Il Pd, o meglio, la sua componente ex Ds, è responsabile di un buco di quasi 200 milioni di euro nei bilanci delle principali banche italiane. “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”, dice al Fatto l’eterno tesoriere Ds, Ugo Sposetti, appena ricandidato dal Pd.
Il Monte Paschi non c’entra, la questione riguarda quasi tutte le altre grandi banche italiane. Che, dopo anni di trattative e benevola tolleranza, sono passate all’attacco, stimolate dalla crisi: vogliono indietro i soldi. E chiedono di annullare le donazioni con cui i Ds hanno sottratto ai creditori il loro immenso patrimonio immobiliare, superiore al mezzo miliardo di euro, quando sono confluiti nel Pd. Se non riescono a rifarsi su quei beni, scatterà la garanzia dello Stato che copre quasi tutto il debito. Grazie a un apposito provvedimento del governo D’Alema. Nella lunga saga del debito post-comunista si è aggiunta una ulteriore variabile che Sposetti non controlla: un avvocato di Barletta, Antonio Corvasce, che da anni conduce nei tribunali una battaglia per presentarsi alle elezioni con lo storico simbolo dei Ds, la Quercia, di cui rivendica la titolarità.
La nullità delle donazioni La storia è complessa e conviene partire dalla fine. Il 24 giugno 2012 viene notificato ai Ds, che non solo esistono ma hanno ancora una sede a Roma, un decreto ingiuntivo: UniCredit si è stancata di aspettare, vuole indietro i suoi 29 milioni di euro più gli interessi maturati dal 2011 e le spese. Chiede quindi al Tribunale civile di Roma di annullare la donazione di un immobile di Bergamo da parte dei Ds alla Fondazione Gritti Minetti (che ne detiene 58). L’atto è “senz’altro revocabile” perché ha creato “un evidente, grave, pregiudizio alla ingente ragione di credito certa, liquida ed esigibile vantata dalla UniCredit Spa” verso i Ds. Sempre Uni-Credit, per le stesse ragioni, contesta anche la donazione di un appartamento a uso ufficio e di un magazzino a Udine, trasferiti gratis dai Ds alla Fondazione per il Riformismo nel Friuli Venezia Giulia. Anche Efibanca, gruppo Banco Popolare, rivuole i suoi 24 milioni, Intesa i suoi 13, 7 e così via. Fino ad arrivare ai 176 milioni indicati nel bilancio 2011, poi lievitati a causa degli interessi. Le banche, dice sempre il consuntivo 2011, l’ultimo disponibile, hanno già pignorato 30 milioni di rimborsi elettorali ancora da ricevere. E il resto? Niente. Nessuna garanzia o quasi, visto che tutti i beni immobili dei Ds sono stati trasferiti a fondazioni che giuridicamente non hanno alcun legame con il partito. Ugo Sposetti, al Fatto, dice: “Sono beni che erano del partito nazionale, ma che se ne fa l’UniCredit di un piccolo immobile, un circolo dove si riuniscono i lavoratori?”. E ripete la battuta con cui ha tacitato ogni obiezione in questi anni: “Lunga vita ai debitori”.
Tanta sicurezza deriva da una doppia assicurazione: gli immobili sono stati posti fuori dal perimetro del partito, lontano dagli artigli dei creditori. E sul debito una provvidenziale legge del 14 luglio 1998 (governo Prodi), ritoccata da un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri nel febbraio 2000 (quando, guarda caso, a Palazzo Chigi c’era D’Alema): la garanzia statale pensata per i giornali sovvenzionati che dovevano incassare contributi da Palazzo Chigi veniva estesa anche a “soggetti diversi dalle imprese editrici concessionarie”. Se le banche non riescono ad avere indietro gli immobili dei Ds, insomma, i loro debiti li pagheremo noi contribuenti.
Il patrimonio al sicuro C’era una ragione politica per conferire il patrimonio dei Ds alle fondazioni, cioè a organismi territoriali senza scopo di lucro incaricati di tenere viva la tradizione del partito e custodirne la ricchezza: in tanti, sotto la Quercia, pensavano che l’e-sperimento del Partito democratico non sarebbe durato. E allora nel 2007 si è fatto un matrimonio con la Margherita con la separazione dei beni. Casomai si dovesse tornare indietro. Anche perché i Ds erano ricchi sul territorio e poveri a Roma, al contrario dei margheriti. A Roma il partito di Francesco Rutelli poteva contare sul tesoretto dei rimborsi elettorali da gestire e da spartirsi con alcuni dirigenti, anche in quel caso in autonomia, alle spalle del Pd. Sappiamo com’è finita, con il tesoriere Luigi Lusi, ex senatore, in galera.
I Ds sembravano immuni a questo genere di problemi. Anche grazie, forse, al fatto che il debito accumulato dal Pci era stato ristrutturato nel 2003 da Sposetti, Massimo D’Alema (allora presidente dei Ds) e dal banchiere di fiducia del partito, Cesare Geronzi, all’epoca numero uno della Banca di Roma. Istituto che poi è confluito in UniCredit, capofila dei creditori, guidato a lungo da un altro banchiere non certo ostile al Pd, Alessandro Profumo. Quando è subentrato il meno politicamente connotato Federico Ghizzoni, nel 2011, UniCredit ha iniziato a farsi sotto. E la magia di Sposetti si è dissolta.
Le parti e il tutto La tesi di Sposetti è sempre stata che quasi tutto il patrimonio immobiliare non era a disposizione del partito centrale, visto che si è accumulato in gran parte grazie ai lasciti di militanti che, morendo, affidavano i propri beni ai segretari di federazione, sul territorio: “Non è che perché si chiamano uguale sono la stessa cosa”, dice. Però le banche si sono stancate di credere a questa versione in cui la testa era indipendente dal corpo. Anche perché l’unitarietà del partito traspare facilmente. Per esempio nel settembre 2009, quando l’inclusione dei Ds nel Pd è ormai compiuta, Sposetti scrive a tutti i tesorieri locali e ordina loro di chiudere i conti correnti e trasferire i soldi su un conto romano, cioè al partito centrale. Basta che venga dichiarato nullo un singolo atto di donazione e tutta la costruzione di Sposetti crollerà. Con un potenziale effetto politico interessante: se le donazioni vengono annullate, chi metterà le mani sugli immobili rimanenti, una volta soddisfatte le banche? Tutto il Pd? O se ne occuperanno di nuovo gli ex Ds, Pier Luigi Bersani incluso? Chissà.
Gli altri Ds Le banche hanno un alleato imprevisto nel tentativo di dimostrare che nel 2007 Fassino, Sposetti e la dirigenza dei Ds (c’erano D’Alema e Bersani) hanno fatto cose che non potevano fare, sottraendo gli immobili ai creditori. Si chiama Antonio Corvasce, un avvocato di Barletta che sostiene di essere l’autentico presidente dei Ds, o meglio, del “Partito dei democratici di sinistra, nuova denominazione del Partito democratico della sinistra”. Nel 2008, da consigliere comunale di Barletta eletto nelle file dei Ds, ha annunciato di non aderire al Pd e di rimanere Ds: chi ha partecipato alle primarie democratiche (questa è la sua tesi) ha perso ogni diritto sullo storico simbolo e anche sul patrimonio del partito. “Lo statuto dei Ds vieta la doppia tessera, chi si iscrive a un altro partito si mette fuori”, spiega Corvasce. Che ha riunito un comitato di base e nel 2008 ha convocato un congresso “per la continuità”, sostenendo che i veri di Ds sono quelli che lui guida ancora oggi. Finora quasi tutti i giudici hanno dato ragione a Sposetti e Fassino. Ma Corvasce insiste e, assieme al rappresentante legale del suo partito, il tesoriere Vito D’Aprile, chiede a Sposetti e Fassino di produrre in tribunale documenti per dimostrare che nel 2008 la gestione del patrimonio è stata regolare.
Il verbale misterioso La linea di Fassino e Sposetti si fonda sull’assemblea dei Ds del 26 giugno 2008, la prima dopo la nascita del Pd, decisiva per far proseguire l’esistenza del partito (e assicurarsi così i rimborsi elettorali). Quell’assemblea serve a dimostrare che c’è stata continuità, che Corvasce non può prendersi il simbolo. Fassino e Sposetti producono, nella causa civile contro Corvasce, D’Aprile e i “nuovi” Ds, il verbale di quell’assemblea. Corvasce presenta querela di falso: sostiene che quell’assemblea non c’è mai stata, che Fassino, Sposetti e gli altri hanno gestito i beni del partito come fossero cosa loro violando lo statuto. Il giudice dovrà pronunciarsi.
Ma alcuni dati sono oggettivi: allegata al verbale c’è una lettera di Fassino che, da segretario, annuncia l’apertura del tesseramento nazionale per i Ds il 16 giugno 2008 (quando già c’era il Pd). Dieci giorni dopo il tesseramento è già finito e gli iscritti si trovano all’Hotel Artemide di Roma. Nel verbale si legge che “l’assemblea è costituita in forma totalitaria essendo presenti tutti gli iscritti”. Peccato che poi, nel foglio delle firme, ci siano molti dirigenti che non hanno firmato (i veltroniani Tonini e Bettini, per esempio). Tra quelli che risultano presenti ci sono Pier Luigi Bersani, Antonio Bassolino, Massimo D’Alema. C’è anche la firma di Vincenzo Vita, senatore uscente Pd, che oggi al Fatto dice: “Ho un vago ricordo di quella riunione”. Ma c’era stato davvero un nuovo tesseramento Ds dopo la nascita del Pd? “No, ma quale tesseramento? I Ds hanno continuato a esistere come entità amministrativa, non c’è più stata alcuna attività politica”. Altri dettagli: Fassino e Sposetti producono in tribunale una prima versione del verbale in cui i fogli delle firme non sono autenticati dal notaio. Corvasce protesta ed ecco che appaiono i timbri notarili, ma l’autentica è di due anni dopo, 2010. Sposetti allega anche un video dell’assemblea, in cui Fassino esordisce dicendo che, visto che i Ds non hanno più iscritti, è ora di liquidarne il patrimonio. Il contrario di quanto afferma per iscritto.
Berlinguer sfratta Gramsci Le banche creditrici saranno ben felici di sfruttare queste informazioni per sostenere che le donazioni immobiliari sono nulle. E che le fondazioni locali servono solo a tenere i beni al riparo dal pignoramento (non si registra praticamente alcuna loro attività politica). Nella maggior parte dei casi si limitano ad affittare i locali al Pd. Che paga l’affitto. E se non lo fa viene sfrattato come a Sestu, in Sardegna: Enrico Berlinguer (la fondazione) ha sfrattato Antonio Gramsci (il partito). Uno dei tanti paradossi dovuti alle contorsioni con cui i Ds hanno cercato di far sparire i loro debiti milionari. Senza riuscirci.
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