Visualizzazione post con etichetta Grasso. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Grasso. Mostra tutti i post

mercoledì 16 marzo 2022

Censura democratica. - Marco Travaglio

 

Da tre settimane il circoletto onanista-atlantista che se la canta e se la suona è alla disperata ricerca di qualcuno che difenda l’armata russa e giustifichi i fiumi d’inchiostro versati contro il presunto “partito italiano di Putin”. Si è provato a iscrivere al Cremlino chi ricorda le responsabilità della Nato nell’accerchiamento della Russia. Ma non ci è cascato nessuno: pure Biden nel 1997 e Kissinger nel 2014 dicevano le stesse cose, tuttora condivise da fior di analisti occidentali; e sono proprio gli atlantisti a dire che la Nato con l’Ucraina non c’entra nulla. Allora si è inventato che chi critica l’invio delle armi alle milizie ucraine (inclusi i ceffi con la svastica del battaglione Azov) sta con Putin. Ma non ha abboccato nessuno: tutti gli esperti spiegano che le nostre armi non ribalteranno l’esito della guerra pro Ucraina, ma contro, allungando il conflitto con più perdite di civili e di territori. Figurarsi il sollievo quando le Sturmtruppen hanno finalmente trovato un intellettuale equidistante fra Ucraina e Russia: Povia (che è pure No vax, quindi vale doppio). Ecco perché i panciafichisti occidentali non si decidono a scatenare la terza guerra mondiale, malgrado gli appelli di Zelensky e della sua moderatissima vice: per via di Povia. Che però non è solo. Ieri Aldo Grasso, il Povia dei guerrafondai, ha smascherato il suo complice: Maurizio Crozza, capofila del “‘neneismo’ oltraggioso della sinistra radicale”.

E dove sarebbe l’oltraggio? Tenetevi forte: Crozza ha financo mostrato la cartina d’Europa con l’avanzata della Nato a Est dopo che nel 1990 il Segretario di Stato Usa Baker aveva promesso a Gorbaciov “non un centimetro più a Est”. Poi la Nato si mangiò dieci Paesi, fino al confine ucraino. Ma questo, spiega Grasso, fu perché quei Paesi “preferiscono vivere, di loro spontanea volontà, sotto l’ombrello della Nato”: lui è convinto che la Nato sia una bocciofila dove paghi la tessera e ti iscrivi: non sa che devi essere invitato, e solo a patto di non compromettere la sicurezza degli altri membri, come invece è avvenuto invitando Paesi che era meglio lasciare neutrali. Per chi non si sentisse abbastanza oltraggiato da una cartina, c’è di peggio: “Per rafforzare il suo antiamericanismo, Crozza ha ricordato che a Cuba nel ’62 gli Usa mica han lasciato che i russi gli mettessero i missili ai confini”. E, siccome Crozza conosce la storia meglio di Grasso, “la sua satira diventa comizio”. È lo stesso argomento usato dai berluscones contro Luttazzi e i Guzzanti che dicevano le verità proibite dal regimetto. Lo stesso argomento usato dai putiniani contro chi dice le verità proibite dal regime. Cose che càpitano nei Paesi democratici che, a furia di esportare la democrazia di qua e di là, hanno esaurito le scorte.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/16/censura-democratica/6527023/

domenica 18 aprile 2021

“Il vitalizio a Formigoni è un vulnus enorme, intervenga la Consulta”. - Ilaria Proietti

 

Lui, per carità, non lo dice. Ma con la Commissione Contenziosa presieduta dal parlamentare di Forza Italia Giacomo Caliendo che, per ridare il vitalizio all’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, ha cancellato la delibera che nel 2015 aveva stabilito di negare l’assegno ai parlamentari condannati per reati di particolare gravità, è come se al Senato si fosse consumato una specie di golpe. Anzi un autogolpe. Con un conflitto di poteri tra organi interni di Palazzo Madama che non ha precedenti nella storia della Repubblica.

“Esaminiamo da un punto di vista giuridico la questione: la Commissione Contenziosa è come un tribunale. Ma la delibera che ha annullato vale come una legge in un sistema in cui i regolamenti di Palazzo Madama hanno rango addirittura superiore, tra legge ordinaria e legge costituzionale”, attacca Pietro Grasso presidente del Senato all’epoca in cui venne varata la delibera: “Ebbene, non voglio entrare nel merito della decisione, però rilevo che in base all’autodichia non può un organo giurisdizionale come la Contenziosa annullare una delibera del Consiglio di presidenza, come ha fatto dando validità erga omnes alla sua decisione. È come se un tribunale potesse cancellare una legge ordinaria”.

Si spieghi meglio, senatore.

La Commissione mi ha meravigliato soprattutto da un punto di vista procedurale. Essa può decidere sul caso concreto o può sospendere la decisione e indicare al Consiglio di Presidenza la necessità di modificare la delibera, magari nel senso di riconoscere una minima ai casi di vera indigenza. Ma non può assolutamente annullare un provvedimento avente carattere generale come appunto la delibera del 2015.

Un bel problema.

Enorme. E credo che non basti pensare soltanto al ricorso al Consiglio di garanzia contro la decisione. Ci sono i margini affinché il Senato sollevi di fronte alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione: l’invasione di campo di un organo giurisdizionale ha inflitto un vulnus al principio della separazione dei poteri.

Addirittura?

La circostanza di aver fatto valere erga omnes la decisione della Commissione Contenziosa di Caliendo, di aver dato ad essa carattere di esecutività come ha stabilito la presidente Casellati, dall’oggi al domani ha trasformato in carta straccia una norma che nella sua pienezza di poteri regolamentari, politici e parlamentari, il Senato si era data. E c’è un’altra considerazione da fare.

Quale, presidente Grasso?

Per motivare tutto ciò la commissione Contenziosa ha fatto ricorso alla legge sul reddito di cittadinanza. Quindi ha equiparato sostanzialmente la delibera a una legge dicendo che non è stato rispettato l’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza dei cittadini. Chiedo: può un organismo interno al Senato dichiarare l’incostituzionalità di una norma e eliminarla completamente? Nemmeno la Corte Costituzionale lo può fare. Al massimo può indicare al legislatore di fare una nuova legge.

Ricorso doveroso, dunque.

Ripeto: si possono addurre tutte le ragioni contrarie alla delibera del 2015. Ma il riferimento che si è fatto in motivazione a due ordinanze della Corte di Cassazione a sezioni riunite non ci sta. Se si va a leggere, anche lì viene riconosciuto il carattere particolare dell’indennità parlamentare da cui poi deriva come proiezione il vitalizio come era fino al 2011: l’indennità stabilita dall’articolo 69 della Costituzione non è una retribuzione, il mandato parlamentare non è assimilabile ad un rapporto di lavoro, per cui neanche la pensione cosiddetta lo è. Per questo il vitalizio può essere regolato dalle Camere in maniera assolutamente autonoma, a certe condizioni si può dire che quel diritto viene a cessare. Perché non è equiparata a una pensione normale.

A un comune cittadino infatti la pensione non può essere cancellata.

Infatti, ricordiamo che è solo da pochi anni che sono pienamente contributivi. Quei vitalizi erano un’altra cosa. Invece sta passando il messaggio che siano una pensione e quindi da questo presupposto si fanno discendere tutta una serie di conseguenze, ma in realtà è il presupposto che è sbagliato.

La commissione presieduta da Caliendo pare essersene infischiata di questi aspetti.

Nel 2019 peraltro ci sono delle precedenti decisioni della stessa Commissione presieduta da Caliendo, citate nella sentenza, che sono state favorevoli a mantenere la delibera. Ebbene, non sono riuscito a comprendere perché ci si è discostati da quelle decisioni. Peraltro, l’istanza l’ha fatta Formigoni, la decisione avrebbe dovuto valere solo per lui.

In definitiva, lei come definirebbe questa sentenza?

Da un punto di vista procedurale la giudico errata. A tacere del fatto che con la gente che non riesce a sopravvivere alla pandemia non mi sembra proprio il momento migliore.

Senza contare che a questo punto abolendo del tutto la delibera del 2015 si rispalancano le porte del vitalizio ad ogni tipo di parlamentare pregiudicato.

Rendiamoci conto che annullando la delibera anche i senatori condannati per mafia o terrorismo potranno riprendere ad avere il vitalizio. Qualcuno ci ha pensato? L’annullamento non vale solo per i reati come la corruzione, ma anche per tutti gli altri reati compresi nella delibera del 2015. Insomma, dottoressa, todos caballeros.

IlFattoQuotidiano


giovedì 15 febbraio 2018

Grasso, futuro è abolizione del contante. Leader LeU critica flat tax, mette a rischio stato sociale.

 © ANSA

Qui il commento arguto di Luigi Pastorello. (copiato da fb dietro consenso dell'autore)

Il neo partito di Grasso è una formazione utile solo a limitare l'emorragia inevitabile di voti dal centro-sinistra. Serve per tutti coloro che hanno la fede irrazionale e incrollabile per gli ideali di sinistra, ma odiano Matteo Renzi perché sta facendo il lavoro sporco per conto dell' Elite. 
Nemmeno il centro-destra avevano attuato politiche così pesanti di macelleria sociale, il nome del neoliberismo e del turbocapitalismo globalizzante. 
Come dire, per fare un esempio, per coloro che gli piace la bevanda dolce gassata al caramello, ma odiano il marchio coca-cola! quindi i padroni della Coca Cola cosa fanno? Inventano il marchio Pepsi alternativo, fanno credere al consumatore sprovveduto che siano due bibite diverse, due proprietà e marchi diversi, così riescono a conservare il mercato e le quote di clientela. 
Sono strategie di marketing e nulla più. 
Idem la Fiat: quelli che compravano Alfa Romeo Lancia o Ferrari perché la Fiat come marchio gli stava antipatico. 
La Fiat gli ha assorbiti nella proprietà e così non perde più clienti!! 
E la gente è contenta perchè non possiede una Fiat, ma un'alternativa. 
Senza sapere che è lei la gente, quella posseduta dalla Fiat. 
Ahahahah???? Ci sarebbe da ridere per non piangere. 
Il politico di qualunque schieramento ideologico non è altro che il cameriere del banchiere. Se non si comprende questo, se non si comprendono i meccanismi finanziari di schiavizzazione e indebitamento truffa tramite signoraggio bancario saremo destinati a soffrire ed impoverirci sempre più. 
E a diventare sempre più schiavi e sottomessi.
L.P.

PS. L'articolo al quale fa riferimento il titolo è il seguente: 
http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2018/02/13/grasso-futuro-e-abolizione-del-contante_812d3d43-e327-4848-a9fc-7e69934fed0f.html

venerdì 6 ottobre 2017

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento. - Diego Pretini

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento

Il Lìder Maximo impalla tutti, Speranza l'eterno futuro, Bersani indispensabile che ha già fatto il suo: così l'ex sindaco di Milano ha scoperto che non basta dire "uniamoci" per unire Pd e gli altri e da possibile federatore è diventato punchin-ball. Per questo il sogno proibito di Bersani sarebbe Grasso. Preferito perfino da Vendola.

Federatori che non federano, nuovo che non avanza, leader di talento ingombranti ma consunti dalla storia, assi nelle maniche abbottonate. A sinistra, presto, a sinistra: ma la macchina pare inceppata. Ex comunisti con ex socialisti, ex vendoliani con ex democristiani, scissionisti della prima ora con scissionisti della seconda che si uniscono a quelli della terza. Il campo della sinistra del centrosinistra che non c’è più è come un’aia di campagna, dove ogni galletto va a beccare in un posto diverso. Alt, avvertono tutti in coro nelle interviste, prima di tutto i programmi. Ma ora che ci provano – il superticket, la povertà nella legge di bilancio – si accapigliano parlando solo di matrimoni, divorzi, coppie scoppiate. In comune hanno l’assillo della discontinuità con le riforme di Renzi e più precisamente proprio con Renzi. 
Ma ciascuno ha un joystick diverso. Per dire: lo sforzo per una cosa semplice come far guidare a Pisapia la delegazione di Mdp a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è stato immane. Ma Tabacci, uno dei pochi che può parlare a nome dell’ex sindaco, lo descrive come amareggiato perché – dice – dentro Mdp vogliono confinarsi a una sinistra di testimonianza con Fratoianni e “quelli del Brancaccio” (cioè Tomaso Montanari e Anna Falcone, i reduci della vittoria del No), “bravissime persone che però non c’entrano nulla con la prospettiva di un centrosinistra in grado di competere”. Dall’altra parte rispondono che il centrosinistra non esiste perché è morto sotto i molti colpi inferti da Renzi: l’ultimo quando si è alleato con Alfano per sostenere Micari alle Regionali in Sicilia. Così si affollano a sinistra dirigenti che però non si sa dove dirigono, che restano a mezza altezza per motivi diversi: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Enrico Rossi, fino a Nicola Fratoianni e Pippo Civati. Fino a Giuliano Pisapia, il cui ruolo è ridotto al lumicino ogni volta che parla D’Alema, già da quella volta – a inizio settembre – in cui lo definì “l’ineffabile avvocato”. E un po’ più in là, fino ai sogni che non sembrano solide realtà: Piero Grasso e Emma Bonino. Di seguito i più in vista.

D’Alema, l’attaccapanni che precede tutti.


“Finché sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno” disse a pochi mesi dal referendum costituzionale. Per Aldo Cazzullo (Corrieredi ieri) è il più anti-renziano di tutti. Per Angelo Panebianco (Corriere di molti anni fa), “i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia, pochissimi. E D’Alema è uno di loro”. Per Renzi era il primo da rottamare e invece ha fatto come l’alligatore: è rimasto sott’acqua finché è servito, finché non ha capito che uscendo dall’acqua avrebbe divorato la preda. Non solo Renzi, ma anche il nuovo partito che lui ha annunciato per primo. I dalemiani sono rimasti di là, hanno indossato nuove maschere: Anna Finocchiaro, Gianni CuperloNicola LatorreMarco MinnitiMatteo Orfini in ordine di crescente lealtà al nuovo capo. Lui non soffre di solitudine, capotavola è dove si siede lui, disse una volta. Dopo aver garantito che Speranza è un ottimo dirigente tra l’altro più giovane di Renzi e che chi sarebbe stato il capo si sarebbe deciso con le primarie, a luglio ha definito quella di Mdp una “gestione confusa e poco efficace”.
Ha dato la possibilità a Pisapia di sognare per un po’, di fare il federatore, sapendo già che avrebbe fallito. I due non sono diversi solo perché uno è figlio del partito e l’altro un borghese civico, come li ha descritti Cazzullo. Ma anche perché l’ex sindaco continua a inseguire i sogni, mentre l’ex presidente del Consiglio non ha mai cominciato, preferendo la disillusione. Per primo D’Alema ha annunciato che ci sarebbe stata la scissione dal Pd, per primo ha detto – andando ad ascoltare il discorso “di insediamento” di Pisapia – che alle elezioni avrebbero corso da soli e contro il Pd, per primo ha capito che una coalizione sarebbe stata impossibile. Per primo ha detto che con l’alleanza tra Pd e Alfano in Sicilia il centrosinistra era finito. Per primo ha chiesto a Pisapia “maggiore coraggio” per accelerare la nascita della forza a sinistra del Pd: un simbolo riconoscibile, temi ben chiari per segnare la “discontinuità” con il lavoro fatto dal governo delle intese medie negli ultimi 5 anni. In realtà non è mai chiaro se queste cose le dice per primo perché le prevede o perché poi le fa andare così lui. Per questo a Pisapia è partita la frizione chiedendogli di farsi da parte, subissato di fischi dei dalemiani rimasti e dal silenzio glaciale del Lìder Maximo.
Ha archiviato la terza via e il blairismo, nelle interviste cita Podemos e la Linke, se non fosse ambiguo si direbbe che si è radicalizzato. E’ una croce oltre che una delizia di un pezzo di sinistra perché il suo passato pesa e contro D’Alema se la prendono tutti, una specie di antistress: “E’ l’attaccapanni a cui attaccano tutte le tattiche avverse – ha detto Bersani qualche giorno fa – Ma lui è fatto così è una personalità ma le perplessità non si possono nascondere sempre dietro D’Alema”. Ma l’impresa è sempre spostarlo da davanti.
Bersani, quest’acqua qua.
Lo paragonano a Bertinotti. Lui con la stessa espressione piena di fatica, di preoccupazione e di concentrazione che offrì da presidente incaricato nel primo incontro in streaming con i capigruppo dei Cinquestelle, nel 2013, oggi fa ancora scrosciare applausi negli studi televisivi e – racconta uno dei suoi fedelissimi, Davide Zoggia – anche nelle piazze in Sicilia. Avrebbe voluto essere Papa Roncalli, ha detto una volta, ma sembra più Papa Montini: a volte un po’ in anticipo per non rimanere schiacciato dal presente. Se avesse vinto, anziché “non vinto”, come prima cosa da capo del governo – ha ricordato di recente – avrebbe fatto lo Ius soli, su cui ora Renzi non ha nemmeno il coraggio di mettere la fiducia. Come seconda, una “norma secca anticorruzione“. Dalla corsa per il leader si è autoeliminato da tempo: la moglie ha minacciato di cacciarlo da casa se si ricandiderà a premier, ma non c’è rischio, tanto più che a questo giro il massimo del risultato può essere il quarto posto.
Ma la sua assenza ha messo davanti agli occhi dell’elettorato le alternative tipo Speranza e la platea ne è uscita terrorizzata. Quindi “quel pezzo di Ditta qua”, che in realtà crede che la Ditta sia stata scippata da un rapinatore, si aggrappa di nuovo a lui, diventato finalmente leader dopo una vita politica da gregario di lusso, competente, rasserenante. “L’eterno delfino che a 57 anni ha deciso di nuotare da solo – lo definì Fabio Martini sulla Stampa prima del congresso che avrebbe incoronato Bersani, già tre volte ministro – A forza di nascondersi, a forza di dire ‘Obbedisco’ al suo amico Massimo D’Alema che in passato lo ha ripetutamente invitato a non candidarsi, la rinuncia stava diventando la sua cifra politica. L’Amleto di Bettola”. “Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra”: sembra la definizione più adatta e l’unico sospetto nasce perché a pronunciarlo fu proprio D’Alema.
Da solo, senza D’Alema, è quello che ha combattuto di più le politiche di Renzi, rottamatrici delle idee più che delle persone. Non c’è riuscito quasi mai anche perché, appunto, ha criticato troppo presto quello che altri nel partito hanno contrastato più tardi, a tempo scaduto, tipo Orlando. Come D’Alema, però, Bersani si porta il fardello di chi dice cose già dette e vede cose già viste: gli elettori di sinistra sono da tempo un po’ suscettibili, diversi da quelli di Forza Italia che vedono solo Berlusconi. Lo prendono in giro, ma Bersani insiste a credere di parlare la lingua del popolo così le metafore non sono mai uscite dal suo breviario. L’ultima l’altro giorno, con gli animali: “Se anche in Italia si tira la volata alla destra scimmiottandoli, balbettando in modo più politicamente corretto le stesse ricette, ad esempio su fisco e immigrati, la sinistra rischia di fare la fine del coniglio davanti al leone”. La penultima alcuni giorni prima, quella dell’acqua: “Renzi ha governato tre anni con i voti che ho preso io, ed ha ribaltato quasi del tutto le cose che avevo promesso agli elettori. Se questo porterà avanti il centrosinistra e metterà sotto destra e 5 stelle, avrà avuto ragione lui; altrimenti dovrà far due conti di quello che è successo. Di noi non si preoccupi: noi porteremo acqua al centrosinistra”.

Pisapia, il punching-ball arancione.
“Giuliano Pisapia, convinto di essere un leader decisivo e destinato a saldare le varie sinistre di sorta, non sa che D’Alema non prevede per lui alcun ruolo, salvo quello di bella statuina”. Sembrava una cattiveria quella di Andrea Marcenaro sul Foglio di inizio estate. Quasi quattro mesi il basamento della statuina è quasi completato. Pisapia è stato posizionato sull’asta del gonfalone della sinistra che rimpiange Prodi e l’Ulivo, ma in realtà si ritrova a capo della Sinistra Arcobaleno. E forse nemmeno così a capo. Quando Bianca Berlinguer ha chiesto a D’Alema se è Pisapia il leader lui ha risposto: “Abbiamo detto di sì, il leader è lui”. Abbiamo detto di sì, noi, all’ineffabile avvocato, come l’ha chiamato una volta.
Altro che enzima che unisce tutto il centrosinistra, dai democristiani a Fratoianni. Piuttosto il punching-ball del luna park. A nulla è servita la lunga preparazione di Pisapia, iniziata con la scomparsa dalla scena politica alla Fanfani subito dopo aver la sciato Palazzo Marino. Credeva che tutti aspettassero qualcuno come lui che a Milano ha guidato la vittoria “arancione” e in Italia ne era il simbolo, senza accorgersi che quell’avventura è finita già da un pezzo, con lui, ZeddaDe Magistris e Orlando in ordine sparso. A Milano aveva vinto perché è una persona per bene, carattere che rischia di diventare un handicap quando sei in un ambientino pieno di tigri dai denti a sciabola. Credeva che bastasse un paciere, scoprendo che servirebbe un miracolo: l’euforia iniziale che ha unito al suo fianco l’ex rifondato Ciccio Ferrara e l’ex dc Tabacci senza i marxisti – e ha fatto aleggiare i padri nobili Enrico Letta e Prodi – è diventata ora una bell’arietta emo.
Prende schiaffi da tutti, come una comparsa di Altrimenti ci arrabbiamo. “Pisapia cambia posizione abbastanza spesso – ha detto Orfini alcune settimane fa – Perché quando ha fatto la riunione con Mdp ha firmato un documento in cui si definiva alternativo al Pd – e immagino non ci si voglia alleare con forze alternative – poi ha lanciato le primarie”. Nicola Fratoianni, capo di Sinistra Italiana, si dice “non interessato alle smentite di Pisapia” e che “il tempo è scaduto”. Irrita Roberto Speranza: “Noi stiamo aprendo le porte nella maniera più convinta possibile a Giuliano Pisapia. Dopodiché a me non convince un ragionamento in cui tutto si riduce a un gioco di personalità”. Fa sdubbiare perfino Bersani: “Nessuno qui vuol dei partitini. Vogliamo tutti un partitone. Non è quello”. Litiga di brutto con Nichi Vendola: “Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra” dice l’ex presidente della Puglia. “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in giunta” risponde l’ex sindaco.
Nonostante l’abbraccio a Maria Elena Boschi davanti al quale Mdp reagì come se avesse commemorato Farinacci, è stato quasi ignorato dal Pd che parla di lui solo nei retroscena, “da Calenda a Pisapia”, o nei sogni di Rosato, “da Alfano a Pisapia”. Per restare attaccato almeno a Mdp, i suoi comunicati stampa sono esercizi di acrobazia. Fa fatica a farsi ascoltare perfino dai senatori che si autoproclamano esponenti di Campo Progressista: parlano a titolo personale, dice un portavoce di Pisapia. “No – ha risposto uno di loro – io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna”. Mettete da parte i personalismi, ripete da mesi a due poco interessati ai personalismi come Renzi e D’Alema. Lui si è già messo da parte per esempio in Sicilia dove non sostiene né Micari col Pd né Fava con la sinistra.
Speranza, l’eterno futuro.
L’eterno delfino, l’eterno futuro, l’eterno dialogante. Per Vauro “un giovane-vecchio”. A Roberto Speranza quasi tutti riconoscono che è serio, timido, mediatore, coerente, grande ascoltatore, persona perbene, che ha studiato, che ha fatto la gavetta. Più o meno così lo descriveva la Stampa già 4 anni fa, quando già lo indicavano come “futuro leader”. Nel frattempo risulta ancora difficile trovare chi lo consideri uno che riempie le piazze e le urne. Bersani se n’è dovuto andare per un po’ e poi è tornato e Speranza sempre lì è rimasto: sotto la sua ala protettiva. E’ lì sotto dal 2012 quando Speranza era uno dei coordinatori del comitato di Bersani alle primarie per le Politiche.
Spesso si sforza di essere incisivo: “Avevamo promesso più lavoro e stabilità e ci siamo ritrovati il boom dei voucher; avevamo promesso green economy e ci siamo ritrovati le trivelle e il ‘ciaone’; avevamo promesso equità fiscale e abbiamo tolto l’Imu anche ai miliardari”. Ma non se ne accorge nessuno. Fa cose di rottura, coraggiose: si dimise quando la Boschi pose la fiducia sull’Italicum che lui considerava incostituzionale (come poi confermò la Consulta). Ma non se lo ricorda nessuno.
Gli capita di prendere sberle a gratis anche quando non fa niente di che. “Hai la faccia come il culo” gli comunicò Roberto Giachetti quando a Speranza gli venne di proporre il Mattarellum. Mani tra i capelli di Renzi, grida in pé della senatrice Ricchiuti, via alla scissione. Un mesetto prima un tizio gli lanciò addosso un iPad durante la presentazione di un libro a Potenza: “Il Pd vende armi all’Isis!”. L’episodio più doloroso resta quando Repubblica chiese a Bersani se Speranza era l’anti-Renzi: “Lo stimo, non è un segreto. Ma al di là dei nomi serve un segretario che si occupi del partito sdoppiandolo dalla figura del premier e non escludiamo a priori di pescare da campi che non sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che in giro ci sia un giovane Prodi?”. Boom, Roberto, sei stato friendzonato. Sembra sempre il suo momento e il suo momento non arriva mai. Mesi fa aveva finalmente l’occasione per misurarsi (cioè schiantarsi) contro Renzi. Zampettava sui giornali e sulle televisioni dopo la vittoria del No al referendum, in quei giorni figlia del mondo intero. “Arriverà presto il congresso Pd e io ci sarò, mi batterò. Accetto la sfida e sono ottimista perché non sono solo”. E invece un attimo prima gli hanno tolto il partito, nel senso che i suoi tutori hanno deciso di andarsene a fare Mdp. Cos’è ora Speranza?, si chiedono ogni tanto l’un l’altro nelle redazioni. Capogruppo? Possiamo dire leader? No dai, leader no. Forse tipo coordinatore. Provate voi a coordinare ex vendoliani, ex bersaniani, pisapiani e D’Alema.
Grasso, che una mattina si svegliò “Metodo”.
Una volta, raccontò, si addormentò Pietro e si svegliò “metodo”. Il “metodo Grasso” di cui parlarono i giornali all’indomani della sua elezione era quello che aveva fatto diventare lui presidente del Senato (spaccando il gruppo M5s alla prima votazione) e Laura Boldrini presidente della Camera. Il metodo lo inventò Pierluigi Bersani al quale nel 2013 venne l’idea di proporre a Grasso l’inizio della carriera politica dopo una vita nella lotta a Cosa Nostra. Ora può accadere di nuovo. A Napoli, alla festa di Mdp, Bersani aveva gli occhi a cuoricino mentre sentiva la seconda carica dello Stato raccontare che si sente ancora “ragazzo di sinistra” e come tale chiede “alla sinistra di non fare passi indietro sui principi”.
C’è quella bazzecola da superare che si chiama presidenza del Senato che lo terrà ingessato fino a primavera, ma Grasso per la terza volta potrebbe essere la soluzione ai problemi di Bersani. Grasso ha le sembianze quei tiri di carambola di certi circoli del biliardo con cui la biglia butta giù i birilli, sponda dopo sponda. Autorevole per curriculum, dialogante per carattere, è legalitario, ma non securitario, la giustizia sociale accanto a quella dei tribunali. Dice cose di sinistra, pronuncia spesso parole di verità, gli piace il genere antifà. Negli ultimi dieci giorni ha detto che: lo Ius soli va votato, il codice antimafia deve rimanere così perché era nel programma (del Pd), la sinistra non deve fare passi indietro sui suoi principi, che la prima regola della politica è l’etica(bisogna saper scegliere i candidati prima che arrivino le condanne). Ha detto che i partiti devono smetterla di scrivere le leggi elettorali solo per convenienza e ha fatto incazzare Orfini. Ha detto che dobbiamo dare l’asilo anche ai migranti economici perché lo dice la Costituzione e ha fatto incazzare la Lega Nord. Fa incazzare spesso il Pd, come quando si mise seduto in Aula tutto sorridente e decise per conto suo di far votare la richiesta d’arresto di Antonio Caridi, primo parlamentare accusato di associazione mafiosa (il Pd voleva trastullarselo fino a dopo il ddl editoria).
Non si contano le volte che ha fatto incazzare il M5s: i senatori grillini perdono la testa soprattutto quando loro si agitano rossi in volto – come per abitudine – e lui gli risponde col tono di un bonzo tibetano, con lo sguardo disincantato. La spalla preferita è il senatore Lello Ciampolillo. Una volta segnalò dei “pianisti”, quelli di Forza Italia cominciarono a tirargli palline di carta. Grasso lo rassicurò sulla sua incolumità: “Senatore Ciampolillo, la presidenza ha visto tutto. Ha visto anche che non l’ha colpito”. Stimato da destra, Vendola lo preferisce a Pisapia. “Grasso è una grande personalità – dice D’Alema – E’ stato un giovane militante di sinistra, l’abbiamo candidato e eletto presidente del Senato. Non è certo una new entry”. Un ineffabile presidente, in altre parole.
C'è del caos in quel di .....sinistra! sempre che si possa definire sinistra una compagine che si adopera per proteggere Banche, Vaticano, potere economico.... e che si è posizionata così in centro che si è confusa e fusa con l'altro centro, quello di destra...

venerdì 12 aprile 2013

Piero Grasso nomina all’Apem il senatore D’Alì, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa.


alt
E' una di quelle notizie che ti fanno storcere il naso e corrugare la fronte.
E non certo perché un parlamentare sia imputato con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (che, a dirla tutta, non fa più notizia), ma perché a confermare Antonio D'Alì – su indicazione del Pdl – come rappresentante del nostro parlamento, all' Assemblea parlamentare euro mediterranea, è stato l'ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, neoeletto presidente del Senato. D'Alì, ricoprirà l'incarico di Vicepresidente della Commissione Economica e di componente della Commissione Energia ed Ambiente.
Posto che vige il principio di non colpevolezza fino a sentenza di condanna irrevocabile e che il processo è ancora in corso con il rito abbreviato dinanzi al gup di Palermo,  la questione è, come sempre, tutta su un piano diviso tra morale e opportunità.

sabato 23 marzo 2013

Caselli su scontro Grasso-Travaglio: “Io ho subito un’ingiustizia”



“Non ho visto lo scontro tra Travaglio e Pietro Grasso, ma a me interessa soltanto il discorso della Procura Nazionale Antimafia, perché questa è storia”. 
Sono le parole del Procuratore Capo di Torino, Giancarlo Caselli, contattato telefonicamente dalla trasmissione “Un giorno da pecora”, su Radio Due. 
Io sostengo di aver subito un’ingiustizia” – afferma il magistrato – “ci fu una legge contro di me
Per due volte il Csm ha bandito un percorso per il successore di Vigna alla Dna, e per due volte con un intervento ad personam, per punirmi del processo che avevo fatto ad Andreotti, sono stato estromesso dal concorso“. 
E aggiunge: “La seconda volta accadde quando ero vicino al traguardo”. Caselli spiega: “Sia io, sia Grasso avevamo ricevuto tre voti, ma a quel punto interviene la legge contro la mia persona, vengo cancellato dal concorso e in plenum ci va soltanto Grasso”. 
E sottolinea: “Non so chi avrebbe vinto, io so solo che quella legge contro di me fu dichiarata incostituzionale. Ma intanto i giochi erano fatti”. Il magistrato poi ricorre a una metafora calcistica per spiegare quello che avvenne: “Diciamo che le regole del gioco sono state cambiate a partita iniziata, e il cambiamento è valso solo per una squadra. Non so se il capitano della squadra preferita avrebbe potuto rifiutare quell’aiuto” – conclude – “Il mondo del calcio non è mica quello della giustizia”

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/03/22/caselli-su-scontro-grasso-travaglio-io-ho-subito-uningiustizia/225895/