Visualizzazione post con etichetta D'Alema. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta D'Alema. Mostra tutti i post

martedì 4 gennaio 2022

Il Pd e gli ex: pochi posti, tanti in corsa. - Antonio Padellaro

 

Pochi sono i chiamati perché pochi saranno gli eletti: il detto evangelico rovesciato può essere la vera (e poco confessabile) ragione delle rispostacce piovute dal Pd sul figliol prodigo Massimo D’Alema. Che nell’auspicare il ritorno al Nazareno di Articolo 1, la frangia di sinistra uscita quattro anni fa perché bullizzata da Matteo Renzi, ha usato la frase giusta al momento sbagliato.

Infatti, affermare come ha fatto l’ex leader Maximo, che il renzismo era stata la malattia da cui fuggire, proprio perché vero ha suscitato la finta indignazione dei renziani rimasti nel Pd. In realtà finalizzata a molestare, una volta di più, il segretario Enrico Letta. Ma è stata soprattutto l’occasione di un vade retro, poiché il possibile rientro armi e bagagli dei fuoriusciti accrescerà l’affollamento degli aspiranti candidati quando, presto o tardi, arriveranno le elezioni.

Un sempiterno problema acuito dal robusto taglio dei parlamentari che riguarda adesso l’intero arco partitico. Comprensibile quindi che i numerosi trasferimenti in atto di girovaghi e frontalieri della politica – ex forzisti alla corte della Meloni, ex italovivi ed ex grillini dove capita – in genere non venga accolto nei luoghi di approdo con entusiasmo per le stesse motivazioni di cui sopra. Un si salvi chi può che nel caso di Articolo 1 porterebbe nel Pd pochi voti, ma alcuni nomi piuttosto ingombranti.

Se nel caso di D’Alema parliamo di un personaggio che si è ritagliato un meritato ruolo di padre nobile della sinistra, e da lì non si muove, un rientro di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza potrebbe creare seri problemi di competizione interna. Il primo per la notevole popolarità che ha saputo conservare, per la schiettezza tutta emiliana con cui dice pane al pane assai apprezzata nei decisivi salotti tv (in confronto allo stile non proprio frizzante di Letta). Come ministro della Salute che ha combattuto la pandemia, il secondo è molto salito in visibilità e sondaggi e nel governo non c’è ministro Pd capace di tenergli testa. Si chiama concorrenza, altro che malattia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/04/il-pd-e-gli-ex-pochi-posti-tanti-in-corsa/6444508/?fbclid=IwAR1WAs5u1H3X1aqd6PFGQhBiqK48d3fBrlLcaFMtyqOSyfwhz0Gg65eYjuE

martedì 11 febbraio 2020

Il Beccaria della Laguna. - Marco Travaglio 11 febbraio 2020

L'immagine può contenere: una o più persone

Un giorno sì e uno no, il fortunatamente ex pm veneziano Carlo Nordio ci spiega sul Messaggero, edito dal prescritto Francesco Gaetano Caltagirone, che la prescrizione è un diritto inalienabile dell’imputato e bloccarla è uno obbrobrio giuridico. Accusa il Bonafede di “sgretolare definitivamente i principi minimi del diritto”, soprattutto del “diritto alla difesa”, e “quel minimo di residua civiltà giuridica con la pericolosa riforma che rende eterni i processi”. E incita Renzi a fare scudo alla prescrizione col suo corpo: “La resistenza ne accrescerebbe la dignità politica”. Il Beccaria della Laguna, che quando indossava la toga preferiva un altro Cesare (Previti, con cui fu fotografato a cena), ce l’ha pure con l’altra riforma Bonafede, quella del processo, che prevede un tempo massimo per ogni grado di giudizio e azioni disciplinari per i magistrati che sforano per colpa loro. “Proposta assurda”, tuona Nordio: “la lentezza dei processi dipende da ben altre cause e i nostri magistrati avranno tanti difetti ma non quello della poltroneria”. Vero, se si guardano i carichi medi di lavoro delle toghe italiane, le più laboriose d’Europa. Il che però non esclude sacche circoscritte di fannulloneria, che vanno sanzionate caso per caso. Sempreché, appunto, come prevede la riforma Bonafede, si dimostri che un’indagine o un processo sono durati troppo non per motivi fisiologici o esterni, ma per colpa del magistrato.

Si potrebbero citare molti esempi. Due anni fa la Corte d’appello di Torino prescrisse un condannato per stupro e pedofilia su una bambina perché il processo era durato vent’anni. Il presidente della Corte chiese scusa alla vittima e alla famiglia. Ma, a proposito di indagini su politici, c’è il caso ancor più increscioso di un pm veneziano che nel 1993-’94 si prese per competenza tutte le indagini in corso in mezza Italia sui soldi delle coop rosse all’ex Pci e al fu Psi, indagando la bellezza di 278 persone. E nel 1995, da vero Superprocuratore nazionale anti-tangenti rosse, inviò un avviso di garanzia al segretario del Pds Massimo D’Alema e al suo predecessore Achille Occhetto per ricettazione e finanziamento illecito al loro partito dalle coop rosse (fu indagato anche Craxi, ormai uccel di bosco ad Hammamet). Molto critico col pool Mani Pulite per il presunto teorema del “non poteva non sapere” (mai usato in una sola indagine milanese), il bizzarro pm scrisse nell’avviso di garanzia che i tre politici “non potevano non sapere”. Ma nessuno obiettò nulla. Poi, dopo quattro anni di indagini, nel ’98 chiese il rinvio a giudizio di 93 pesci piccoli delle coop per reati contabili e fiscali.

E chiese l’archiviazione di 180 indagati, fra cui molti politici, compresi D’Alema e Occhetto, giungendo alle stesse conclusioni a cui erano giunti diversi anni prima i suoi colleghi di Milano, Torino e Roma (quelli sempre accusati di usare il teorema del “non poteva non sapere”, mai usato da alcuni fuorché da lui): non c’erano prove che i vertici nazionali conoscessero i finanziamenti delle coop a esponenti locali dell’ex Pci. Il gup però, nel 2000, decise di non decidere, almeno su D’Alema e Occhetto (Craxi intanto era morto), perché il pm non era competente su quasi nulla, salvo i fatti avvenuti a Venezia. Dunque stralciò tre tronconi dell’inchiesta e li trasmise alle procure delle città dove avevano sede le coop coinvolte (Padova, Rovigo e Treviso) e trattenne solo i faldoni sui fatti di Venezia, con 9 imputati in tutto: i dirigenti locali del Pds e della Lega Coop, che lui stesso archiviò in blocco. Quasi sempre su richiesta dello stesso SuperPm.
Quanto a D’Alema e Occhetto, stabilì che il Superprocuratore non era competente a indagare neppure su di loro e ordinò di restituire il loro fascicolo alla Procura di Roma. Ma incredibilmente il SuperPm non lo fece, credendo che l’avesse fatto il gup e si dimenticò il faldone nel cassetto per quattro anni.

Fino al 2004, quando Bruno Vespa, lavorando a un libro, chiese notizie dell’inchiesta ai pm romani. Quelli caddero dalle nuvole, non avendo ricevuto nulla. E chiesero lumi al SuperPm, nel frattempo promosso a consulente del ministro leghista Castelli per il nuovo Codice penale. Il quale si batté una mano sulla fronte inutilmente spaziosa, aprì il cassetto pieno di polvere e ragnatele, ne estrasse il faldone su D’Alema e Occhetto con le sue richieste di archiviazione e lo spedì nella Capitale: appena 11 anni dopo l’inizio dell’indagine. La Procura di Roma richiese al gip, stavolta quello giusto, l’archiviazione dei due ex segretari. Che comunque non avrebbero più potuto subire alcun processo: trattandosi di fatti avvenuti fino al 1991, la prescrizione per gli eventuali finanziamenti illeciti (5 anni) e le ricettazioni (7 anni e mezzo) era scattata fra il 1996 e il ’98. Dunque l’amnesia del SuperPm li aveva tenuti sulla graticola inutilmente. Infatti furono risarciti dallo Stato con 9 mila euro a testa per l’ingiusto ritardo. Cioè per il “processo eterno” inflitto dal SuperPm 16 anni prima che arrivassero Bonafede e la blocca-prescrizione: a “sgretolare definitivamente” i “principi minimi del diritto”, soprattutto del “diritto alla difesa”, e “quel minimo di residua civiltà giuridica” rendendo “eterni i processi”, aveva provveduto in solitudine il nostro eroe. Che dichiarò serafico: “Era una mia inchiesta, me ne assumo la responsabilità… Dopo che avevo chiesto l’archiviazione, tutti erano convinti che la cosa fosse finita lì, nessuno si era più fatto vivo… Nessuno ha avuto danni, neanche d’immagine: infatti, 9mila euro è un risarcimento molto contenuto… Ora spero che lo Stato non chieda i soldi a me. In fin dei conti sono incerti del mestiere. Se poi mi vogliono crocifiggere, pazienza: pagherò”. Il suo nome è Carlo Nordio. Vergogniamoci per lui.


https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10215711018224663&set=gm.486632781975305&type=3&theater&ifg=1

domenica 8 settembre 2019

IL COMPAGNO BENETTON di Emidio Novi (ex deputato)


BENETTON? 30 ANNI FA ERANO PRATICAMENTE FALLITI, POI ARRIVO’ PRODI- Così l’infame famiglia ha guadagnato montagne di miliardi senza avere in tasca un solo centesimo: quella storia che nessuno ti racconta più.

Insaziabili questi Benetton, più guadagnavano meno spendevano per la manutenzione delle autostrade che avevano avuto in regalo dal centrosinistra.
Fortunati questi Benetton. In pieno delirio privatizzatore comprano dall’IRI la catena Gs. La comprano con i soldi delle banche e subito la rivendono, guadagnandoci 4500 miliardi di lire. In euro sarebbero due miliardi e 250 milioni.
Fantasiosi questi Benetton. Prodi, Ciampi e Giuliano Amato s’erano impegnati con Bruxelles e soprattutto con francesi e tedeschi a smantellare l’Iri. Massimo D’Alema li prende in parola e nel 1999 decide di privatizzare la rete autostradale di proprietà dell’Iri e quindi dello Stato. Ancora una volta i Benetton non si perdono d’animo. Una lira delle loro non la rischiano, non sia mai. Bussano a Banca Intesa e gli viene aperto. Chiedono un piccolo prestito che in euro è di 8 miliardi e l’ottengono. Con questi soldi comprano dall’Iri Autostrade. Per due, tre anni la manutenzione della rete è quasi inesistente. Con i soldi rastrellati ai caselli e l’aumento delle tariffe restituiscono i soldi a Intesa.
Le Autostrade sono una Zecca che produce moneta sonante. I Benetton semifalliti come imprenditori del tessile-abbigliamento hanno diversificato e incassano tanti di quei soldi da diventare investitori globali.
Grandi investitori, questi Benetton. Con i soldi guadagnati con una gestione finanziaria e non industriale della rete autostradale ex Iri i Benetton diventano soci degli spagnoli di Albertis e comprano il 50% della rete. Vito Gamberale si dimette dalla società Autostrade perché non ne condivide la politica. Si pensa solo a incassare soldi ma si bada poco alla manutenzione e alla modernizzazione di un asset così importante.
Insaziabili questi Benetton. Con una redditività del 25% decidono di tagliare le spese di manutenzione. Per loro le Autostrade ex Iri sono una miniera d’oro inesauribile. Aumma aumma nel 2016 ottengono una proroga quarantennale con un emendamento aggiunto all’ultimo minuto dal governo alla Finanziaria. Una vergogna. La banda Renzi è capace di tutto. I predecessori non sono stati da meno. I contratti che riguardano i concessionari delle autostrade vengono secretati.
E la trasparenza del mercato, la concorrenza, le terzietà della politica, l’occhiuta vigilanza del commissario per la concorrenza di Bruxelles? Tutto fumo, chiacchiere e distintivo.
Questa banda di malavitosi merita un decreto del governo che spazzi via la benevolenza di TAR e magistratura civile corrotta.
E che faccia capire a opposizioni e potere mediatico che “la fortuna” sta abbandonando i Benetton, e quelli come loro.

Piera Tamburi Chi sono i Benetton?
Luciano Benetton è stato senatore nel periodo 1992 e 1994 con il Partito Repubblicano Italiano.
E poi ...
Nel 1993 la Procura di Milano trasmise al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Benetton, accusato di aver favorito con manovre finanziarie illecite il fallimento dell'azienda di abbigliamento Fiorucci S.p.A., a cui era legato come membro del consiglio di amministrazione.[1]
In Argentina è uno dei più importanti proprietari terrieri; come documentato dalla televisione France 5 in un servizio del 2010 alleva con sfruttamento intensivo migliaia di pecore con criteri che possono essere ritenuti poco ecosostenibili. È inoltre coinvolto in un contenzioso aperto con le popolazioni indigene locali, i Mapuche, sulle modalità di appropriazione di estesi terreni in Patagonia, come documentato dalla trasmissione televisiva Report in un servizio andato in onda il 7 giugno 2009.[2]
Un imprenditore davvero onesto da portargli tanto rispetto ...

sabato 23 febbraio 2019

RAGIONAMENTI FUORI LUOGO (1-2) – Paolo Floris d'Arcais

Il popolo che non c’è. - (1)




Popolo vs establishment, d’accordo. Ci sono ragioni sacrosante, argomenti solidissimi. Solo che il popolo non esiste. È costituito da un coacervo di individui, gruppi, interessi, emozioni, che si intrecciano, sovrappongono, lacerano, in modo instabile, magmatico, imprevedibile. La costituzione in popolo di tale coacervo, sempre provvisoria e talvolta più che “liquida” addirittura volatile, dipende dal catalizzatore provvisoriamente vincente, cioè dalle speranze che dalle più grandi masse vengono interiorizzate al momento come non illusorie. 

Il popolo è perciò una costruzione politica, oggi addirittura elettorale, o con la temporalità dei sondaggi, definita dalle prospettive che in un dato momento riescono a essere emotivamente egemoni nelle masse, a infiammare le passioni più intense, soprattutto contro quanti vengono individuati come i nemici/cause del proprio realissimo malessere. 

Un popolo si costruisce attraverso l’individuazione dei propri valori e il riconoscimento dei propri nemici, i due processi sono intrecciati e con reciproco feedback. Ma il riconoscimento dei nemici è il più immediato, intenso, efficace, si imprime di più, è più riconoscibile, è più facilmente comunicabile. I valori devono più faticosamente farsi concretezza, programma, credibilità, argomentazione. 


Il popolo si costruisce contro l’establishment, cioè contro i poteri reali, il dominio effettivo. Dovrebbe, almeno. Poiché però neppure l’establishment è blocco assolutamente monolitico, è assai facile sviare e confondere (con sommo gaudio e spesso manipolazione dell’establishment stesso). Presentare come nemici del popolo non già l’establishment, con il quale l’antagonismo di interessi è in re, ma le più generiche e comode èlite. 

Ora, le élite sono in sostanza i gruppi dirigenti, o emergenti, o eminenti, nei vari ambiti della società. Non hanno nessuna omogeneità, sono tra loro spesso conflittuali, oltre che sempre funzionalmente assai differenziate. Le élite politiche e le élite giornalistiche sono diverse, e ancor più diverse rispetto alle élite sindacali o alle élite giudiziarie, o finanziarie, economiche, scientifiche, e via enumerando. Neppure in una società totalitaria faranno completamente blocco, kombinat. 

All’interno delle élite politiche ci saranno quelle di governo e di opposizione, e se davvero in competizione non solo non saranno assimilabili ma esprimeranno interessi e valori conflittuali, forse inconciliabili. E così non tutte le élite sindacali saranno egualmente burocratizzate, egualmente addomesticate o addomesticabili. Analogamente per i giornalisti (benché quelli che passerebbero il vaglio dei criteri stabiliti da un liberista doc come Joseph Pulitzer siano sempre più difficili da scovare). Poiché non si è palesato un catalizzatore che creasse un popolo contro l’establishment, è subentrato un catalizzatore che ha costituito un popolo contro le élite, soprattutto culturali (e contro se stesso). 

Fosse esistita una sinistra, avrebbe indicato come nemici la finanza speculativa, dunque (quasi) tutte le banche, (quasi) tutta Bankitalia che non ne ha controllato e contrastato l’avidità d’azzardo o illegale, l’imprenditoria di rapina o di rendita o di corruzione o di illegalità (di capitalismo “illuminato” in Italia ce n’è, ma davvero minoritario), cioè la maggioranza. 

Una sinistra, fosse esistita, avrebbe governato con una politica di regole concrete e stringenti per assoggettare i potenti dell’economia all’articolo 3 della Costituzione anziché vellicare e acclamare e venerare i loro animal spirits. Avrebbe perseguito i grandi evasori, e massime quanti hanno trasferito il bottino all’estero, ospitandoli nelle patrie galere, e similmente per i ladri e corrotti, e insomma i responsabili delle decine e decine e decine di miliardi annui così sottratti ai cittadini onesti (cioè ai cittadini tout court). Potendo col maltolto recuperato abbassare le tasse ai meno abbienti e rilanciare in modo opulento il welfare, rendendo visibile che ogni grande evasore in galera significa alcuni asili nido in più, e ogni corruttore o corrotto un ospedale in più. E ovviamente mentre abbassava le tasse ai più deboli le avrebbe aumentate ai più ricchi, secondo il principio costituzionale della tassazione progressiva, cioè della redistribuzione costante del reddito per ridurre anziché lasciar aumentare le diseguaglianze. E via facendo, nel senso di giustizia-e-libertà. 

Poiché però questa sinistra non c’è stata, e chi ha continuato con smaccata protervia a usurparne il nome (magari coniugandolo con un emolliente centro) ha agito solo come articolazione della destra, come parte dell’establishment, c’è stata un’altra destra, più becera ma più coerente, che ha sull’assenza di quel popolo costruito un altro popolo, spesso con le stesse persone. Perché se rinunci ai nemici del popolo finisci coi capri espiatori. La destra becera, perciò, diventa egemone dopo il governo della non-sinistra, indicando falsi nemici, che in assenza di quelli veri conquistano però le sinapsi bisognose di speranze come capri espiatori vicari: il popolo attuale di cui Salvini è il Pastore, il popolo basta-negri-sparo-a casa-mia-riapriamo-i-casini. 

Fino a che non ci sarà un catalizzatore capace di aggregare il popolo giustizia-e-libertà, il popolo realmente esistente sarà l’altro, che pesca in fondali psichici elementari e primitivi, identitari (sangue, suolo, fede) epperciò radicati, efficacissimi. Sperare di contrastare questa destra pre-fascista con revenants e cascami di ciò che ha propiziato e alimentato lunga un quarto di secolo (anzi di più, vedremo) l’egemonia di Salvini è tragica demenza. 


http://temi.repubblica.it/micromega-online/ragionamenti-fuori-luogo-1-il-popolo-che-non-ce/


La sinistra che si è fatta destra. - (2)




4 maggio 1979, Margaret Thatcher diventa primo ministro britannico. 20 gennaio 1981, Ronald Reagan viene insediato alla presidenza degli Stati Uniti. Il partito mondiale del privilegio ha vinto su entrambi i versanti dell’Atlantico. L’egemonia del neo-liberismo, però, verrà dopo. Egemonia è più di vittoria, è il radicarsi stabile, e come luogo comune, come orizzonte pensabile invalicabile, di una politica, la cui vittoria fino ad allora poteva essere rovesciata. 

L’egemonia neo-liberale si realizza in ogni paese con sfalsature temporali e resistenze diverse, ma la sua data più significativa e riassuntiva è facilmente identificabile: il 21 luglio del 1994 il congresso del Labour elegge Tony Blair come suo leader, sulla piattaforma della “Terza via”, in realtà della sudditanza della sinistra al diktat neo-liberale. La signora Thatcher, esaminando retrospettivamente la sua carriera politica, avrà ragione di dire che il suo più grande successo è stato … Tony Blair. 

Il ventennio di egemonia neo-liberale, che solo ora si incrina, non è perciò dovuto alla forza delle politiche liberali, alla capacità di governo delle destre. A realizzare tale egemonia sono state le sinistre, nel momento in cui hanno smesso di essere sinistra e si sono accucciate presso l’ideologia economica dominante, rendendola radicata, catafratta, in apparenza ineludibile. Solo con la rinuncia delle sinistre ad essere sinistra si è realizzato il mondo di T.I.N.A., There Is No Alternative. Le sinistre sono diventate semplicemente parte dell’establishment, articolazioni interne alla destra politica, meno becere, più equivoche, ancora legate al maquillage dei valori riformisti, come imbonimento della base e dell’elettorato, però, visto che nell’agire effettivo il loro orizzonte mentale e pratico era ormai quello di T.I.N.A. 

Se si vuole capire cosa è avvenuto negli ultimi quarant’anni, e disporre degli strumenti critici almeno elementari e irrinunciabili per affrontare il presente e fronteggiare e magari invertire il dilagare elettorale delle destre becere in tutto l’Occidente, bisognerà perciò cominciare con una doverosa igiene linguistica e semantica, smettendo di chiamare “sinistra”, anche nella più edulcorata versione di “centro-sinistra”, tutto ciò che è stato niente altro che destra, sempre più nettamente e ormai antropologicamente. Chiamare le cose con il loro nome non è operazione secondaria, è anzi essenziale componente dell’azione, della praxis

Una forza politica di governo ha diritto a definirsi di sinistra se, e solo se, con il suo agire riduce ogni giorno, quanto più drasticamente possibile, le diseguaglianze contro cui evidentemente si è scagliata in campagna elettorale, ottenendo i consensi al fine di combatterle. Questo è l’unico criterio. E semmai lo scarto tra il fare (o non fare) e il dire. Le promesse e la realizzazione. Con questo criterio risulta evidente che impallidisce la sinistra in Francia, e tra alti e bassi infine dilegua, già a partire dal secondo settennato di Mitterand. Che non esiste più in Germania da quando nella SPD prevale Schröder, e che in Italia comincia a venir meno quando la sacrosanta operazione Occhetto, di cambiar nome e cosa, anziché attingere fondamentalmente alle energie della società civile, per dar vita a un partito azionista di massa, come era nelle possibilità, declina a partito/federazione di correnti post-comuniste, con egemonia concorrenziale D’Alema/Napolitano, e infrangibile vocazione burocratica. 

Il punto di non ritorno viene toccato quando per le elezioni comunali di Roma del 1993 Berlusconi appoggia la candidatura di Fini, segretario Msi fresco di celebrazioni fasciste della marcia su Roma (nel ’92 era il settantesimo), con grande spolvero di saluti romani e eja eja alalà. D’Alema comincia allora il rosario di giaculatorie secondo cui non si deve criminalizzare Berlusconi, anziché inchiodarlo al suo appoggio dell’ex, neo, post-fascista Fini per sottolinearne l’estraneità radicale alla democrazia repubblicana. Il resto segue, inciuci compresi, e l’esito è noto.

Il Pd nasce perciò già come partito d’establishment, articolazione “progressista e illuminata” (davvero?) della destra politica. Fino a che non lo si ammette resterà incomprensibile quanto avvenuto in Italia nell’ultimo quarto di secolo, e indecifrabile l’ondata grillina prima e salviniana (ovvero pre-fascista) poi. Ad una ricostruzione delle vicende politiche occidentali in cui si chiamino le cose con il loro nome, e dunque destraBlair e Clinton (cui si deve lo smantellamento delle misure rooseveltiane che tenevano con qualche guinzaglio la finanza: liberata grazie a Clinton da quei “lacci e lacciuoli”, si è scatenata come sappiamo), e in Italia la filiera di progressivo cupio dissolvi D’Alema> Veltroni> Bersani> Letta> Renzi, si obietta che in tal modo di sinistra non vi sarebbe più traccia, il che è impossibile. Niente affatto: la sinistra c’è eccome, non più rappresentata da oltre un ventennio, però. Non a caso questa rivista, già dalla sua nascita (1986), parlava di sinistra sommersa. Il berlusconismo prima, il salvinismo oggi, sono il risultato di una sinistra che non c’è, o meglio che non esiste sul piano delle organizzazioni politiche, delle offerte elettorali, della rappresentanza parlamentare, benché continui magmaticamente e carsicamente, ma in modo disperatamente e disperantemente disperso, la sua azione nei meandri della vita civile. Trovare il catalizzatore che le consenta di ritrovarsi anche politicamente è l’apriti sesamo imprescindibile, ma non pianificabile a tavolino, da cui dipenderà la ripresa della vita democratica in Italia.

Chiamare le cose con il loro nome ne costituisce l’antefatto altrettanto inderogabile. Non solo perché una politica democratica ha necessità di parlare secondo il principio “nomina sunt consequentia rereum”, anziché secondo manipolazione stile Grande Fratello (nel senso di Orwell, va da sé), ma perché solo facendo entrare nel lessico corrente che il Pd è destra (e i vari cespugli rifondaroli e simili non sono sinistra perché non sono), si potranno azzerare le residue ma tenaci (e mediaticamente ostinate, al limite del fake) illusioni, che un’alternativa al pre-fascismo di Salvini e dei suoi accucciati 5 Stelle, possa avere qualcosa a che fare con il Pd, comunque rimpannucciato. 


http://temi.repubblica.it/micromega-online/ragionamenti-fuori-luogo-%E2%80%93-2-la-sinistra-che-si-e-fatta-destra/

venerdì 6 ottobre 2017

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento. - Diego Pretini

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento

Il Lìder Maximo impalla tutti, Speranza l'eterno futuro, Bersani indispensabile che ha già fatto il suo: così l'ex sindaco di Milano ha scoperto che non basta dire "uniamoci" per unire Pd e gli altri e da possibile federatore è diventato punchin-ball. Per questo il sogno proibito di Bersani sarebbe Grasso. Preferito perfino da Vendola.

Federatori che non federano, nuovo che non avanza, leader di talento ingombranti ma consunti dalla storia, assi nelle maniche abbottonate. A sinistra, presto, a sinistra: ma la macchina pare inceppata. Ex comunisti con ex socialisti, ex vendoliani con ex democristiani, scissionisti della prima ora con scissionisti della seconda che si uniscono a quelli della terza. Il campo della sinistra del centrosinistra che non c’è più è come un’aia di campagna, dove ogni galletto va a beccare in un posto diverso. Alt, avvertono tutti in coro nelle interviste, prima di tutto i programmi. Ma ora che ci provano – il superticket, la povertà nella legge di bilancio – si accapigliano parlando solo di matrimoni, divorzi, coppie scoppiate. In comune hanno l’assillo della discontinuità con le riforme di Renzi e più precisamente proprio con Renzi. 
Ma ciascuno ha un joystick diverso. Per dire: lo sforzo per una cosa semplice come far guidare a Pisapia la delegazione di Mdp a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è stato immane. Ma Tabacci, uno dei pochi che può parlare a nome dell’ex sindaco, lo descrive come amareggiato perché – dice – dentro Mdp vogliono confinarsi a una sinistra di testimonianza con Fratoianni e “quelli del Brancaccio” (cioè Tomaso Montanari e Anna Falcone, i reduci della vittoria del No), “bravissime persone che però non c’entrano nulla con la prospettiva di un centrosinistra in grado di competere”. Dall’altra parte rispondono che il centrosinistra non esiste perché è morto sotto i molti colpi inferti da Renzi: l’ultimo quando si è alleato con Alfano per sostenere Micari alle Regionali in Sicilia. Così si affollano a sinistra dirigenti che però non si sa dove dirigono, che restano a mezza altezza per motivi diversi: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Enrico Rossi, fino a Nicola Fratoianni e Pippo Civati. Fino a Giuliano Pisapia, il cui ruolo è ridotto al lumicino ogni volta che parla D’Alema, già da quella volta – a inizio settembre – in cui lo definì “l’ineffabile avvocato”. E un po’ più in là, fino ai sogni che non sembrano solide realtà: Piero Grasso e Emma Bonino. Di seguito i più in vista.

D’Alema, l’attaccapanni che precede tutti.


“Finché sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno” disse a pochi mesi dal referendum costituzionale. Per Aldo Cazzullo (Corrieredi ieri) è il più anti-renziano di tutti. Per Angelo Panebianco (Corriere di molti anni fa), “i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia, pochissimi. E D’Alema è uno di loro”. Per Renzi era il primo da rottamare e invece ha fatto come l’alligatore: è rimasto sott’acqua finché è servito, finché non ha capito che uscendo dall’acqua avrebbe divorato la preda. Non solo Renzi, ma anche il nuovo partito che lui ha annunciato per primo. I dalemiani sono rimasti di là, hanno indossato nuove maschere: Anna Finocchiaro, Gianni CuperloNicola LatorreMarco MinnitiMatteo Orfini in ordine di crescente lealtà al nuovo capo. Lui non soffre di solitudine, capotavola è dove si siede lui, disse una volta. Dopo aver garantito che Speranza è un ottimo dirigente tra l’altro più giovane di Renzi e che chi sarebbe stato il capo si sarebbe deciso con le primarie, a luglio ha definito quella di Mdp una “gestione confusa e poco efficace”.
Ha dato la possibilità a Pisapia di sognare per un po’, di fare il federatore, sapendo già che avrebbe fallito. I due non sono diversi solo perché uno è figlio del partito e l’altro un borghese civico, come li ha descritti Cazzullo. Ma anche perché l’ex sindaco continua a inseguire i sogni, mentre l’ex presidente del Consiglio non ha mai cominciato, preferendo la disillusione. Per primo D’Alema ha annunciato che ci sarebbe stata la scissione dal Pd, per primo ha detto – andando ad ascoltare il discorso “di insediamento” di Pisapia – che alle elezioni avrebbero corso da soli e contro il Pd, per primo ha capito che una coalizione sarebbe stata impossibile. Per primo ha detto che con l’alleanza tra Pd e Alfano in Sicilia il centrosinistra era finito. Per primo ha chiesto a Pisapia “maggiore coraggio” per accelerare la nascita della forza a sinistra del Pd: un simbolo riconoscibile, temi ben chiari per segnare la “discontinuità” con il lavoro fatto dal governo delle intese medie negli ultimi 5 anni. In realtà non è mai chiaro se queste cose le dice per primo perché le prevede o perché poi le fa andare così lui. Per questo a Pisapia è partita la frizione chiedendogli di farsi da parte, subissato di fischi dei dalemiani rimasti e dal silenzio glaciale del Lìder Maximo.
Ha archiviato la terza via e il blairismo, nelle interviste cita Podemos e la Linke, se non fosse ambiguo si direbbe che si è radicalizzato. E’ una croce oltre che una delizia di un pezzo di sinistra perché il suo passato pesa e contro D’Alema se la prendono tutti, una specie di antistress: “E’ l’attaccapanni a cui attaccano tutte le tattiche avverse – ha detto Bersani qualche giorno fa – Ma lui è fatto così è una personalità ma le perplessità non si possono nascondere sempre dietro D’Alema”. Ma l’impresa è sempre spostarlo da davanti.
Bersani, quest’acqua qua.
Lo paragonano a Bertinotti. Lui con la stessa espressione piena di fatica, di preoccupazione e di concentrazione che offrì da presidente incaricato nel primo incontro in streaming con i capigruppo dei Cinquestelle, nel 2013, oggi fa ancora scrosciare applausi negli studi televisivi e – racconta uno dei suoi fedelissimi, Davide Zoggia – anche nelle piazze in Sicilia. Avrebbe voluto essere Papa Roncalli, ha detto una volta, ma sembra più Papa Montini: a volte un po’ in anticipo per non rimanere schiacciato dal presente. Se avesse vinto, anziché “non vinto”, come prima cosa da capo del governo – ha ricordato di recente – avrebbe fatto lo Ius soli, su cui ora Renzi non ha nemmeno il coraggio di mettere la fiducia. Come seconda, una “norma secca anticorruzione“. Dalla corsa per il leader si è autoeliminato da tempo: la moglie ha minacciato di cacciarlo da casa se si ricandiderà a premier, ma non c’è rischio, tanto più che a questo giro il massimo del risultato può essere il quarto posto.
Ma la sua assenza ha messo davanti agli occhi dell’elettorato le alternative tipo Speranza e la platea ne è uscita terrorizzata. Quindi “quel pezzo di Ditta qua”, che in realtà crede che la Ditta sia stata scippata da un rapinatore, si aggrappa di nuovo a lui, diventato finalmente leader dopo una vita politica da gregario di lusso, competente, rasserenante. “L’eterno delfino che a 57 anni ha deciso di nuotare da solo – lo definì Fabio Martini sulla Stampa prima del congresso che avrebbe incoronato Bersani, già tre volte ministro – A forza di nascondersi, a forza di dire ‘Obbedisco’ al suo amico Massimo D’Alema che in passato lo ha ripetutamente invitato a non candidarsi, la rinuncia stava diventando la sua cifra politica. L’Amleto di Bettola”. “Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra”: sembra la definizione più adatta e l’unico sospetto nasce perché a pronunciarlo fu proprio D’Alema.
Da solo, senza D’Alema, è quello che ha combattuto di più le politiche di Renzi, rottamatrici delle idee più che delle persone. Non c’è riuscito quasi mai anche perché, appunto, ha criticato troppo presto quello che altri nel partito hanno contrastato più tardi, a tempo scaduto, tipo Orlando. Come D’Alema, però, Bersani si porta il fardello di chi dice cose già dette e vede cose già viste: gli elettori di sinistra sono da tempo un po’ suscettibili, diversi da quelli di Forza Italia che vedono solo Berlusconi. Lo prendono in giro, ma Bersani insiste a credere di parlare la lingua del popolo così le metafore non sono mai uscite dal suo breviario. L’ultima l’altro giorno, con gli animali: “Se anche in Italia si tira la volata alla destra scimmiottandoli, balbettando in modo più politicamente corretto le stesse ricette, ad esempio su fisco e immigrati, la sinistra rischia di fare la fine del coniglio davanti al leone”. La penultima alcuni giorni prima, quella dell’acqua: “Renzi ha governato tre anni con i voti che ho preso io, ed ha ribaltato quasi del tutto le cose che avevo promesso agli elettori. Se questo porterà avanti il centrosinistra e metterà sotto destra e 5 stelle, avrà avuto ragione lui; altrimenti dovrà far due conti di quello che è successo. Di noi non si preoccupi: noi porteremo acqua al centrosinistra”.

Pisapia, il punching-ball arancione.
“Giuliano Pisapia, convinto di essere un leader decisivo e destinato a saldare le varie sinistre di sorta, non sa che D’Alema non prevede per lui alcun ruolo, salvo quello di bella statuina”. Sembrava una cattiveria quella di Andrea Marcenaro sul Foglio di inizio estate. Quasi quattro mesi il basamento della statuina è quasi completato. Pisapia è stato posizionato sull’asta del gonfalone della sinistra che rimpiange Prodi e l’Ulivo, ma in realtà si ritrova a capo della Sinistra Arcobaleno. E forse nemmeno così a capo. Quando Bianca Berlinguer ha chiesto a D’Alema se è Pisapia il leader lui ha risposto: “Abbiamo detto di sì, il leader è lui”. Abbiamo detto di sì, noi, all’ineffabile avvocato, come l’ha chiamato una volta.
Altro che enzima che unisce tutto il centrosinistra, dai democristiani a Fratoianni. Piuttosto il punching-ball del luna park. A nulla è servita la lunga preparazione di Pisapia, iniziata con la scomparsa dalla scena politica alla Fanfani subito dopo aver la sciato Palazzo Marino. Credeva che tutti aspettassero qualcuno come lui che a Milano ha guidato la vittoria “arancione” e in Italia ne era il simbolo, senza accorgersi che quell’avventura è finita già da un pezzo, con lui, ZeddaDe Magistris e Orlando in ordine sparso. A Milano aveva vinto perché è una persona per bene, carattere che rischia di diventare un handicap quando sei in un ambientino pieno di tigri dai denti a sciabola. Credeva che bastasse un paciere, scoprendo che servirebbe un miracolo: l’euforia iniziale che ha unito al suo fianco l’ex rifondato Ciccio Ferrara e l’ex dc Tabacci senza i marxisti – e ha fatto aleggiare i padri nobili Enrico Letta e Prodi – è diventata ora una bell’arietta emo.
Prende schiaffi da tutti, come una comparsa di Altrimenti ci arrabbiamo. “Pisapia cambia posizione abbastanza spesso – ha detto Orfini alcune settimane fa – Perché quando ha fatto la riunione con Mdp ha firmato un documento in cui si definiva alternativo al Pd – e immagino non ci si voglia alleare con forze alternative – poi ha lanciato le primarie”. Nicola Fratoianni, capo di Sinistra Italiana, si dice “non interessato alle smentite di Pisapia” e che “il tempo è scaduto”. Irrita Roberto Speranza: “Noi stiamo aprendo le porte nella maniera più convinta possibile a Giuliano Pisapia. Dopodiché a me non convince un ragionamento in cui tutto si riduce a un gioco di personalità”. Fa sdubbiare perfino Bersani: “Nessuno qui vuol dei partitini. Vogliamo tutti un partitone. Non è quello”. Litiga di brutto con Nichi Vendola: “Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra” dice l’ex presidente della Puglia. “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in giunta” risponde l’ex sindaco.
Nonostante l’abbraccio a Maria Elena Boschi davanti al quale Mdp reagì come se avesse commemorato Farinacci, è stato quasi ignorato dal Pd che parla di lui solo nei retroscena, “da Calenda a Pisapia”, o nei sogni di Rosato, “da Alfano a Pisapia”. Per restare attaccato almeno a Mdp, i suoi comunicati stampa sono esercizi di acrobazia. Fa fatica a farsi ascoltare perfino dai senatori che si autoproclamano esponenti di Campo Progressista: parlano a titolo personale, dice un portavoce di Pisapia. “No – ha risposto uno di loro – io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna”. Mettete da parte i personalismi, ripete da mesi a due poco interessati ai personalismi come Renzi e D’Alema. Lui si è già messo da parte per esempio in Sicilia dove non sostiene né Micari col Pd né Fava con la sinistra.
Speranza, l’eterno futuro.
L’eterno delfino, l’eterno futuro, l’eterno dialogante. Per Vauro “un giovane-vecchio”. A Roberto Speranza quasi tutti riconoscono che è serio, timido, mediatore, coerente, grande ascoltatore, persona perbene, che ha studiato, che ha fatto la gavetta. Più o meno così lo descriveva la Stampa già 4 anni fa, quando già lo indicavano come “futuro leader”. Nel frattempo risulta ancora difficile trovare chi lo consideri uno che riempie le piazze e le urne. Bersani se n’è dovuto andare per un po’ e poi è tornato e Speranza sempre lì è rimasto: sotto la sua ala protettiva. E’ lì sotto dal 2012 quando Speranza era uno dei coordinatori del comitato di Bersani alle primarie per le Politiche.
Spesso si sforza di essere incisivo: “Avevamo promesso più lavoro e stabilità e ci siamo ritrovati il boom dei voucher; avevamo promesso green economy e ci siamo ritrovati le trivelle e il ‘ciaone’; avevamo promesso equità fiscale e abbiamo tolto l’Imu anche ai miliardari”. Ma non se ne accorge nessuno. Fa cose di rottura, coraggiose: si dimise quando la Boschi pose la fiducia sull’Italicum che lui considerava incostituzionale (come poi confermò la Consulta). Ma non se lo ricorda nessuno.
Gli capita di prendere sberle a gratis anche quando non fa niente di che. “Hai la faccia come il culo” gli comunicò Roberto Giachetti quando a Speranza gli venne di proporre il Mattarellum. Mani tra i capelli di Renzi, grida in pé della senatrice Ricchiuti, via alla scissione. Un mesetto prima un tizio gli lanciò addosso un iPad durante la presentazione di un libro a Potenza: “Il Pd vende armi all’Isis!”. L’episodio più doloroso resta quando Repubblica chiese a Bersani se Speranza era l’anti-Renzi: “Lo stimo, non è un segreto. Ma al di là dei nomi serve un segretario che si occupi del partito sdoppiandolo dalla figura del premier e non escludiamo a priori di pescare da campi che non sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che in giro ci sia un giovane Prodi?”. Boom, Roberto, sei stato friendzonato. Sembra sempre il suo momento e il suo momento non arriva mai. Mesi fa aveva finalmente l’occasione per misurarsi (cioè schiantarsi) contro Renzi. Zampettava sui giornali e sulle televisioni dopo la vittoria del No al referendum, in quei giorni figlia del mondo intero. “Arriverà presto il congresso Pd e io ci sarò, mi batterò. Accetto la sfida e sono ottimista perché non sono solo”. E invece un attimo prima gli hanno tolto il partito, nel senso che i suoi tutori hanno deciso di andarsene a fare Mdp. Cos’è ora Speranza?, si chiedono ogni tanto l’un l’altro nelle redazioni. Capogruppo? Possiamo dire leader? No dai, leader no. Forse tipo coordinatore. Provate voi a coordinare ex vendoliani, ex bersaniani, pisapiani e D’Alema.
Grasso, che una mattina si svegliò “Metodo”.
Una volta, raccontò, si addormentò Pietro e si svegliò “metodo”. Il “metodo Grasso” di cui parlarono i giornali all’indomani della sua elezione era quello che aveva fatto diventare lui presidente del Senato (spaccando il gruppo M5s alla prima votazione) e Laura Boldrini presidente della Camera. Il metodo lo inventò Pierluigi Bersani al quale nel 2013 venne l’idea di proporre a Grasso l’inizio della carriera politica dopo una vita nella lotta a Cosa Nostra. Ora può accadere di nuovo. A Napoli, alla festa di Mdp, Bersani aveva gli occhi a cuoricino mentre sentiva la seconda carica dello Stato raccontare che si sente ancora “ragazzo di sinistra” e come tale chiede “alla sinistra di non fare passi indietro sui principi”.
C’è quella bazzecola da superare che si chiama presidenza del Senato che lo terrà ingessato fino a primavera, ma Grasso per la terza volta potrebbe essere la soluzione ai problemi di Bersani. Grasso ha le sembianze quei tiri di carambola di certi circoli del biliardo con cui la biglia butta giù i birilli, sponda dopo sponda. Autorevole per curriculum, dialogante per carattere, è legalitario, ma non securitario, la giustizia sociale accanto a quella dei tribunali. Dice cose di sinistra, pronuncia spesso parole di verità, gli piace il genere antifà. Negli ultimi dieci giorni ha detto che: lo Ius soli va votato, il codice antimafia deve rimanere così perché era nel programma (del Pd), la sinistra non deve fare passi indietro sui suoi principi, che la prima regola della politica è l’etica(bisogna saper scegliere i candidati prima che arrivino le condanne). Ha detto che i partiti devono smetterla di scrivere le leggi elettorali solo per convenienza e ha fatto incazzare Orfini. Ha detto che dobbiamo dare l’asilo anche ai migranti economici perché lo dice la Costituzione e ha fatto incazzare la Lega Nord. Fa incazzare spesso il Pd, come quando si mise seduto in Aula tutto sorridente e decise per conto suo di far votare la richiesta d’arresto di Antonio Caridi, primo parlamentare accusato di associazione mafiosa (il Pd voleva trastullarselo fino a dopo il ddl editoria).
Non si contano le volte che ha fatto incazzare il M5s: i senatori grillini perdono la testa soprattutto quando loro si agitano rossi in volto – come per abitudine – e lui gli risponde col tono di un bonzo tibetano, con lo sguardo disincantato. La spalla preferita è il senatore Lello Ciampolillo. Una volta segnalò dei “pianisti”, quelli di Forza Italia cominciarono a tirargli palline di carta. Grasso lo rassicurò sulla sua incolumità: “Senatore Ciampolillo, la presidenza ha visto tutto. Ha visto anche che non l’ha colpito”. Stimato da destra, Vendola lo preferisce a Pisapia. “Grasso è una grande personalità – dice D’Alema – E’ stato un giovane militante di sinistra, l’abbiamo candidato e eletto presidente del Senato. Non è certo una new entry”. Un ineffabile presidente, in altre parole.
C'è del caos in quel di .....sinistra! sempre che si possa definire sinistra una compagine che si adopera per proteggere Banche, Vaticano, potere economico.... e che si è posizionata così in centro che si è confusa e fusa con l'altro centro, quello di destra...

domenica 29 gennaio 2017

Cose dell'altro geo.....

D'Alema: Al via raccolta fondi e adesioni, tutti liberi se si va al voto


D'Alema: "Al via raccolta fondi e adesioni, tutti liberi se si va al voto"

http://www.adnkronos.com/fatti/politica/2017/01/28/alema-via-raccolta-fondi-adesioni-tutti-liberi-voto_YFzMcSVTH84Neks2P3AOZK.html?refresh_ce

***********************************

Non si schiodano, mungere la vacca fino a sfinirla è il loro hobby preferito. Questa gente non ha mai lavorato, vive da sempre alle spalle di chi lavora. E mentre non lavora, sfrutta i ricavi leciti ed illeciti del suo NON-lavoro per costruirsi patrimoni da favola. 
Questi servi del potere economico, non hanno alcuna coscienza, sono privi di ogni sentimento, godono nel possedere cose e persone. Si sentono dei, vivono al di fuori dal mondo reale, ma non disdegnano imporre regole coercitive a chi li mantiene spacciandole per magnanimità personali.
Rappresentano una calamità, dovremmo liberarcene definitivamente, anche mandandoli in esilio, pena l'ergastolo se dovessero, malauguratamente per loro e per noi, rimettere piede sul suolo che per troppo tempo hanno calpestato.
Mettiamoli al bando!

byCetta

giovedì 16 aprile 2015

D'Alema: "Incivile pubblicare le intercettazioni. Colpita la mia dignità"


"Lo dissi anche quando la campagna fu contro Berlusconi"


Roma, 13 apr. (askanews) - Quello delle intercettazioni è un tema "sul quale condivido il pensiero del presidente del Consiglio". Lo ha detto Massimo D'Alema a 'Otto e mezzo', su La7, ribadendo che sull'intercettazione che lo riguarda, nell'ambito dell'inchiesta sulla cooperativa Cpl Concordia, "era doveroso che la magistratura approfondisse, non che l'intercettazione fosse pubblicata". D'Alema se ne accorge solo ora dell'uso che viene fatto delle intercettazioni? "No, molti anni fa quando una campagna di questo tipo riguardò Berlusconi - ha risposto - io dissi che la pubblicazione delle intercettazioni era un fatto incivile". "Pubblicare l'intercettazione non era doveroso ma indagare su cosa significasse sì. Io ho fatto conferenze, iniziative normali, che ho fatto anche per altre imprese. Non so come loro le abbiano percepite, ma quello che io so è che non avendo fatto nulla da molti giorni il mio nome è associato a uno scandalo", ha aggiunto D'Alema, che ha attaccato i media ("non cito nemmeno la testata perchè non se lo merita") spiegando che "alle volte si raggiungono dei limiti tali...": "Si sono inventati la gita delle coop per andare al Vinitaly a comprare il vino che produce la mia famiglia - ha spiegato -. E' stata colpita non solo la mia rispettabilità ma anche la sicurezza mia e della mia famiglia". Int

lunedì 15 dicembre 2014

Mafia Capitale e l'affare sulla Nuvola di Fuksas: spuntano i nomi di D'Alema, Alfano, Fassina.

Mafia Capitale e l'affare sulla Nuvola di Fuksas: spuntano i nomi di D'Alema, Alfano, Fassina

Massimo D'AlemaStefano FassinaAngelino Alfano
Ci sono anche i loro nomi nelle intercettazioni finite nell'inchiesta su Mafia Capitale. E' di loro che parlano l'ex direttore marketing dell' Eur Spa Carlo Pucci e un commercialista, il consigliere della Marco Polo Spa (già nel consiglio di amministrazione dell'Ente Eur) Luigi Lausi che gli inquirenti considerano come il facilitatore dei pagamenti verso le coop di Buzzi per le commesse per l'Eur. Al centro della conversazione un misterioso affare legato alla Nuvola, il nuovo centro congressi progettato da Massimiliano Fuksas, opera i cui tempi e costi si sono via via dilatati negli anni, sfociando in un'indagine della Corte dei Conti.
Le intercettazioni - Nell'intercettazione, pubblicata dal Giornale, Lausi dice che Francesco Parlato, il responsabile della direzione generale Finanza e Privatizzazioni del Mef, azionista di Eur per il 90 per cento "è l' artefice, l'ideatore, il suggeritore, quello che non ha fatto capire un cazzo a Fassina, il deus ex machina insieme a Di Stefano di questa operazione". Di quale operazione - che farebbe capo a Marco Di Stefano (il deputato del PD autosospeso dopo che la procura l' ha accusato, in un' altra inchiesta, di aver preso una tangente da 1,8 milioni) e al dirigente del ministero di cui Fassina era sottosegretario - si parli, non è dato sapere. Ma Lausi è un fiume in piena. "Bisogna cacciare Parlato. Parlato è il colpevole numero uno di questa situazione, la mia relazione è stata data a Parlato due anni fa. Che parlasse col Senatore, ok? Perché questa relazione ce l' ha anche il Senatore, la cosa è nota da due anni. Loro mi ammazzano perché io ho detto due anni fa quello che sarebbe accaduto. Chiaro? Questo è».
"Alfano già lo sa" - Poi Lausi aggiunge: "Tieni presente che questa cosa Alfano già la sa". Pochi minuti e Pucci richiama Lausi per continuare il discorso. "Lui - gli spiega il commercialista riferito a Piergallini di Eur Spa - sta facendo una questione di principio, con 396 milioni di debito che oggi avete sul collo. È una situazione insostenibile. È Parlato - ribadisce Lausi - che deve saltare, ha ragione il senatore Esposito (presumibilmente Giuseppe Esposito di Ncd, ndr), ci ho parlato stamattina, stavo là con lui, Alfano già sa tutto, è quello che deve salta', mo' vado da D'Alema, mi faccio porta' da Di Cani, prossima settimana che tanto viene a Roma, è il mio avvocato, amici d' infanzia, mo' ce faccio un piatto che la metà basta". L'operazione, evidentemente opaca, che Lausi vuol portare a conoscenza pure di D'Alema e Fassina e che Alfano già conosce, potrebbe riguardare l' albergo in costruzione con la Nuvola. Fa propendere per questa ipotesi una telefonata tra gli stessi interlocutori, quattro giorni dopo. Lausi chiede a Pucci "se vi fossero novità, verosimilmente all' Eur Spa", e Pucci replica: "Caos totale".

giovedì 26 giugno 2014

Fondi europei, il tesoretto di D’Alema: alla sua Fondazione 3 milioni di euro l’anno. Salvatore Cannavò

Massimo D'Alema


L'ex presidente del Consiglio guida la Foundation for European Progressive Studies (Feps), che dal 2008 ha ricevuto dall'Ue 16,7 milioni di euro. La dirige fin dalla nascita e al suo interno ha portato sempre una cerchia ristretta di fedelessimi.
Ad Alan Friedman che lo intervista per La7Massimo D’Alema risponde orgoglioso: “Abbiamo fatto questa fondazione, legata al Parlamento europeo, sul modello tedesco, e io ne sono il presidente”. La fondazione in questione è la Feps, Foundation for European Progressive Studies, pensatoio del progressismo europeo, più prosaicamente, l’area dei socialisti europei. D’Alema ne è il presidente fin dalla nascita, nel 2008-2009 e, come vedremo, al suo interno ha portato sempre una cerchia ristretta di fedelessimi.
Il “modello europeo” significa, di fatto, il finanziamento pubblico da cui, come le fondazioni dei partiti in Germania, proviene la maggior parte dei fondi. Nel caso in questione, il finanziamento europeo, circa 3 milioni di euro l’anno, copre, come da regolamento, l’85 per cento delle spese documentate, lasciando ai soci fondatori delle fondazioni sovranazionali l’onere di recuperare il restante 15 per cento.
Dalle casse di Bruxelles, dal 2008 a oggi, i soldi affluiti nelle casse della Peps ammontano a 16,7 milioni di euro. Per il 2014 la previsione di entrata è di 3.086.695 euro che andrà poi confermata nella seconda metà dell’anno. Negli anni precedenti lo scarto tra quanto previsto e quanto poi effettivamente incassato è sempre stato molto minimo. Nel 2012, ultimo anno di liquidazione accertata, le entrate furono di 2.794.525 euro e l’anno precedente 2.709.255. Cifre in rapida ascesa rispetto ai fondi di inizio avventura: nel 2008, infatti la Feps ebbe dall’Europa “solo” 1.208.436 euro ma erano riferiti solo a una parte dell’anno.
Come ovvio, questi soldi non sono di proprietà diretta di Massimo D’Alema che, in quanto presidente di una Fondazione pluri-nazionale e pluri-partitica è solo il rappresentante ufficiale. Nel team che lavora alla Feps, ad esempio, c’è solo un italiano, il segretario generale viene dal potente sindacato tedesco, Dgb, i fondi sono destinati per un terzo agli stipendi, ma una buona fetta, 1.162.727 euro, sono stati spesi per “Meeting e costi di rappresentanza”, quindi orientati dal presidente.
Per ottenere i finanziamenti il regolamento prescrive che, oltre ad avere personalità giuridica “diversa da quella del partito” e non “promuovere fini di lucro”, la fondazione deve “essere affiliata a un partito politico a livello europeo riconosciuto dal regolamento” e deve avere un “organo di gestione con una composizione equilibrata a livello geografico”. Il rapporto con i partiti, quindi, esiste e non esiste, nella classica sfumatura di grigio che si utilizza in questi casi. Formalmente siamo di fronte a un progetto dal profilo culturale che vede come partner le fondazioni culturali di tutti i paesi europei, alcune molto illustri come la Fabian Society inglese, la francese Jean Jaurèso l’Olof Palme International centre svedese. L’affiliazione a un partito, in questo caso il Pse – che, come vedremo ha i suoi fondi – è però decisiva e solo l’abilità dell’ex segretario Ds è riuscita a portare la fondazione nella propria orbita esclusiva.
La mano di D’Alema è evidente nella cerchia di sigle e uomini che figurano nella Feps. Nel “bureau” della fondazione, oltre al presidente, ai vice-presidenti, ai membri di ufficio ci sono i rappresentanti delle fondazioni nazionali. Tra questi, come segretario di ItalianiEuropei, c’è Andrea Peruzy, che costituisce un solido braccio destro dell’ex presidente del Consiglio tale da aver fatto parte di consigli di amministrazione importanti come l’Acea di Roma, da cui è uscito, o la Banca del Mezzogiorno creata da Giulio Tremonti. Le altre fondazioni che affiancano quella di D’Alema, e di Giuliano Amato, costituiscono una sorta di “unità della sinistra” in sedicesimo: la Fondazione Socialismo presieduta dall’ex craxiano Gennaro Acquaviva, il Centro per la Riforma dello Stato, fondata da Pietro Ingrao, lo storico Istituto Gramsci, ma anche l’associazione Bruno Trentin di proprietà della Cgil. Per ognuno di queste componenti c’è un posto nel Consiglio scientifico della Peps: da segnalare, sempre per ItalianiEuropei, la presenza del viceministro allo Sviluppo Economico, Claudio De Vincenti, dal peso politico oggi rilevante soprattutto nelle crisi industriali.
La fondazione dalemiana non è l’unica a ricevere fondi europei. Tutte le varie componenti godono del ricco privilegio. La più ricca è quella del Ppe, Martins Centre con circa 4,5 milioni di euroall’anno; i liberali, con il Liberal Forum, ne ricevono 1,3 mentre i Verdi, con la Green Europe Foundation, arrivano a 927 mila euro l’anno. Anche la sinistra “radicale” ha i suoi fondi con la fondazione Trasform, che ha un suo corrispettivo in Italia la cui attività, da quanto risulta dal sito, non è consultabile.
Nel bilancio europeo, relativo al 2014, sono stati stanziati, per tutte le fondazioni, oltre 14 milioni di euro. A questi vanno aggiunti i 27,7 milioni destinati, invece, ai partiti europei, quelli cioè che sono rappresentati “in almeno un quarto degli stati membri da membri del Parlamento europeo o da membri dei parlamenti nazionali o regionali”. Il più grande, il Ppe, riceverà per quest’anno circa 9,5 milioni di euro, il Pse ne prenderà 6,3, i Verdi 1,9 mentre 1,2 milioni di euro andranno al Partito della sinistra europea di cui fa parte Rifondazione comunista. Ma ci sono anche i 2,8 milioni per i liberali e l’1,9 per i Conservatori e Riformisti. Ci sono 650 mila euro annui che vanno al Partito democratico di François Bairou e Francesco Rutelli (oltre a 300 mila euro alla loro fondazione), 454 mila euro all’Alleanza europea per la libertà di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Anche per loro l’Europa è una manna dal cielo.