendenza allegramente traditrice di Renzi, sta facendo per ora pochissimo per attuare quella derenzizzazione totale di cui il Pd, per essere credibile e dunque votabile, ha bisogno come il pane. Il Partito democratico risulta ancora una forza oltremodo balcanizzata, devastata dalle correnti e atavicamente sorda a un rinnovamento reale. Per meglio dire: incapace di andare oltre quel “conservatorismo” genetico che da ormai dieci anni lo porta ad accettare qualsiasi governo “per senso dello Stato”: Monti, Alfano, Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Conte, Salvini, Draghi. Praticamente tutti. Con buona pace di un’identità personale che ai più, infatti, sfugge. Certo il buon Enrico non poteva fare miracoli in poche settimane, ma ha ragione Cacciari quando afferma deluso che non si è ancora minimamente capito quale idea di partito abbia in testa Letta.

Vi è poi un aspetto che risulta forse il più fastidioso, ovvero una sorta di spocchia che non dovrebbe attecchire in una figura seria e sobria come Letta. È naturale, per quanto fastidioso, che Letta come Zingaretti attacchino – con toni davvero eccessivi – Virginia Raggi. Il Pd ha il suo (buon) candidato a Roma, Gualtieri, ed è da sempre convinto che Raggi incarni il Maligno. Bah. Romano Prodi insegna però come le alleanze su scala locale siano totalmente diverse da quelle su scala nazionale, e dunque scannarsi su Roma non vuol certo dire non poter unirsi alle prossime elezioni politiche. Il punto è un altro, e lo ha ben sottolineato due giorni fa su queste pagine Barbara Spinelli: mentre i 5 Stelle provano a “rifondarsi” con Conte, il Pd appare tiepido. Statico. E con un’aria insopportabile di superiorità morale (de che?). Lo stesso Letta ha detto che spetterà a Conte trasformare il M5S in una forza non identica al Pd, ma meritevole di dialogare col Pd. Ecco, qui è bene intendersi: se è innegabile che il M5S debba cambiare e maturare, è altrettanto acclarato che Letta (o chi per lui) dovrà attuare una rifondazione analogamente “brutale”. Detta ancora più dritta: se il M5S dovrà meritare di allearsi col Pd, anche il Pd dovrà meritare di allearsi con il M5S. E il Pd attuale, con troppi Marcucci e Malpezzi in prima fila, non può certo dare lezioni di bellezza e democrazia agli altri.

IlFattoQuotidiano

lunedì 5 aprile 2021

Il nipote dello zio…. - Gianfranco Zucchelli

 

Il nipote dello zio….ovvero colui che ha detto che la Raggi è un problema per Roma.
Il nipote dello zio, ha fondato nel 2005, insieme a Angelino ALFANO la fondazione Vedrò, dal nome di una ridente cittadina trentina chiamata DRO, vicina al lago di Garda. Ne facevano parte diversi politici tra i quali: RENZI, LORENZIN, ORLANDO, De GIROLAMO, ma anche magistrati, imprenditori, artisti.
La fondazione godeva di finanziamenti annuali pari a 800 (ottocento) mila euro. Chi finanziava la fondazione? Tra gli altri, Autostrade per l’Italia (BENETTON), Lottomatica/Sisal (gioco d’azzardo) e Giovanni MAZZACURATI (Consorzio Venezia Nuova, quella del MO.S.E. e lo sperpero miliardario) e poi SKY, NESTLE’, GOOGLE, ENI, ENEL, FINMECCANICA.
In data 18 luglio 2013, il senatore 5 stelle MORRA, in Parlamento chiede trasparenza sui fondi ricevuti dalla fondazione.
Il nipote dello zio, prima ancora di diventare presidente del consiglio, andava predicando che bisognava ampliare le privatizzazioni soprattutto con ENI, ENEL, FINMECCANICA, riducendo la proprietà pubblica.
E’ diventato presidente del consiglio, poi sappiamo quello che è successo. Ha dovuto lasciare il governo e la politica perché l’attuale 2%, che allora veleggiava con un consenso popolare bulgaro, gli ha detto “stai, sereno, perché andrò al governo solo tramite elezioni”. Poi invece……
Questo signore s’è trasferito a Parigi, dove ha insegnato fino a qualche giorno fa.
E' stato chiamato d’urgenza da un P.D. in difficoltà.
Adesso il messia del P.D. (in questo periodo vanno di moda coloro che sanno camminare sulle acque, vedi DRAGHI, chiamato per “salvare l’Italia, CONTE, chiamato al capezzale dei 5 stelle) vuol dialogare non solo con CONTE, FRATOIANNI, ma anche con colui che lo ha silurato, e con quell’altro 3% che ancora non ho capito che mestiere faccia e cosa vuol fare da grande, anche se si è candidato a sindaco di ROMA, contro la RAGGI.
Dicevo questo fenomeno venuto d’oltralpe, dialoga con tutti, ma non con colei che ha smantellato un sistema di corruzione che ha strangolato la città di Roma e i suoi cittadini, che ha rimesso i conti pubblici in ordine, che ha fronteggiato a viso aperto i clan sinti Casamonica/Spada, oltre a fare pulizia nelle cooperative che gestivano i migranti, con a capo BUZZI/CARMINATI, che foraggiavano politici di ogni ordine e grado esclusi i 5 stelle.
Se questo è il genio col quale il prof. CONTE dovrà confrontarsi per trovare un’alleanza politica, beh……no grazie. Mai con chi farà accordi con il 2%, col 3 % e soprattutto denigra lo scricciolo romano.
Non so quali materie abbia insegnato in quel di Parigi il nuovo fenomeno piddino, ma molto probabilmente dovrebbe andare a lezione da un avvocato di nome Virginia RAGGI, per capire come si amministra una cosa pubblica con competenza, trasparenza e onestà.
Naturalmente le lezioni dello scricciolo romano, sono “a gratis”…..forse è il caso di approfittarne. E’ un’occasione irripetibile.

Gianfranco Zucchelli su fb

mercoledì 31 marzo 2021

Letta vede Sardine e Verdi e attacca Renzi sull’Arabia. - Giacomo Salvini

 

Il segretario: “Rapporti con i dittatori da regolare”.

Enrico Letta dice che “ci sarà tempo per incontrare tutti”. E a chi gli chiede lumi sul vertice più atteso, quello tra lui e il suo grande nemico, che nel 2014 lo “accoltellò” alle spalle con un “Enrico stai sereno!”, risponde con una battuta al vetriolo: “Devo ancora incontrare Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e Angelo Bonelli dei Verdi”. Come dire: quelli che valgono il 2%, come Matteo Renzi, dovranno aspettare. Epperò il problema è che gli appuntamenti con Fratoianni e Bonelli sono già fissati: il segretario del Pd, dopo aver visto Roberto Speranza, Carlo Calenda e Giuseppe Conte, vedrà i leader di SI e Verdi tra martedì e mercoledì. Sicuramente prima di Pasqua, per completare il giro dei leader del centrosinistra. Ma manca Renzi.

I due in queste ore non si sono sentiti e nell’agenda di Letta non è previsto un incontro con il leader di Italia Viva la prossima settimana. In serata, a Otto e Mezzo, il segretario fa sapere che incontrerà anche Renzi senza specificare quando, ma che prima deve fare “anche altri incontri”. Ma in politica i tempi e i modi contano. E tanto. Ieri Letta ha dato la precedenza anche alle Sardine che alla vigilia del suo insediamento avevano manifestato e “messo la tenda” al Nazareno per chiedere al nuovo segretario di aprirsi alla società civile. Tant’è che fonti di Italia Viva a metà pomeriggio fanno filtrare alle agenzie due righe al veleno: “Non ci sono stati contatti tra Letta e Renzi” e il segretario Pd “ha evitato di chiamare il leader di Italia Viva”. L’ex sindaco di Firenze pubblicamente dice che lo snobismo di Letta non “è un problema” e che “non ho alcun problema a incontrarlo” ma in realtà è molto irritato: “Se Letta pensa di provocarci non ha capito niente – va dicendo Renzi ai suoi fedelissimi – tanto dovrà scegliere: o noi o il M5S”. E, al momento, il segretario dem non sembra avere dubbi. E che i rapporti tra i due siano ai minimi termini lo ha dimostrato ieri sera lo stesso segretario che a La7 ha attaccato Renzi anche sull’Arabia Saudita: “C’è un vuoto normativo su temi relativi a incontri e impegni con i regimi autoritari – ha detto Letta riferendosi alla conferenza di Renzi con Bin Salman –. Noi abbiamo una posizione diversa rispetto all’Arabia Saudita, siamo vicini alla posizione dell’America di Biden”. Letta ieri è andato anche a incontrare gli iscritti nel suo circolo di Testaccio per parlare delle idee da includere nel “vademecum” di 21 punti sul Pd che verrà e ha aperto anche il dossier amministrative. Per esempio su Roma: “Penso faremo le primarie e Gualtieri è uno dei candidati – ha concluso – sulla Raggi il nostro giudizio non è quello del M5S, potrebbe essere una pietra di inciampo”.

Ma nelle prossime ore lo attende un altro tour de force sull’ultima nomina: chi dovrà essere la nuova capogruppo alla Camera. In campo ci sono Debora Serracchiani e Marianna Madia e le correnti (ieri si è riunita Base Riformista) vorrebbero evitare una conta e arrivare a un accordo prima.

IlFattoQuotidiano

martedì 30 marzo 2021

Letta sbaglia su Renzi: lo deve spegnere come dice Machiavelli. - Maurizio Viroli

 

Enrico Letta ha dichiarato, a proposito dei rapporti del senatore Matteo Renzi con il principe saudita Mohammad bin Salman: “C’è un vuoto normativo su temi relativi a incontri e impegni con i regimi autoritari. Noi abbiamo una posizione diversa rispetto all’Arabia Saudita, siamo vicini alla posizione dell’America di Biden” (Il Fatto online 26 marzo).

Ho la massima stima per Enrico Letta e mi onoro di aver partecipato più volte alle ottime iniziative e ai corsi della Scuola di Politiche che ha fondato e presiede. Ma non condivido il suo commento su Renzi. C’è davvero bisogno di una norma giuridica con tanto di sanzioni che regoli gli incontri e gli impegni dei parlamentari italiani con regimi autoritari? Non dovrebbe bastare la semplice coscienza morale a dissuadere ogni persona degna di rispetto dall’intrattenere rapporti politici e professionali con capi di regimi che violano sistematicamente i diritti umani e si macchiano di crimini orribili?

Nel caso di un rappresentante della Repubblica Italiana c’è, oltre al dovere morale, il dovere, che la Costituzione impone, di adempiere le funzioni pubbliche “con disciplina e onore”. Anche quando agisce in forma privata, un senatore o un onorevole sono pur sempre rappresentanti dell’Italia e hanno dunque il dovere dell’onore. Dovere che esige di non violare mai il principio della dignità della persona umana sancito dalla Costituzione. E davvero non occorre uno speciale rigore intellettuale per capire che stringere la mano al principe di un regime che viola i diritti umani è atto disonorevole.

Né vale addurre, a giustificazione dei propri rapporti con il principe saudita, l’argomento che gli Stati Uniti continuano a intrattenere relazioni diplomatiche con il regime saudita anche dopo che Biden ne ha denunciato i crimini. Ma altro è intrattenere rapporti diplomatici per salvaguardare gli interessi strategici del tuo Stato, altro è lodare il regime e ricevere denaro per interesse e beneficio propri. E peggio ancora è affermare di considerare un amico un principe di quel regime immondo.

A Enrico Letta mi permetto quindi di consigliare di non accennare a vuoti normativi e di esprimere invece una condanna intransigente del comportamento del senatore Renzi nei confronti del principe saudita. Consiglio, inoltre, anche a Giuseppe Conte, di non avviare alcun incontro con Renzi e di operare per isolarlo il più possibile. Per l’ovvia ragione che l’uomo si è rivelato del tutto inaffidabile. Segretario del Pd, partito cardine della coalizione di governo, ha determinato la caduta del governo Letta (14 febbraio 2014). Capo di Italia Viva, partito fondamentale per la coalizione di governo grazie ai parlamentari a suo tempo eletti nel Pd, ha determinato la caduta del governo Conte (13 febbraio 2021). Perché fidarsi ancora? Anche ammesso che riusciate a stringere buoni accordi con lui, potete stare certi che appena vedrà miglior tornaconto personale li romperà. Molto meglio averlo come aperto nemico che come infido amico.

Consigliava il savio Machiavelli che gli uomini “si debbono o vezzeggiare o spegnere”. Vezzeggiarlo non potete perché dovreste soddisfare le sue richieste e le sue richieste sono incompatibili con i progetti che avete in animo per il Pd e per il M5S; potete solo spegnerlo, ovvero renderlo politicamente innocuo. Risultato che potrete facilmente ottenere rompendo ogni dialogo con lui. Isolato, sarebbe costretto ad andare con il cappello in mano da Salvini o da Berlusconi e imparerebbe, con Dante, “sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale”.

IlFattoQuotidiano

martedì 16 marzo 2021

Ecco perché Letta a capo del Pd è una buona notizia. - Andre Scanzi

 

Enrico Letta (di nuovo) a capo del Pd è una buona notizia? Domanda legittima, ma dalla risposta complicata. Senz’altro è una brava persona, e non è poco. Dopo il tradimento del 2014 patito da Renzi, che pochi giorni prima gli aveva detto di stare “sereno” ospite dell’amica Daria Bignardi, Letta ha navigato a distanza dal sudicio mare della politica politicante.

Profilo centrista e garbato, mai iconoclasta e poco divisivo, Enrico Letta alla guida del Pd è una buona e al contempo una meno buona notizia. Partiamo dalle meno buone. Il suo primo punto debole è il profilo da “usato sicuro”. Letta appartiene a tutti gli effetti a una nomenclatura di centrosinistra che ha fallito, al punto tale che il Pd non ha mai vinto uno straccio di elezione nazionale (Regionali ed Europee fanno storia a sé). Ritornare a Letta sa di polveroso e politichese: chi è l’elettore che dovrebbe votare – o rivotare – il Pd grazie a Letta? Bah. Al tempo stesso, Letta è una figura squisitamente priva di carisma. Se Zingaretti non sapeva incendiare le masse, con Letta non è che si avvertano miglioramenti. Mi si dirà qui che la storia del carisma è una dannazione della politica contemporanea, e che sia meglio un politico serio e silenzioso rispetto a un fanfarone falso ma mediaticamente scaltro. Siamo d’accordo, ma qui non bisogna vincere il Premio della Critica: qui c’è da vincere le elezioni, sconfiggendo questa destraccia e questi mefitici rigurgiti di renzismo. Oltre a ciò, Letta era e resta il leader Pd che ha accettato per primo l’abbraccio con Berlusconi. Anno 2013. Rodotà venne “ucciso” dal suo stesso Pd nella corsa al Quirinale (una delle più grandi vergogne della Repubblica italiana). E Letta fu la faccia dell’orrenda Restaurazione imposta dal Napolitano Bis. Lo stesso Letta, in quei giorni, diceva che Berlusconi fosse meglio dei grillini. È incredibile come, in otto anni, sia cambiato tutto.

E qui veniamo agli aspetti positivi della scelta di Letta. Una scelta assai furbina operata da Franceschini e Orlando, che hanno proposto un nome a cui la Base Riformista renziana (Guerini, Lotti, etc) non può dire di no, ma che certo non può amare. Una sorta di scacco matto, almeno per ora, sebbene il Pd resti un progetto politico drammaticamente balcanizzato (auguri, Enrico!). Letta, al momento, vuol dire due cose. La prima è che il Pd rilancerà l’accordo con M5S e bersaniani (e Sardine, e società civile), perché questa è stata la sua linea dalla nascita del Conte II a oggi. La seconda è che, con lui alla guida, Renzi non ha chance alcuna di rientrare nel Pd. Renzi è quello che lo ha accoltellato politicamente nel 2014. È quello a cui consegnò la campanella col broncio. È quello che, durante le settimane della crisi, Letta criticava duramente un giorno sì e l’altro pure. Se c’è lui al comando, possono rientrare nella “Ditta” i renziani minori ma non certo i Renzi e le Boschi.

In questo senso, verrebbe da esprimere solidarietà a quei soloni senza lettori né morale che, fino a ieri, parlavano di un Renzi “geniale e vincitore”. Come no: è il politico meno amato dagli italiani, almeno tra i sedicenti “leader”, e con la sua crisi scellerata ha consegnato il Pd a Letta e i 5 Stelle a Conte. Ovvero alle sue vittime più note, che ora verosimilmente lo isoleranno ancora di più. Davvero un “genio” e un “vincente”, ’sto Renzi!

Alla luce di tutto questo, a oggi la scelta di Letta è – lungi dal giustificare cortei – più una buona che una cattiva notizia. Tutto il resto si vedrà.

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lunedì 15 marzo 2021

Letta, primo atto d’accusa al Pd: basta correnti, via i capigruppo. - Wanda Marra

 

860 Sì. Le parole dell’ex premier che ringrazia Zingaretti e nemmeno cita gli altri “big”. Lui li attacca, loro applaudono.

“Senso del limite, decoro e rispetto”. Per imprimere la discontinuità più forte Enrico Letta, che parla per oltre un’ora, illustrando all’Assemblea del Pd, parte dallo stile. E dalla differenza (citando Pirandello), tra “maschere” e “volti”. Atti di accusa velati, ma durissimi, con un sottotesto evidente: i dem hanno sbagliato tutto e il neo segretario ha tutte le intenzioni di andare avanti per la sua strada. Il voto più che bulgaro (860 sì, 2 no, 4 astenuti) ricorda l’applauso in piedi dei partiti a Giorgio Napolitano, che dopo la sua rielezione li criticava senza pietà (ma anche l’acclamazione di Romano Prodi a candidato al Colle, poi impallinato dai 101).

Il Letta tornato al Nazareno dopo l’autoesilio parigino lo dice chiaramente: “Serve un nuovo Pd”, che torni sul “territorio”, che sia “radicale nei comportamenti”, prima ancora che “progressista e riformista”. Che “superi le correnti” e passi per una “verifica” con i gruppi parlamentari. Nella formazione degli assetti del suo Pd, l’ex premier non ha intenzione di procedere con il bilancino delle correnti. Mentre la lealtà e la tenuta dei gruppi andranno verificate, a partire da chi li guida (Graziano Delrio e Andrea Marcucci). Frutto di liste fatte da Matteo Renzi, la diffidenza è d’obbligo. Dal segretario non arrivano esplicite intenzioni di azzeramento. Ma tra gli altri big della maggioranza già circola l’idea di sostituire quanto meno Marcucci, mandandolo alla vice presidenza del Senato, dove ora c’è Anna Rossomando (orlandiana), che prenderebbe il suo posto. Letta va oltre, guarda soprattutto al futuro più prossimo: il superamento di questo modello di partito (beghe personali incluse) passa per l’immissione di altre energie, altre realtà. Da oggi inizia una consultazione nei circoli, previa consegna di un Vademecum. Ma l’appuntamento clou sono le agorà digitali in autunno: l’idea è quella di allargare la partecipazione il più possibile, a partire da giovani e donne. Da notare le omissioni del discorso. Mentre Letta ringrazia Nicola Zingaretti per averlo cercato e ricorda Sergio Mattarella, nemmeno nomina i capi corrente, Orlando, Franceschini, Guerini. Ma cita Sassoli e Gentiloni (la linea europea del Pd) e Romano Prodi, con tutto il riferimento all’eredità dell’Ulivo e Enrico Berlinguer. E Papa Francesco.

Pare che l’accordo sul suo nome sia stato fatto dopo una riunione tra Zingaretti, Bettini, Orlando e Franceschini. Ma lui non ha intenzione di rendere conto alle correnti. Sono le regole d’ingaggio.

Perché poi lo dice con una nettezza che fu solo di Renzi: “Sono qui per vincere”. Parola chiave, coalizione. Gli interlocutori che cercherà nei prossimi giorni li nomina uno per uno, compreso chi lo spodestò da Palazzo Chigi: “Speranza, Bonino, Calenda, Renzi, Bonelli e Fratoianni”. E aggiunge, “questo nostro centrosinistra andrà all’incontro con i 5 Stelle guidati da Conte”. Quest’ultimo ricambia con gli auguri e con il rilancio di un “confronto necessario”. Come conseguenza in serata a Che tempo che fa spiega che il proporzionale non gli è mai piaciuto e dice no alle liste bloccate.

Il resto viene da sé. “Il governo di Mario Draghi è il nostro Governo. È la Lega che deve spiegare perché ci sta”, chiarisce Letta (che in questi giorni ha sentito il premier). Mette lo ius soli come priorità, come scelta di civiltà. Anche un modo per sottolineare la differenza rispetto alla Lega di Salvini. Il quale non a caso reagisce “comincia male”.

Ma sarà sui temi economici che si misurerà davvero la presa del Pd sugli elettori e la sua identità. Letta ieri inizia dall’Europa, ponendo due obiettivi: rendere permanente il Next Generation Eu e un patto di stabilità fondato sulla “sostenibilità sociale e ambientale”. Poi enuncia una serie di riforme: voto ai 16enni, modifiche costituzionali contro il trasformismo, nuovo metodo di elezione dei parlamentari.

Si ferma senza averle mandate a dire, il nuovo Segretario. Pubblicamente, il coro di lodi da parte dei big è unanime. Ma poi i ragionamenti sono diversi. E ruotano intorno a un punto: Letta di “noi” (nel senso di capi corrente) ha bisogno. Mentre si pensa già a un seggio in Parlamento per lui, che ha azzerato tutti i suoi incarichi retribuiti: oltre a quello di Siena, ci sono anche quelli lasciati liberi da Martina e Minniti. Cita anche Sartre, Letta: “L’identità è per metà quello che siamo e per metà quello che vedono gli altri”. Affonda: “L’immagine che abbiamo dato è quella di una torre di Babele”. Viene in mente la Torre di Pisa (sua terra natale): pure se inclinata, una torre è difficile da abbattere.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/03/15/letta-primo-atto-daccusa-al-pd-basta-correnti-via-i-capigruppo/6133279/

giovedì 11 marzo 2021

La mossa di Letta segretario: un centrosinistra con Conte. - Wanda Marra

 

Continua a fare il lavoro che si è costruito in questi anni a Sciences Po, a Parigi, Enrico Letta, mentre passano le 48 ore che si è dato per sciogliere la riserva, per decidere se accettare la guida del Pd. Anche se lui ancora non si sbilancia, il sì sembra quasi scontato: troppa la voglia di tornare alla vita politica, troppo appassionante la sfida.

Anche per uno che ha dovuto e voluto “disintossicarsi” rispetto agli effetti collaterali di quella che di base è una passione bruciante. Dunque, le 48 ore sembrano necessarie più che altro a costruire le condizioni politiche per la sua segreteria. La garanzia che Letta sta cercando si riassume nella formula “mandato pieno”. Che significa niente data di scadenza, niente congresso ravvicinato. Ed è proprio su questo punto che chi non può dire di no, si organizza per cercare di contrastarlo. E dunque, la richiesta di un congresso entro l’autunno arriva da Base Riformista, ma pure dai Giovani Turchi di Matteo Orfini, mentre un confronto vero lo chiede Goffredo Bettini. Sempre da Br arriva l’istanza di una donna vice. Se qualcuno volesse preparare un trappolone, partirebbe da qui. Se invece sa di non riuscirci, prova a garantirsi la presenza nella stanza dei bottoni quando si fanno le liste. In realtà è molto più forte la spinta per il sì che arriva dalla maggioranza. Nicola Zingaretti sta portando su Letta anche i più refrattari tra i suoi: ne considererebbe l’elezione un suo capolavoro politico, con scacco matto finale a Renzi. Dario Franceschini garantisce i numeri. Alcuni, come Enzo Amendola che ha con lui un dialogo costante sull’Europa, sono francamente entusiasti. Andrea Orlando non si mette di traverso. Paolo Gentiloni benedice. Roberto Gualtieri approva. Ieri è arrivato il sì dei sindaci, a partire da Dario Nardella, e quello del candidato ombra, il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Magari alla fine sarà un’elezione non all’unanimità, ma a maggioranza larga. La costruzione dell’operazione passa per l’interlocuzione con vari capi corrente.

La convinzione più diffusa nel Pd è che a Letta non si possa dire di no. Al netto dello standing, è piuttosto complicato politicamente: gli ex renziani non possono accusarlo di voler rifare la “Ditta”, lui un cattolico democratico, nato nella Dc. E da sinistra non possono attribuirgli spinte centriste. Un programma definito ancora non c’è, ma Letta crede nello schema del centrosinistra fino a Conte. Anche l’allargamento del Pd è nelle sue corde: non è da escludere che riporti dentro gli ex “compagni” di LeU.

Hanno contato anche gli anni fuori dalla politica attiva. Tante le sue prese di posizione per certi versi innovative rispetto al suo stesso profilo: ha definito giusto il Reddito di cittadinanza, pur dicendo che andava fatto meglio, come si è speso per il sì al taglio dei parlamentari. Dietro c’è anche un lavoro di studio sulla democrazia moderna. Per cui, su alcune forme di democrazia deliberativa si trova d’accordo con il Grillo delle origini. Così come sull’ecologismo integrale di Papa Francesco, sulla necessità di una sostenibilità ambientale e sociale. Nella sua biografia c’è anche quell’incarico mancato a presidente del Consiglio europeo: il veto arrivò da Matteo Renzi (dopo averlo defenestrato da Palazzo Chigi). L’agenda Letta – che comprendeva, in tempi meno caldi di questi, il superamento del principio di unanimità nelle decisioni sulle politiche fiscali della zona euro – è compatibile con quella del governo Draghi. Ministero della Transizione ecologica e interlocuzione “alla pari” con l’Europa compresi. Che poi tutto ciò l’ex premier riesca a realizzarlo è da vedere. Tra i suoi più sfegatati supporter di queste ore c’è chi ricorda che sul congresso non bisogna decidere adesso.

Tra i dem, l’affondamento è sempre dietro l’angolo.

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La “vittoria” di Renzi: i suoi arcinemici a capo di Dem e M5S. - Fabrizio d'Esposito

 

Tre ex premier capi di partito. E lui, Matteo Renzi, è quello che ce l’ha più piccolo. Al punto che il professore Enrico Letta, il 15 gennaio scorso, dettò da Parigi parole affilate sulla crisi provocata dagli italoviventi in odio a un altro docente, l’avvocato Giuseppe Conte: “Trovo incomprensibile e incredibile che l’Italia e in parte anche l’Europa debbano andare dietro le follie di una sola persona. Oggi è il capo di una cosa che è più piccola del Psdi”. Che affronto: Renzi che vale meno di Longo o Cariglia, senza offesa per i padri del sol nascente, simbolo del vecchio Psdi.

Era sempre metà gennaio, ma di sette anni prima, quando invece il Rottamatore era capo del Pd. E in tv da Daria Bignardi sillabò quello che è diventato uno dei più citati avvisi di sfratto in politica: “Enrico stai sereno”. A Palazzo Chigi c’era infatti Enrico Letta, presidente del Consiglio di un governo di larghe intese. Un mese dopo, il 14 febbraio, non c’era più. Sostituito da Renzi, of course.

Accade ora che i due premier fatti fuori dal Cariglia di Italia Viva siano pronti per diventare leader dei due partiti principali dell’alleanza giallorossa che fu: Letta nel Pd, Conte nel Movimento Cinque Stelle.

E pensare che nei giorni cruenti della crisi del Conte II, Renzi spiegava felice e ghignante ai suoi interlocutori il decisivo corollario del veniente governo di Mario Draghi: disarticolare, meglio far implodere sia i democratici sia i pentastellati. Disegno riuscito ma che adesso rischia di trasfigurarsi in una vittoria di Pirro per il senatore del Rinascimento arabo. Ché proprio le sue due vittime più illustri – Letta nel 2014 e Conte nel gennaio scorso – adesso si ritroveranno insieme contro di lui. Un capolavoro, sul serio.

Dell’inimicizia, chiamiamola così, di Letta con Renzi il quadro principale raffigura la scena della campanella tra i due a Palazzo Chigi, il 22 febbraio di quel fatidico e infausto Quattordici. Il premier uscente guardava altrove, tutto tranne che il premier entrante, e rispettò un distanziamento ante litteram. Fu un passaggio veloce, glaciale, con Letta disgustato che consegnava a Renzi il simbolo delle riunioni del consiglio dei ministri. La campanella, appunto. E il disgusto è il sentimento che meglio esprime la considerazione lettiana per il capetto degli italoviventi. Renzi, per esempio, si è spesso difeso dalle accuse di golpe nel 2014 (anche lui era un premier non parlamentare) e Letta una volta rispose: “Il silenzio esprime meglio il disgusto e mantiene meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti”.

Sette anni dopo la storia si è ripetuta tragicamente con il secondo governo di Giuseppe Conte. E anche stavolta Letta non ha mancato di fare la sua diagnosi spietata all’ex sindaco di Firenze: “Già a febbraio dell’anno scorso Renzi stava facendo cadere il governo Conte e la crisi fu impedita dall’arrivo del Covid a Codogno. Questa è la storia, la dimostrazione del fatto che le sue critiche al Recovery sono strumentali“.

Ancora: “Nelle elezioni del 2018 ha fatto lui le liste elettorali del Pd. Si tratta di un potere inerziale di interdizione, con il quale ha messo in ginocchio la politica italiana e ci fa fare nel mondo la figura del solito Paese inaffidabile, pizza, spaghetti, mandolino”.

Da par suo lo stesso Conte custodisce e coltiva sentimenti uguali a quelle di Letta. Quando il Cariglia di Rignano ha aperto la crisi, l’avvocato con genuina indignazione fece sapere: “Mai più con Italia Viva”. E quando poi venne costretto dal Colle e da Zingaretti a un mezzo passo indietro per tentare di ricucire, Conte si rifiutò comunque di pronunciare il nome del traditore dal due per cento nei sondaggi.

Per tutto questo oggi Matteo Renzi è il politico meno amato (o più odiato) del Paese, senza più alcun futuro di grandezza. E il disgusto per lui dei due probabili leader di Pd e M5S è la risposta migliore alla serenità che l’ex Rottamatore offre ciclicamente.

ttps://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/03/11/la-vittoria-di-renzi-i-suoi-arcinemici-a-capo-di-dem-e-m5s/6129495/

Ridiamo con Vauro.

 

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lunedì 10 giugno 2019

#Enricostaisereno, nuovo scontro Renzi-Letta. “Nel 2014 andò a casa per risultati devastanti”. “Volti pagina, si sta meglio”.

#Enricostaisereno, nuovo scontro Renzi-Letta. “Nel 2014 andò a casa per risultati devastanti”. “Volti pagina, si sta meglio”

Nel corso della sua intervista a Repubblica delle Idee a Bologna l'ex sindaco di Firenze è tornato sull'hashtag che lanciò appena un mese prima di prendere il posto a Palazzo Chigi. La replica: "Mi permetto un consiglio sulla base della mia personale esperienza; volti pagina, guardi avanti".

L’imbarazzo, gli occhi bassi, gli sguardi che si incrociano appena al momento del passaggio della campanella avevano fatto presagire, il 22 febbraio 2014, che difficilmente tra i due sarebbe mai più corso buon sangue. Ma era difficile immaginare che a distanza di cinque anni Matteo Renzi ed Enrico Letta si affrontassero nell’ennesimo diverbio a distanza sulle vicende che portarono al passaggio di consegne.
A cominciare è stato l’ex sindaco di Firenze nel corso della sua intervista a Repubblica delle Idee a Bologna. “Enrico Letta è andato a casa, su richiesta di Roberto Speranza, capogruppo del Pd, perché i risultati economici di quel governo erano devastanti“, ha detto Renzi. Per poi aggiungere: “Con Letta il Pil era a -1,7%, le riforme erano bloccate, il Parlamento fermo e quindi ci assumemmo la responsabilità di un cambio”. “La vicenda con Letta – ha sostenuto ancora – è falsata dalla mitica discussione sullo ‘stai sereno'”. Il riferimento è ovviamente a quel famoso hashtag, #enricostaisereno, che Renzi lanciò da Daria Bignardi alle Invasioni Barbariche il 17 gennaio 2014 per smentire il fatto che avrebbe preso il suo posto a Palazzo Chigi. Passò poco più di un mese ed era a fare premier.
Renzi ha commentato anche la notizia che Letta sia in corso per un ruolo importante in Europa. “Se Francia e Germania lo avessero voluto a capo della commissione ce lo avrei portato io, ma Enrico Letta è molto forte nelle redazioni dei giornali e poco nelle cancellerie“, ha detto. Su Twitter è arrivata la replica: “Leggo Matteo Renzi prendersela ancora con me – si legge – rimestando sulle stranote vicende del 2014 (5 anni fa… una vita). Mi permetto un consiglio sulla base della mia personale esperienza; volti pagina, guardi avanti. Si fanno cose interessanti e si sta anche meglio“.