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venerdì 6 ottobre 2017

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento. - Diego Pretini

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento

Il Lìder Maximo impalla tutti, Speranza l'eterno futuro, Bersani indispensabile che ha già fatto il suo: così l'ex sindaco di Milano ha scoperto che non basta dire "uniamoci" per unire Pd e gli altri e da possibile federatore è diventato punchin-ball. Per questo il sogno proibito di Bersani sarebbe Grasso. Preferito perfino da Vendola.

Federatori che non federano, nuovo che non avanza, leader di talento ingombranti ma consunti dalla storia, assi nelle maniche abbottonate. A sinistra, presto, a sinistra: ma la macchina pare inceppata. Ex comunisti con ex socialisti, ex vendoliani con ex democristiani, scissionisti della prima ora con scissionisti della seconda che si uniscono a quelli della terza. Il campo della sinistra del centrosinistra che non c’è più è come un’aia di campagna, dove ogni galletto va a beccare in un posto diverso. Alt, avvertono tutti in coro nelle interviste, prima di tutto i programmi. Ma ora che ci provano – il superticket, la povertà nella legge di bilancio – si accapigliano parlando solo di matrimoni, divorzi, coppie scoppiate. In comune hanno l’assillo della discontinuità con le riforme di Renzi e più precisamente proprio con Renzi. 
Ma ciascuno ha un joystick diverso. Per dire: lo sforzo per una cosa semplice come far guidare a Pisapia la delegazione di Mdp a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è stato immane. Ma Tabacci, uno dei pochi che può parlare a nome dell’ex sindaco, lo descrive come amareggiato perché – dice – dentro Mdp vogliono confinarsi a una sinistra di testimonianza con Fratoianni e “quelli del Brancaccio” (cioè Tomaso Montanari e Anna Falcone, i reduci della vittoria del No), “bravissime persone che però non c’entrano nulla con la prospettiva di un centrosinistra in grado di competere”. Dall’altra parte rispondono che il centrosinistra non esiste perché è morto sotto i molti colpi inferti da Renzi: l’ultimo quando si è alleato con Alfano per sostenere Micari alle Regionali in Sicilia. Così si affollano a sinistra dirigenti che però non si sa dove dirigono, che restano a mezza altezza per motivi diversi: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Enrico Rossi, fino a Nicola Fratoianni e Pippo Civati. Fino a Giuliano Pisapia, il cui ruolo è ridotto al lumicino ogni volta che parla D’Alema, già da quella volta – a inizio settembre – in cui lo definì “l’ineffabile avvocato”. E un po’ più in là, fino ai sogni che non sembrano solide realtà: Piero Grasso e Emma Bonino. Di seguito i più in vista.

D’Alema, l’attaccapanni che precede tutti.


“Finché sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno” disse a pochi mesi dal referendum costituzionale. Per Aldo Cazzullo (Corrieredi ieri) è il più anti-renziano di tutti. Per Angelo Panebianco (Corriere di molti anni fa), “i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia, pochissimi. E D’Alema è uno di loro”. Per Renzi era il primo da rottamare e invece ha fatto come l’alligatore: è rimasto sott’acqua finché è servito, finché non ha capito che uscendo dall’acqua avrebbe divorato la preda. Non solo Renzi, ma anche il nuovo partito che lui ha annunciato per primo. I dalemiani sono rimasti di là, hanno indossato nuove maschere: Anna Finocchiaro, Gianni CuperloNicola LatorreMarco MinnitiMatteo Orfini in ordine di crescente lealtà al nuovo capo. Lui non soffre di solitudine, capotavola è dove si siede lui, disse una volta. Dopo aver garantito che Speranza è un ottimo dirigente tra l’altro più giovane di Renzi e che chi sarebbe stato il capo si sarebbe deciso con le primarie, a luglio ha definito quella di Mdp una “gestione confusa e poco efficace”.
Ha dato la possibilità a Pisapia di sognare per un po’, di fare il federatore, sapendo già che avrebbe fallito. I due non sono diversi solo perché uno è figlio del partito e l’altro un borghese civico, come li ha descritti Cazzullo. Ma anche perché l’ex sindaco continua a inseguire i sogni, mentre l’ex presidente del Consiglio non ha mai cominciato, preferendo la disillusione. Per primo D’Alema ha annunciato che ci sarebbe stata la scissione dal Pd, per primo ha detto – andando ad ascoltare il discorso “di insediamento” di Pisapia – che alle elezioni avrebbero corso da soli e contro il Pd, per primo ha capito che una coalizione sarebbe stata impossibile. Per primo ha detto che con l’alleanza tra Pd e Alfano in Sicilia il centrosinistra era finito. Per primo ha chiesto a Pisapia “maggiore coraggio” per accelerare la nascita della forza a sinistra del Pd: un simbolo riconoscibile, temi ben chiari per segnare la “discontinuità” con il lavoro fatto dal governo delle intese medie negli ultimi 5 anni. In realtà non è mai chiaro se queste cose le dice per primo perché le prevede o perché poi le fa andare così lui. Per questo a Pisapia è partita la frizione chiedendogli di farsi da parte, subissato di fischi dei dalemiani rimasti e dal silenzio glaciale del Lìder Maximo.
Ha archiviato la terza via e il blairismo, nelle interviste cita Podemos e la Linke, se non fosse ambiguo si direbbe che si è radicalizzato. E’ una croce oltre che una delizia di un pezzo di sinistra perché il suo passato pesa e contro D’Alema se la prendono tutti, una specie di antistress: “E’ l’attaccapanni a cui attaccano tutte le tattiche avverse – ha detto Bersani qualche giorno fa – Ma lui è fatto così è una personalità ma le perplessità non si possono nascondere sempre dietro D’Alema”. Ma l’impresa è sempre spostarlo da davanti.
Bersani, quest’acqua qua.
Lo paragonano a Bertinotti. Lui con la stessa espressione piena di fatica, di preoccupazione e di concentrazione che offrì da presidente incaricato nel primo incontro in streaming con i capigruppo dei Cinquestelle, nel 2013, oggi fa ancora scrosciare applausi negli studi televisivi e – racconta uno dei suoi fedelissimi, Davide Zoggia – anche nelle piazze in Sicilia. Avrebbe voluto essere Papa Roncalli, ha detto una volta, ma sembra più Papa Montini: a volte un po’ in anticipo per non rimanere schiacciato dal presente. Se avesse vinto, anziché “non vinto”, come prima cosa da capo del governo – ha ricordato di recente – avrebbe fatto lo Ius soli, su cui ora Renzi non ha nemmeno il coraggio di mettere la fiducia. Come seconda, una “norma secca anticorruzione“. Dalla corsa per il leader si è autoeliminato da tempo: la moglie ha minacciato di cacciarlo da casa se si ricandiderà a premier, ma non c’è rischio, tanto più che a questo giro il massimo del risultato può essere il quarto posto.
Ma la sua assenza ha messo davanti agli occhi dell’elettorato le alternative tipo Speranza e la platea ne è uscita terrorizzata. Quindi “quel pezzo di Ditta qua”, che in realtà crede che la Ditta sia stata scippata da un rapinatore, si aggrappa di nuovo a lui, diventato finalmente leader dopo una vita politica da gregario di lusso, competente, rasserenante. “L’eterno delfino che a 57 anni ha deciso di nuotare da solo – lo definì Fabio Martini sulla Stampa prima del congresso che avrebbe incoronato Bersani, già tre volte ministro – A forza di nascondersi, a forza di dire ‘Obbedisco’ al suo amico Massimo D’Alema che in passato lo ha ripetutamente invitato a non candidarsi, la rinuncia stava diventando la sua cifra politica. L’Amleto di Bettola”. “Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra”: sembra la definizione più adatta e l’unico sospetto nasce perché a pronunciarlo fu proprio D’Alema.
Da solo, senza D’Alema, è quello che ha combattuto di più le politiche di Renzi, rottamatrici delle idee più che delle persone. Non c’è riuscito quasi mai anche perché, appunto, ha criticato troppo presto quello che altri nel partito hanno contrastato più tardi, a tempo scaduto, tipo Orlando. Come D’Alema, però, Bersani si porta il fardello di chi dice cose già dette e vede cose già viste: gli elettori di sinistra sono da tempo un po’ suscettibili, diversi da quelli di Forza Italia che vedono solo Berlusconi. Lo prendono in giro, ma Bersani insiste a credere di parlare la lingua del popolo così le metafore non sono mai uscite dal suo breviario. L’ultima l’altro giorno, con gli animali: “Se anche in Italia si tira la volata alla destra scimmiottandoli, balbettando in modo più politicamente corretto le stesse ricette, ad esempio su fisco e immigrati, la sinistra rischia di fare la fine del coniglio davanti al leone”. La penultima alcuni giorni prima, quella dell’acqua: “Renzi ha governato tre anni con i voti che ho preso io, ed ha ribaltato quasi del tutto le cose che avevo promesso agli elettori. Se questo porterà avanti il centrosinistra e metterà sotto destra e 5 stelle, avrà avuto ragione lui; altrimenti dovrà far due conti di quello che è successo. Di noi non si preoccupi: noi porteremo acqua al centrosinistra”.

Pisapia, il punching-ball arancione.
“Giuliano Pisapia, convinto di essere un leader decisivo e destinato a saldare le varie sinistre di sorta, non sa che D’Alema non prevede per lui alcun ruolo, salvo quello di bella statuina”. Sembrava una cattiveria quella di Andrea Marcenaro sul Foglio di inizio estate. Quasi quattro mesi il basamento della statuina è quasi completato. Pisapia è stato posizionato sull’asta del gonfalone della sinistra che rimpiange Prodi e l’Ulivo, ma in realtà si ritrova a capo della Sinistra Arcobaleno. E forse nemmeno così a capo. Quando Bianca Berlinguer ha chiesto a D’Alema se è Pisapia il leader lui ha risposto: “Abbiamo detto di sì, il leader è lui”. Abbiamo detto di sì, noi, all’ineffabile avvocato, come l’ha chiamato una volta.
Altro che enzima che unisce tutto il centrosinistra, dai democristiani a Fratoianni. Piuttosto il punching-ball del luna park. A nulla è servita la lunga preparazione di Pisapia, iniziata con la scomparsa dalla scena politica alla Fanfani subito dopo aver la sciato Palazzo Marino. Credeva che tutti aspettassero qualcuno come lui che a Milano ha guidato la vittoria “arancione” e in Italia ne era il simbolo, senza accorgersi che quell’avventura è finita già da un pezzo, con lui, ZeddaDe Magistris e Orlando in ordine sparso. A Milano aveva vinto perché è una persona per bene, carattere che rischia di diventare un handicap quando sei in un ambientino pieno di tigri dai denti a sciabola. Credeva che bastasse un paciere, scoprendo che servirebbe un miracolo: l’euforia iniziale che ha unito al suo fianco l’ex rifondato Ciccio Ferrara e l’ex dc Tabacci senza i marxisti – e ha fatto aleggiare i padri nobili Enrico Letta e Prodi – è diventata ora una bell’arietta emo.
Prende schiaffi da tutti, come una comparsa di Altrimenti ci arrabbiamo. “Pisapia cambia posizione abbastanza spesso – ha detto Orfini alcune settimane fa – Perché quando ha fatto la riunione con Mdp ha firmato un documento in cui si definiva alternativo al Pd – e immagino non ci si voglia alleare con forze alternative – poi ha lanciato le primarie”. Nicola Fratoianni, capo di Sinistra Italiana, si dice “non interessato alle smentite di Pisapia” e che “il tempo è scaduto”. Irrita Roberto Speranza: “Noi stiamo aprendo le porte nella maniera più convinta possibile a Giuliano Pisapia. Dopodiché a me non convince un ragionamento in cui tutto si riduce a un gioco di personalità”. Fa sdubbiare perfino Bersani: “Nessuno qui vuol dei partitini. Vogliamo tutti un partitone. Non è quello”. Litiga di brutto con Nichi Vendola: “Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra” dice l’ex presidente della Puglia. “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in giunta” risponde l’ex sindaco.
Nonostante l’abbraccio a Maria Elena Boschi davanti al quale Mdp reagì come se avesse commemorato Farinacci, è stato quasi ignorato dal Pd che parla di lui solo nei retroscena, “da Calenda a Pisapia”, o nei sogni di Rosato, “da Alfano a Pisapia”. Per restare attaccato almeno a Mdp, i suoi comunicati stampa sono esercizi di acrobazia. Fa fatica a farsi ascoltare perfino dai senatori che si autoproclamano esponenti di Campo Progressista: parlano a titolo personale, dice un portavoce di Pisapia. “No – ha risposto uno di loro – io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna”. Mettete da parte i personalismi, ripete da mesi a due poco interessati ai personalismi come Renzi e D’Alema. Lui si è già messo da parte per esempio in Sicilia dove non sostiene né Micari col Pd né Fava con la sinistra.
Speranza, l’eterno futuro.
L’eterno delfino, l’eterno futuro, l’eterno dialogante. Per Vauro “un giovane-vecchio”. A Roberto Speranza quasi tutti riconoscono che è serio, timido, mediatore, coerente, grande ascoltatore, persona perbene, che ha studiato, che ha fatto la gavetta. Più o meno così lo descriveva la Stampa già 4 anni fa, quando già lo indicavano come “futuro leader”. Nel frattempo risulta ancora difficile trovare chi lo consideri uno che riempie le piazze e le urne. Bersani se n’è dovuto andare per un po’ e poi è tornato e Speranza sempre lì è rimasto: sotto la sua ala protettiva. E’ lì sotto dal 2012 quando Speranza era uno dei coordinatori del comitato di Bersani alle primarie per le Politiche.
Spesso si sforza di essere incisivo: “Avevamo promesso più lavoro e stabilità e ci siamo ritrovati il boom dei voucher; avevamo promesso green economy e ci siamo ritrovati le trivelle e il ‘ciaone’; avevamo promesso equità fiscale e abbiamo tolto l’Imu anche ai miliardari”. Ma non se ne accorge nessuno. Fa cose di rottura, coraggiose: si dimise quando la Boschi pose la fiducia sull’Italicum che lui considerava incostituzionale (come poi confermò la Consulta). Ma non se lo ricorda nessuno.
Gli capita di prendere sberle a gratis anche quando non fa niente di che. “Hai la faccia come il culo” gli comunicò Roberto Giachetti quando a Speranza gli venne di proporre il Mattarellum. Mani tra i capelli di Renzi, grida in pé della senatrice Ricchiuti, via alla scissione. Un mesetto prima un tizio gli lanciò addosso un iPad durante la presentazione di un libro a Potenza: “Il Pd vende armi all’Isis!”. L’episodio più doloroso resta quando Repubblica chiese a Bersani se Speranza era l’anti-Renzi: “Lo stimo, non è un segreto. Ma al di là dei nomi serve un segretario che si occupi del partito sdoppiandolo dalla figura del premier e non escludiamo a priori di pescare da campi che non sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che in giro ci sia un giovane Prodi?”. Boom, Roberto, sei stato friendzonato. Sembra sempre il suo momento e il suo momento non arriva mai. Mesi fa aveva finalmente l’occasione per misurarsi (cioè schiantarsi) contro Renzi. Zampettava sui giornali e sulle televisioni dopo la vittoria del No al referendum, in quei giorni figlia del mondo intero. “Arriverà presto il congresso Pd e io ci sarò, mi batterò. Accetto la sfida e sono ottimista perché non sono solo”. E invece un attimo prima gli hanno tolto il partito, nel senso che i suoi tutori hanno deciso di andarsene a fare Mdp. Cos’è ora Speranza?, si chiedono ogni tanto l’un l’altro nelle redazioni. Capogruppo? Possiamo dire leader? No dai, leader no. Forse tipo coordinatore. Provate voi a coordinare ex vendoliani, ex bersaniani, pisapiani e D’Alema.
Grasso, che una mattina si svegliò “Metodo”.
Una volta, raccontò, si addormentò Pietro e si svegliò “metodo”. Il “metodo Grasso” di cui parlarono i giornali all’indomani della sua elezione era quello che aveva fatto diventare lui presidente del Senato (spaccando il gruppo M5s alla prima votazione) e Laura Boldrini presidente della Camera. Il metodo lo inventò Pierluigi Bersani al quale nel 2013 venne l’idea di proporre a Grasso l’inizio della carriera politica dopo una vita nella lotta a Cosa Nostra. Ora può accadere di nuovo. A Napoli, alla festa di Mdp, Bersani aveva gli occhi a cuoricino mentre sentiva la seconda carica dello Stato raccontare che si sente ancora “ragazzo di sinistra” e come tale chiede “alla sinistra di non fare passi indietro sui principi”.
C’è quella bazzecola da superare che si chiama presidenza del Senato che lo terrà ingessato fino a primavera, ma Grasso per la terza volta potrebbe essere la soluzione ai problemi di Bersani. Grasso ha le sembianze quei tiri di carambola di certi circoli del biliardo con cui la biglia butta giù i birilli, sponda dopo sponda. Autorevole per curriculum, dialogante per carattere, è legalitario, ma non securitario, la giustizia sociale accanto a quella dei tribunali. Dice cose di sinistra, pronuncia spesso parole di verità, gli piace il genere antifà. Negli ultimi dieci giorni ha detto che: lo Ius soli va votato, il codice antimafia deve rimanere così perché era nel programma (del Pd), la sinistra non deve fare passi indietro sui suoi principi, che la prima regola della politica è l’etica(bisogna saper scegliere i candidati prima che arrivino le condanne). Ha detto che i partiti devono smetterla di scrivere le leggi elettorali solo per convenienza e ha fatto incazzare Orfini. Ha detto che dobbiamo dare l’asilo anche ai migranti economici perché lo dice la Costituzione e ha fatto incazzare la Lega Nord. Fa incazzare spesso il Pd, come quando si mise seduto in Aula tutto sorridente e decise per conto suo di far votare la richiesta d’arresto di Antonio Caridi, primo parlamentare accusato di associazione mafiosa (il Pd voleva trastullarselo fino a dopo il ddl editoria).
Non si contano le volte che ha fatto incazzare il M5s: i senatori grillini perdono la testa soprattutto quando loro si agitano rossi in volto – come per abitudine – e lui gli risponde col tono di un bonzo tibetano, con lo sguardo disincantato. La spalla preferita è il senatore Lello Ciampolillo. Una volta segnalò dei “pianisti”, quelli di Forza Italia cominciarono a tirargli palline di carta. Grasso lo rassicurò sulla sua incolumità: “Senatore Ciampolillo, la presidenza ha visto tutto. Ha visto anche che non l’ha colpito”. Stimato da destra, Vendola lo preferisce a Pisapia. “Grasso è una grande personalità – dice D’Alema – E’ stato un giovane militante di sinistra, l’abbiamo candidato e eletto presidente del Senato. Non è certo una new entry”. Un ineffabile presidente, in altre parole.
C'è del caos in quel di .....sinistra! sempre che si possa definire sinistra una compagine che si adopera per proteggere Banche, Vaticano, potere economico.... e che si è posizionata così in centro che si è confusa e fusa con l'altro centro, quello di destra...

giovedì 30 maggio 2013

Mps: l'Alzheimer creditizio del Pd.



È la meravigliosa amnesia bancaria del partito di Bersani il quale da decenni avvolge i suoi catenacci intorno a Palazzo Salimbeni.

Più che un buco di bilancio, un buco di memoria. Siena? Non sanno dove sia. Monte dei Paschi? Mai sentito. Mussari? Chi era costui?
È la meravigliosa amnesia bancaria del Pd, il quale da decenni avvolge i suoi catenacci politici intorno a Palazzo Salimbeni, tramite la Fondazione il Monte, nel feudo creditizio-politico dell’ex Pci: e adesso cade dalle nuvole. “Non c’entriamo mica”, dice Bersani dipingendo un mondo favoloso dove “il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche”. Il segretario poteva almeno mettersi d’accordo con D’Alema, che nello stesso momento diceva: “Mussari l’abbiamo cacciato noi”, attraverso il sindaco di Siena Ceccuzzi, che di Mussari, tanto per capirsi, è stato pure testimone di nozze. Chi, quel Mussari attivo fin da giovanissimo nel Pci, poi nel Pds e infine nel Partito Democratico, a cui nel 2010 ha donato 100 mila euro? L’avete cacciato voi? Ma allora il Pd c’entra o non c’entra?
L’amnesia bancaria ha fulminato persino Mario Monti, ex International advisors di Goldman Sachs, il quale dice “basta agli incroci tra banche e politica”, dimenticandosi che se esiste incrocio tra banche e politica, lui è quantomeno il semaforo. Il fatto che il ras senese Alfredo Monaci, presidente di Mps immobiliare, sia  candidato nella lista Monti in toscana lascia immaginare oscure commistioni. Insomma, se Fassino diceva “Abbiamo una banca”, ora la banca che il Pd già  possedeva è finita nell’oblìo. 
Dicesi Alzheimer creditizio, quella sindrome implacabile che tende a farci credere l’incredibile: e cioè che Siena è semplicemente la città del panforte e del Palio. Come no.

martedì 23 aprile 2013

Lavoro di squadra....



- Salvato Berlusconi dai processi
- Salvato Bersani dal Monte dei Paschi di Siena
- Salvato Napolitano dalle 4 intercettazioni Stato-mafia

Siamo passati da una repubblica parlamentare ad una repubblica presidenziale a democrazia contrattata il cui scopo non è rappresentare gli interessi del popolo italiano ma l’applicazione delle direttive e dei diktat dell’Unione Europea. La sovranità popolare è sostanzialmente azzerata da partiti che chiedono il voto per fare una cosa e ne fanno un’altra.

Leggetevi il documento dei 10 saggi, il prossimo programma di governo.

Vogliono limitare l'uso delle intercettazioni
Voglioni introdurre la responsabilità civile per i magistrati
Voglio distruggere l'intero sistema giudiziario per salvare dalla galera un'intera classe dirigente corrotta.


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giovedì 18 aprile 2013

Ultima fermata Capranica.

alfano-bersani.jpg

Queste giornate di primavera ricordano un altro aprile, quello del 1945. 
La fine di una lunga guerra e la volontà di ricostruzione. 
Il Paese, come allora, è in macerie. 
C'è però una differenza, tra il comico e il tragico. 
Nessuno dopo il 25 aprile si azzardò a girare per le strade in fez e camicia nera. 
I fascisti si dileguarono o cambiarono casacca. 
Il ventennio mussoliniano si concluse nel peggiore dei modi, ma nel dopoguerra almeno non si candidarono al Governo i superstiti del Gran Consiglio del Fascismo
Non ci fu un inciucio tra Togliatti e Dino Grandi
I responsabili non si ripresentarono come salvatori della Patria come avviene con Berlusconi, Bersani e D'Alema. La Nazione prese atto del disastro a cui l'aveva condotta il fascismo e voltò pagina. 
Il teatro Capranica, ieri sera a Roma, ricordava un altro teatro, il Lirico di Milano, dove Mussolini tenne l'ultimo discorso il 16 dicembre del 1944 per ricompattare i resti delle camice nere. 
Capranica è l'ultima raffica dell'inciucio. 
Gargamella ha inseguito i puffi presenti in sala per convincerli a votare l'ex democristiano Marini, candidato dal pdl, invece di Rodotà, che sarebbe acclamato dagli italiani per plebiscito. 
Marini rappresenta lo status quo, la garanzia di un governo Bersani "amico del giaguaro" che vuole smacchiare lo psiconano con la lingua, la nomina di un ministro della Giustizia non ostile a Berlusconi e forse l'innalzamento di quest'ultimo a senatore a vita il prossimo anno. 
Nessuno ha spiegato a Bersani che l'Italia è cambiata, che non vuole più accordi sottobanco con lo psiconano come è avvenuto negli ultimi vent'anni. 
Il Paese vuole togliersi, definitivamente, il sudario in cui l'hanno avvolta i caporioni del pdl e del pdmenoelle. 
La guerra è finita, arrendetevi. 
Liberateci per sempre dalla vostra presenza.

Siamo esausti.

http://www.beppegrillo.it/2013/04/ultima_fermata_capranica.html#commenti

sabato 6 aprile 2013

Come governerà Bersani? Guardate Montepaschi. - Maurizio Blondet


1698462d1358937214 e poi bersani voleva vedere la polvere sotto il tappeto dellitalia mussari bersani 213680 Come governerà Bersani? Guardate Montepaschi (di Maurizio Blondet)

Scrivo sulla notizia a caldo che Giuseppe Mussari, infine, si è dimesso dalla Associazione Bancaria Italiana. Ma perché è ancora a piede libero il banchiere del Pci-PDi? Come ha rivelato il Fatto, «il Monte dei Paschi di Siena nel 2009 – durante la gestione di Giuseppe Mussari – ha truccato i conti con un’operazione di ristrutturazione del debito per centinaia di milioni di euro di cui oggi i contribuenti italiani pagano il conto». Ciò, attraverso un contratto occulto con la banca Nomura, che «sarebbe servito a Montepaschi per abbellire il bilancio 2009 scaricando su Nomura le perdite di un derivato basato su rischiosi mutui ipotecari che poi i giapponesi avrebbero riversato sul Monte attraverso un contratto “segreto” a lungo termine», non comunicato ai vertici della MPS. Risultato: un buco nel bilancio della banca da 220 a 740 milioni di euro. 
Ora, repetita juvant, Montepaschi è la banca dei comunisti italiani. Mussari è stato il banchiere targato PCI e poi PDS, amatissimo da loro perché li ha lasciati depredare le casse della banca, ma stimatissimo (e c’è da chiedersi come mai) anche dagli altri banchieri, visto che lo hanno elevato al vertice della loro prestigiosa associazione nonostante, Mussari avesse già lasciato una banca in rovina con operazioni altamente sospette come l’acquisto di Antonveneta per un prezzo spropositato, che lasciava intravvedere operazioni loschissime, tipo fondi all’estero.
Bersani è contro il «falso in bilancio». Il suo compagno banchiere Mussari ha sicuramente commesso un falso in bilancio. Non ha nulla da dire, Bersani? Sennò si potrebbe pensare che è contro il falso in bilancio, ma solo se lo fanno gli amici e compari di Berlusconi. 
Bersani è contro coloro che si fanno fondi neri all’estero. Ha un giudizio da dare sulle operazioni Montepaschi del compagno Mussari, note da anni? Sarebbe bene saperlo, per sapere come Bersani ci governerà. Continua a ripetere che vuole «tracciabilità totale»: i 200 euro che paghi in nero all’idraulico, per esempio. Ma la tracciabilità delle operazioni Montepaschi, quelle no?
Adesso la banca comunista deve essere messa sotto commissariamento, è praticamente fallita in modo aperto. Perché era già fallita. Ma per scongiurare le conseguenze del fallimento sulla Fondazione – che avrebbe dovuto raccogliere nuovi capitali, diluendo i propri – Mario Monti ha trasferito a Montepaschi l’intero gettito dell’IMU sulla prima casa. Quasi 4 miliardi di euro ingoiati dal buco nero – o buco rosso – e per nulla, perché comunque l’inevitabile accade. 
Però mica è solo colpa dei due compari Monti e Bersani. Il Fatto Quotidiano ha spiegato che anche il PDL ha partecipato al salvataggio a spese di tutti noi. O ci ha tentato di nascosto, in combutta coi comunisti, nella Commissione Bilancio (dove il pubblico non vede), ficcando dentro il cosiddetto «DDL Sviluppo» un codicillo «che fissava condizioni particolarmente favorevoli per la banca Mps nel rimborso dei Monti-BondL’emendamento ideato da Simona Vicari (Pdl) e Filippo Bubbico (Pd), prevedeva infatti che, nel caso più che probabile che la banca non generi profitti, gli interessi sui 3,9 miliardi di aiuti pubblici che l’istituto senese si appresta a ricevere sotto forma di Monti bond potessero essere pagati anche con nuovo debito, per esempio obbligazioni. Un’alternativa al pagamento in azioni che avrebbe fatto entrare lo Stato nella proprietà dell’Istituto». (Mps, bocciato l’emendamento “salva proprietà” sui Monti Bond)
Ma allora non è vero che Berlusconi è l’avversario di Bersani!?. Quando si tratta di soldi e banche, sono d’amore e d’accordo. Basta che la gente non sappia. «Tracciabilità», dice Bersani, «No Imu», dice Berlusconi. Ma quando c’è da salvaguardare il potere dei partiti (di tutti) sulle banche, eccoli lì uniti e concordi a farne pagare il prezzo a noi contribuenti. Dilapidando 4 miliardi che, con Monti, hanno estratto dalle tasche di piccoli imprenditori disperati, di proprietari di immobili che schiacciati dall’aumento della tassa e del valore catastale, e persino a quei poveri pensionati sotto i mille euro mensili, che negli altri Paesi sono esenti, ma da noi no. 
Un lettore raffinato non capisce perché io sia così volgare, quando parlo della politica italiana: «Non mi piace l’ossessione scatologica, e il moralismo che vi è implicito, e quindi queste espressioni come: turarsi il naso, sciacquone, e altre carinerie simili…». Un altro: «io le chiedo: “Blondet, perché non dici qualcosa di cristiano?” ».
Mi scuso, mi scuso, qualche volta trascendo. Però vorrei che l’invito venisse rivolto a lorsignori. «Perché non fate qualcosa di cristiano?». Perché le loro banche, strapiene di fondi all’1%, non fanno credito alle imprese; perché loro tengono 7 milioni di italiani sotto il livello di povertà, e nella crisi recessiva corrente ridotti presto alla miseria, mentre loro sprecano e si arricchiscono? Derubano l’orfano e la vedova. Sottraggono la paga ai lavoratori. Le medicine ai malati. L’assegno d’accompagnamento agli invalidi totali. E mentono spudoratamente in tv; e dicono che è colpa nostra, che evadiamo le tasse… Capite che no, non riesco a dire qualcosa di cristiano. Forse leggo un’altra pagina del Vangelo, meno «consolante» del cristianesimo mainstream.
Vedo che Berlusconi continua a riscuotere simpatie fra i lettori. Lo avete visto impegnato a depennare dalle liste gli impresentabili: Cosentino, Dell’Utri, Scajola… Forse avrete notato che i primi due esclusi hanno minacciato, di fatto, il capo-comico di «rivelazioni», o di rovinarlo. Accade che quando ti affidi a malavitosi, poi ti ricattano. Facce nuove, giovani, dice Berlusconi. Scopro che ha rimesso in lista la Carfagna, la Brambilla, la Gelmini. E Renata Polverini, che ha fatto tanto bene alla Regione Lazio. Bondi e la sua fidanzata. Ha candidato in posizioni blindate due tizi che sono stati suoi testimoni a difesa sul caso Ruby: li avremo deputati, c’è già l’intero collegio di difesa del Maiale. E in più, scelta da lui in persona, Iliana Calabrò in rappresentanza degli italiani in Argentina. E chi è?, domanderete. Dagospia la descrive come una popputissima showgirl la cui specialità consiste nel simulare orgasmi sulla scena. Va bene che Casini, ha messo in lista la cognata e il genero, Rutelli (eh già, arieccolo) una segretaria, Gianfranco Fini un socio d’affari della sua moglie e padrone, la Tulliani… La solita girandola: parentopoli, nani, ballerine, mignottocrazia.
E però uno non deve riferire questi fatti come «liquame», e desiderare uno sciacquone che pulisca la fogna? È moralismo implicito, dice il lettore. Un altro mi accusa di non aver attenzione per quei candidati che difendono i «valori non negoziabili». Cari, come diceva Carl Schmitt, quando si comincia a parlare di «valori», si accetta il concetto di quotazione. I valori sono, originariamente, quelli della borsa-valori, e sono per eccellenza «negoziabili». La Chiesa proponeva «verità», merce antiquata. Oggi propone «valori», e pur sacrosanti: matrimonio, figli, no all’aborto e all’eutanasia. Come valori, purtroppo, hanno attualmente poco mercato… Chissà, se ricordasse che chi fa certe cose si gioca l’eterna dannazione, magari… O magari no. Questo popolo si contenta del suo destino zoologico.
E si vede: l’economia italiana, abitata da bestie da Fattoria degli Animali (dove qualche bestia è più uguale delle altre) degrada irresistibilmente, anche rispetto al contesto europeo recessivo, fiaccata forse per sempre dalle misure d’austerità (per noi, non per Mussari) di Monti. Per raggiungere gli obbiettivi della riduzione del deficit che ci ha assegnato (ma col voto del PDL) dovrà aspirarci dalle tasche altri 9 miliardi di euro, anche se adesso lui e il compare Bersani lo nega. Ma come faranno? Da dove prenderanno ancora ? Il potere d’acquisto di noi italiani è sceso del 4,1% nei primi nove mesi del 2012 rispetto al 2011, il credito bancario si è ulteriormente contratto del 3,4%, la produzione industriale è collassata addirittura, quasi del 25% dal 2008. La disoccupazione salirà al 12-14% nei prossimi mesi.
In questa situazione, come volete che governi Bersani? Visto dall’estero (dal blog di Paul Jorion) «il programma di Pier Luigi Bersani che è in testa nella corsa elettorale, si iscrive in un grande negoziato (con Berlino, ndr) che scambierebbe rinuncia alla sovranità (1) contro una diminuzione dell’austerità e l’adozione di misure cicliche di rilancio. Un cammino stretto, fatto di negoziati tra i sindacati e gli imprenditori , in favore di una moderata crescita finanziata dalla Banca europea degli investimenti, per rilanciare il mercato interno. E bisogna convincere il partner tedesco… Ma ciò non offre soluzioni ai problemi del paese, perché si urta alla necessità di una svalutazione interna (leggi: calo dei salari, retribuzioni e pensioni) a cui dovrà rassegnarsi». (L’ARBRE QUI CACHE LA FORÊT, par François Leclerc)
Ma niente paura, ci saranno sempre miliardi per Montepaschi o altre banche di proprietà dei partiti. E con il voto dei berluscònidi.
Forse davvero, l’unica è votare Grillo.


1) È esattamente quel che ha assicurato Bersani, voglioso di accreditarsi sul piano internazionale, al Financial times. «Io ho contribuito a far sì che l’Italia adottasse l’euro, io sono il segretario generale del partito italiano più favorevole all’Europa, e io ho sostenuto tutte le politiche e le riforme che l’Europa ci ha chiesto di adottare nel corso degli anni». - «Vogliamo accelerare il processo di integrazione come rimedio per combattere la recessione che sta colpendo l’intera Europa. Sinora abbiamo fatto alcuni passi in avanti importanti ma dobbiamo fare di più». Bersani respinge la posizione populista e anti-tedesca assunta da Berlusconi. - «Non litigherò con la Germania. Io voglio che l’Italia abbia una seria, franca e amichevole relazione con la Germania basata su argomentazioni razionali e realistiche» ha detto Bersani. «Infatti io concordo con molte delle critiche che la Germania rivolge a paesi come l’Italia perché sono le stesse critiche che io ho rivolto a Berlusconi». (Montepaschi sorvolando). In sostanza, Bersani s’è detto a favore addirittura di un indurimento del fiscal compact, che impegna a tagli di spesa pubblica obbligatori da 50 miliardi l’anno per 20 anni, dunque ad ulteriore stretta di cinghia e tassazione. Ed è a favore del commissario europeo a cui dovremmo far vedere il bilancio, per approvazione, prima di porlo al voto in Parlamento. È vero che un parlamento con Carfagne, Brambille e Scilipoti e segretarie di Rutelli e cognati di Casini, si merita di essere esautorato. Ma allora perchè lo paghiamo?

mercoledì 27 marzo 2013

I Ds hanno nascosto 200 milioni di euro. Il Pd: “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”, cioè noi. - Stefano Feltri



Il Pd, o meglio, la sua componente ex Ds, è responsabile di un buco di quasi 200 milioni di euro nei bilanci delle principali banche italiane. “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”, dice al Fatto l’eterno tesoriere Ds, Ugo Sposetti, appena ricandidato dal Pd.
Il Monte Paschi non c’entra, la questione riguarda quasi tutte le altre grandi banche italiane. Che, dopo anni di trattative e benevola tolleranza, sono passate all’attacco, stimolate dalla crisi: vogliono indietro i soldi. E chiedono di annullare le donazioni con cui i Ds hanno sottratto ai creditori il loro immenso patrimonio immobiliare, superiore al mezzo miliardo di euro, quando sono confluiti nel Pd. Se non riescono a rifarsi su quei beni, scatterà la garanzia dello Stato che copre quasi tutto il debito. Grazie a un apposito provvedimento del governo D’Alema. Nella lunga saga del debito post-comunista si è aggiunta una ulteriore variabile che Sposetti non controlla: un avvocato di Barletta, Antonio Corvasce, che da anni conduce nei tribunali una battaglia per presentarsi alle elezioni con lo storico simbolo dei Ds, la Quercia, di cui rivendica la titolarità.
La nullità delle donazioni La storia è complessa e conviene partire dalla fine. Il 24 giugno 2012 viene notificato ai Ds, che non solo esistono ma hanno ancora una sede a Roma, un decreto ingiuntivo: UniCredit si è stancata di aspettare, vuole indietro i suoi 29 milioni di euro più gli interessi maturati dal 2011 e le spese. Chiede quindi al Tribunale civile di Roma di annullare la donazione di un immobile di Bergamo da parte dei Ds alla Fondazione Gritti Minetti (che ne detiene 58). L’atto è “senz’altro revocabile” perché ha creato “un evidente, grave, pregiudizio alla ingente ragione di credito certa, liquida ed esigibile vantata dalla UniCredit Spa” verso i Ds. Sempre Uni-Credit, per le stesse ragioni, contesta anche la donazione di un appartamento a uso ufficio e di un magazzino a Udine, trasferiti gratis dai Ds alla Fondazione per il Riformismo nel Friuli Venezia Giulia. Anche Efibanca, gruppo Banco Popolare, rivuole i suoi 24 milioni, Intesa i suoi 13, 7 e così via. Fino ad arrivare ai 176 milioni indicati nel bilancio 2011, poi lievitati a causa degli interessi. Le banche, dice sempre il consuntivo 2011, l’ultimo disponibile, hanno già pignorato 30 milioni di rimborsi elettorali ancora da ricevere. E il resto? Niente. Nessuna garanzia o quasi, visto che tutti i beni immobili dei Ds sono stati trasferiti a fondazioni che giuridicamente non hanno alcun legame con il partito. Ugo Sposetti, al Fatto, dice: “Sono beni che erano del partito nazionale, ma che se ne fa l’UniCredit di un piccolo immobile, un circolo dove si riuniscono i lavoratori?”. E ripete la battuta con cui ha tacitato ogni obiezione in questi anni: “Lunga vita ai debitori”.
Tanta sicurezza deriva da una doppia assicurazione: gli immobili sono stati posti fuori dal perimetro del partito, lontano dagli artigli dei creditori. E sul debito una provvidenziale legge del 14 luglio 1998 (governo Prodi), ritoccata da un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri nel febbraio 2000 (quando, guarda caso, a Palazzo Chigi c’era D’Alema): la garanzia statale pensata per i giornali sovvenzionati che dovevano incassare contributi da Palazzo Chigi veniva estesa anche a “soggetti diversi dalle imprese editrici concessionarie”. Se le banche non riescono ad avere indietro gli immobili dei Ds, insomma, i loro debiti li pagheremo noi contribuenti.
Il patrimonio al sicuro C’era una ragione politica per conferire il patrimonio dei Ds alle fondazioni, cioè a organismi territoriali senza scopo di lucro incaricati di tenere viva la tradizione del partito e custodirne la ricchezza: in tanti, sotto la Quercia, pensavano che l’e-sperimento del Partito democratico non sarebbe durato. E allora nel 2007 si è fatto un matrimonio con la Margherita con la separazione dei beni. Casomai si dovesse tornare indietro. Anche perché i Ds erano ricchi sul territorio e poveri a Roma, al contrario dei margheriti. A Roma il partito di Francesco Rutelli poteva contare sul tesoretto dei rimborsi elettorali da gestire e da spartirsi con alcuni dirigenti, anche in quel caso in autonomia, alle spalle del Pd. Sappiamo com’è finita, con il tesoriere Luigi Lusi, ex senatore, in galera.
I Ds sembravano immuni a questo genere di problemi. Anche grazie, forse, al fatto che il debito accumulato dal Pci era stato ristrutturato nel 2003 da Sposetti, Massimo D’Alema (allora presidente dei Ds) e dal banchiere di fiducia del partito, Cesare Geronzi, all’epoca numero uno della Banca di Roma. Istituto che poi è confluito in UniCredit, capofila dei creditori, guidato a lungo da un altro banchiere non certo ostile al Pd, Alessandro Profumo. Quando è subentrato il meno politicamente connotato Federico Ghizzoni, nel 2011, UniCredit ha iniziato a farsi sotto. E la magia di Sposetti si è dissolta.
Le parti e il tutto La tesi di Sposetti è sempre stata che quasi tutto il patrimonio immobiliare non era a disposizione del partito centrale, visto che si è accumulato in gran parte grazie ai lasciti di militanti che, morendo, affidavano i propri beni ai segretari di federazione, sul territorio: “Non è che perché si chiamano uguale sono la stessa cosa”, dice. Però le banche si sono stancate di credere a questa versione in cui la testa era indipendente dal corpo. Anche perché l’unitarietà del partito traspare facilmente. Per esempio nel settembre 2009, quando l’inclusione dei Ds nel Pd è ormai compiuta, Sposetti scrive a tutti i tesorieri locali e ordina loro di chiudere i conti correnti e trasferire i soldi su un conto romano, cioè al partito centrale. Basta che venga dichiarato nullo un singolo atto di donazione e tutta la costruzione di Sposetti crollerà. Con un potenziale effetto politico interessante: se le donazioni vengono annullate, chi metterà le mani sugli immobili rimanenti, una volta soddisfatte le banche? Tutto il Pd? O se ne occuperanno di nuovo gli ex Ds, Pier Luigi Bersani incluso? Chissà.
Gli altri Ds Le banche hanno un alleato imprevisto nel tentativo di dimostrare che nel 2007 Fassino, Sposetti e la dirigenza dei Ds (c’erano D’Alema e Bersani) hanno fatto cose che non potevano fare, sottraendo gli immobili ai creditori. Si chiama Antonio Corvasce, un avvocato di Barletta che sostiene di essere l’autentico presidente dei Ds, o meglio, del “Partito dei democratici di sinistra, nuova denominazione del Partito democratico della sinistra”. Nel 2008, da consigliere comunale di Barletta eletto nelle file dei Ds, ha annunciato di non aderire al Pd e di rimanere Ds: chi ha partecipato alle primarie democratiche (questa è la sua tesi) ha perso ogni diritto sullo storico simbolo e anche sul patrimonio del partito. “Lo statuto dei Ds vieta la doppia tessera, chi si iscrive a un altro partito si mette fuori”, spiega Corvasce. Che ha riunito un comitato di base e nel 2008 ha convocato un congresso “per la continuità”, sostenendo che i veri di Ds sono quelli che lui guida ancora oggi. Finora quasi tutti i giudici hanno dato ragione a Sposetti e Fassino. Ma Corvasce insiste e, assieme al rappresentante legale del suo partito, il tesoriere Vito D’Aprile, chiede a Sposetti e Fassino di produrre in tribunale documenti per dimostrare che nel 2008 la gestione del patrimonio è stata regolare.
Il verbale misterioso La linea di Fassino e Sposetti si fonda sull’assemblea dei Ds del 26 giugno 2008, la prima dopo la nascita del Pd, decisiva per far proseguire l’esistenza del partito (e assicurarsi così i rimborsi elettorali). Quell’assemblea serve a dimostrare che c’è stata continuità, che Corvasce non può prendersi il simbolo. Fassino e Sposetti producono, nella causa civile contro Corvasce, D’Aprile e i “nuovi” Ds, il verbale di quell’assemblea. Corvasce presenta querela di falso: sostiene che quell’assemblea non c’è mai stata, che Fassino, Sposetti e gli altri hanno gestito i beni del partito come fossero cosa loro violando lo statuto. Il giudice dovrà pronunciarsi.
Ma alcuni dati sono oggettivi: allegata al verbale c’è una lettera di Fassino che, da segretario, annuncia l’apertura del tesseramento nazionale per i Ds il 16 giugno 2008 (quando già c’era il Pd). Dieci giorni dopo il tesseramento è già finito e gli iscritti si trovano all’Hotel Artemide di Roma. Nel verbale si legge che “l’assemblea è costituita in forma totalitaria essendo presenti tutti gli iscritti”. Peccato che poi, nel foglio delle firme, ci siano molti dirigenti che non hanno firmato (i veltroniani Tonini e Bettini, per esempio). Tra quelli che risultano presenti ci sono Pier Luigi Bersani, Antonio Bassolino, Massimo D’Alema. C’è anche la firma di Vincenzo Vita, senatore uscente Pd, che oggi al Fatto dice: “Ho un vago ricordo di quella riunione”. Ma c’era stato davvero un nuovo tesseramento Ds dopo la nascita del Pd? “No, ma quale tesseramento? I Ds hanno continuato a esistere come entità amministrativa, non c’è più stata alcuna attività politica”. Altri dettagli: Fassino e Sposetti producono in tribunale una prima versione del verbale in cui i fogli delle firme non sono autenticati dal notaio. Corvasce protesta ed ecco che appaiono i timbri notarili, ma l’autentica è di due anni dopo, 2010. Sposetti allega anche un video dell’assemblea, in cui Fassino esordisce dicendo che, visto che i Ds non hanno più iscritti, è ora di liquidarne il patrimonio. Il contrario di quanto afferma per iscritto.
Berlinguer sfratta Gramsci Le banche creditrici saranno ben felici di sfruttare queste informazioni per sostenere che le donazioni immobiliari sono nulle. E che le fondazioni locali servono solo a tenere i beni al riparo dal pignoramento (non si registra praticamente alcuna loro attività politica). Nella maggior parte dei casi si limitano ad affittare i locali al Pd. Che paga l’affitto. E se non lo fa viene sfrattato come a Sestu, in Sardegna: Enrico Berlinguer (la fondazione) ha sfrattato Antonio Gramsci (il partito). Uno dei tanti paradossi dovuti alle contorsioni con cui i Ds hanno cercato di far sparire i loro debiti milionari. Senza riuscirci.

sabato 23 marzo 2013

ZERO AUGURI, BERSANI. - ILRIBELLE.COM



Napolitano dà l’incarico al segretario Pd: nella speranza, tutta loro, di imbastire un governo “ragionevole”

La mossa è pressoché obbligata, ma il presidente della Repubblica si sente in dovere di affiancarla con un lungo discorso (1). Il cui “titolo”, sul sito del Quirinale, recita «L’Italia deve darsi un governo operante nella pienezza dei suoi poteri; occorre assicurare la vitalità della nuova legislatura».

In altre circostanze le due frasi suonerebbero come delle perfette ovvietà. Nella situazione attuale, invece, assumono significati complessi e risonanze niente affatto tranquillizzanti.

La chiave di volta è innanzitutto nei verbi: in quei «deve» e «occorre» che cercano di mettere le mani avanti e di trasformare il libero confronto parlamentare – che dovrebbe svilupparsi solo ed esclusivamente sulla base degli impegni elettorali assunti dai rispettivi partiti nei confronti dei cittadini che li hanno votati – in una disponibilità quasi incondizionata a trovare un accordo purchessia. 

Il “titolo”, del resto, è una citazione tratta dal testo completo. E non a caso è preceduta, in quella sede, da queste parole: «L'essenziale è mostrare a noi stessi, all'Europa e alla comunità internazionale quanto apprezziamo e coltiviamo il valore della stabilità istituzionale, non minore di quello della stabilità finanziaria: da entrambi dipende il grado di affidabilità del nostro paese».

Chiaro: Napolitano, ovvero l’uomo che nel novembre 2011 ha imposto Mario Monti come presidente del Consiglio, tenta in ogni modo di rimettere insieme i cocci, lanciando allo stesso tempo un’ulteriore assicurazione di fedeltà a chi di dovere (la Troika) e un monito a chi dovrà decidere, nei prossimi giorni, se appoggiare oppure no gli sforzi di Bersani. 

Logiche, e sottomissioni, e grovigli di interessi, che su queste pagine abbiamo analizzato in lungo e in largo. Ribadiamone giusto un frammento, allora: per l’establishment andrebbe benissimo un governo di Grosse Koalition tra Pd e PdL, ma non possono formarlo, o almeno non subito, perché apparirebbe una scelta smaccatamente oligarchica. Inoltre, viste le molte fazioni che si annidano nell’uno e nell’altro schieramento, temono che l’eventuale intesa si sgretoli troppo in fretta. Delegittimando ancora di più l’intera impalcatura istituzionale e moltiplicando i fattori di instabilità.

Tornare alle urne sarà l’extrema ratio. A meno che nel frattempo il M5S abbia perso buona parte della sua credibilità, o del suo fascino, e si possa confidare nello scampato pericolo.

1) http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Notizia&key=35032 


http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11641&mode=thread&order=0&thold=0

domenica 30 dicembre 2012

PIU’ A DESTRA DELL'AGENDA MONTI. ECCO L'INTERVISTA CHE PROVA CHE BERSANI CI HA VENDUTO ALLA GERMANIA



La vera campagna elettorale, quella per accreditarsi dove si prendono decisioni, la si fa sul Financial Times. Che ha dedicato molto spazio alle elezioni italiane. Segnaliamo questa intervista del Financial Times a Pierluigi Bersani in versione maresciallo Pètain. Quello dei giorni che precedettero la formazione della repubblica collaborazionista di Vichy.

Cosa dice di grave Bersani ?

La prima è che è favorevole ad un irrigidimento del fiscal compact, il patto sul bilancio che impegna a tagli di spesa pubblica di decine di miliardi l'anno per un ventennio. La seconda è che impegna l'Italia ad ulteriori politiche di austerità. Fin qui siamo a Monti forse con qualche parola più cruda sull'irrigidimento del fiscal compact. 

Ma dove Bersani, nel tentativo di accreditarsi in Europa, riesce a superare a destra Mario Monti è sulla questione del commissario unico europeo. Si tratta di una figura, già oggetto di trattativa nei precedenti round europei, che avrebbe potere di veto sulla stesura dei singoli bilanci nazionali. Per cui se un paese decidesse di finanziare scuola, sanità, servizi sociali, in autonomia nazionale, questa figura avrebbe potere di bloccare una decisione sovrana. Il più convinto artefice di questa proposta, che ha incontrato il favore di Barroso, è il superministro tedesco dell'economia Schauble. Monti, diplomaticamente, nelle settimane scorse aveva fatto scivolar via questa proposta (assieme ad altri paesi). Monti è un uomo di destra, convinto di svendere il paese, ma sa che la cessione di sovranità va sempre saputa trattare con accortezza.

E cosa ti fa Bersani? Per accreditarsi in Europa si dice pronto ad accettare la proposta Schauble. Al Financial Times Bersani si dice pronto ad accettare la cessione di sovranità. Ovviamente si bada bene dal dirlo all'elettorato italiano. Qui è da considerare una cosa. Esistono due tipi di cessione di sovranità: una, quella con contropartite, fa parte di un processo di integrazione continentale. L'altra, senza contropartite, spiace dirlo ma si chiama resa ad una potenza straniera. Nessun dubbio che Bersani voglia incarnare i panni del nuovo Pétain che, a suo tempo, decise che la resa praticamente senza contropartite alla Germania fosse l'unica strada razionalmente praticabile.


http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11278