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domenica 24 settembre 2023

NAPOLITANO È MORTO (MA IL VITALIZIO VIVE) - Andrea Battantier

 

Ci lasciano due tra i più grandi contenitori umani
di segreti degli ultimi 100 anni, Matteo Messina Denaro e Giorgio Napolitano.
La morte di Napolitano, come quella di altri politici, ci fa riflettere su una realtà amara: nonostante siano ora scomparsi, hanno lasciato dietro di sé una sorta di eredità sinistra.
Napolitano, in linea con una compagine di arraffoni, ha lasciato ai figli e nipoti vitalizi che noi, il popolo, continueremo a pagare.
È un privilegio che non tutti possono vantare.
Questo sistema, che permette ai politici di arricchirsi durante il loro mandato e poi godere di vantaggi vitalizi, è una macchia sulla storia della politica italiana.
È una vergogna italiana che continua a persistere, mentre nel resto del mondo queste pratiche sono state abbandonate da tempo.
Nel corso della storia repubblicana italiana, sono emersi pochi politici che hanno suscitato un senso di rispetto e ammirazione sincera. Tra questi, si possono menzionare Pertini, Berlinguer e Moro. Erano uomini che sembravano impegnati a servire il bene comune piuttosto che il proprio interesse personale.
Giorgio Napolitano, a mio avviso, rappresenta uno dei peggiori presidenti della storia italiana. Del resto, non si diventa il comunista preferito di Kissinger per caso.
Non se ne vanno sempre i migliori.
Il suo coinvolgimento nella trattativa stato-mafia è un'ombra che ha oscurato gran parte del suo mandato.
Quando fu interrogato sulle trattative stato-mafia si avvalse, da senatore a vita, della facoltà di non rispondere.
Non è riuscito a stare lontano da Silvio, ha firmato il lodo Alfano.
Insomma, è un altro che si porta segreti nella tomba, un'altra 'scatola nera' finita negli abissi. La morte non cancella ciò che si è stati in vita.
Ps
Il mio sogno: ascoltare le famose intercettazioni, dopo i funerali di Stato, s'intende.
(A. Battantier, Italien Néandertalien)
***
"Chi fosse Napolitano lo descrive bene Ermanno Rea in "Mistero napoletano". Un uomo di apparato sempre fedele a ciò che momento per momento gli conveniva, che fosse il suo appoggio all'occupazione dell'Ungheria o la distruzione delle registrazioni dei rapporti Stato-mafia.
Il vezzo di glorificare i morti a prescindere, nasconde sempre una complicità con questo sistema mentale che giudico imbelle e vigliacco". (Gian Carlo Zanon)

martedì 16 febbraio 2021

Cassese & C. l’abbuffata dei super burocrati. - Carlo Di Foggia

 

Governi e ministri, è noto, vanno e vengono. Capi di gabinetto e alti burocrati restano e comandano, a volte fanno lunghi giri e poi ritornano. Qualche decina di grand commis – consiglieri di Stato, magistrati amministrativi, etc – che detengono un potere immenso. Sacerdoti di una religione laica che scrive e interpreta le leggi (comprese quelle che permettono di distaccarli fuori ruolo nei ministeri o nelle Authority, di cui poi giudicano gli atti). Il governo Draghi non fa eccezione. Anzi è anche il risultato di una delicata battaglia sotterranea che ha visto la capitolazione di Giuseppe Conte.

C’è un partito della burocrazia, il cui stratega – o almeno così lui prova ad accreditarsi – è il giurista Sabino Cassese, principe degli amministrativisti, già giudice della Consulta, ministro con Ciampi e voce ascoltatissima della maionese impazzita detta establishment italiano. Il nostro ha passato mesi a bombardare a mezzo stampa il governo Conte, considerato inadeguato a gestire la crisi e il Recovery Plan. Con la nascita del governo di Mario Draghi, con cui vanta ottimi rapporti, non si è tenuto: “È in linea con le mie aspettative”, ha esultato, auspicando che il neo esecutivo “non sia a termine”.

Tanta gioia magari si spiega anche con il ritorno al comando dei suoi numerosi allievi, una schiera nutrita con ottime entrature al Quirinale e tra i quali si contano Giulio Napolitano (figlio di Giorgio) e Bernardo Giorgio Mattarella (figlio di Sergio) o avvocati di grido come Andrea Zoppini (e il suo rinomato studio). Una fitta rete di potere che può vantare oggi diverse posizioni chiave nei ministeri la neo-titolare della Giustizia, Marta Cartabia, vicina a Comunione e Liberazione, nonché giudice costituzionale negli anni in cui alla Consulta sedeva anche Cassese. Questo mondo – oggi in attrito con quel che resta della filiera andreottiana incarnata dal Gran Visir del berlusconismo Gianni Letta e dal faccendiere Luigi Bisignani, prova a tessere le file del gioco e sembra avere il sopravvento. Al punto che Cartabia viene perfino indicata tra i papabili futuri presidenti della Repubblica.

Conte non è estraneo alla macchina della giustizia amministrativa, è stato vicepresidente del Consiglio di presidenza dell’organo di autogoverno (il Cpga). Ai tempi del governo gialloverde, Cassese era stato anche prodigo di elogi (“sei meglio di Gentiloni”), ma dall’estate 2020 qualcosa è cambiato; è iniziato il bombardamento che oggi vede il suo esito vittorioso.

Il ritorno più clamoroso, in questo senso, è quello di Roberto Garofoli a Palazzo Chigi: arriva, in quota Quirinale, addirittura come sottosegretario alla Presidenza. Consigliere di Stato, nel Conte I fu costretto alle dimissioni da capo di gabinetto al Tesoro (arrivato con Padoan in quota Enrico Letta, fu confermato da Tria) su input dell’allora premier: il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, lo attaccò insieme ai “pezzi di merda” del ministero dell’Economia accusati da 5Stelle e Lega di sabotare il governo non facendo saltare fuori i soldi per il ddl Bilancio 2019. Tra i “pezzi di merda” c’era anche l’allora Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, neo ministro dell’Economia.

Oggi, stando alle indiscrezioni, dal repulisti di Cassese&Draghi si dovrebbe salvare (per ora) Roberto Chieppa, segretario generale di Palazzo Chigi: fedelissimo di Conte e bersaglio prediletto di Cassese nei suoi editoriali contro i Dpcm scritti “da chi meriterebbe di essere mandato in Siberia”, nel Palazzo si dice che debba la riconferma ai buoni uffici di Mattarella jr. Chi dovrebbe saltare è invece Ermanno De Francisco, l’uomo che Conte ha chiamato a capo dell’Ufficio legislativo a Palazzo Chigi, anche lui, come Chieppa, vicino al presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, ex ministro del governo Monti, nominato al vertice di Palazzo Spada proprio da Conte.

Al suo posto dovrebbe arrivare un altro fedelissimo di Patroni Griffi, Carlo Deodato, giudice del Consiglio di Stato, già capo di gabinetto al ministero degli Affari europei con Paolo Savona, che seguì quando quest’ultimo fu dirottato alla presidenza della Consob (è stato segretario generale dell’Authority).

Vicino ad Andrea Zoppini – ha scritto con lui un Manuale di diritto civile edito da “Nel diritto”, casa editrice con fatturato milionario della moglie di Garofoli – è anche Giuseppe Chinè, che dovrebbe sostituire Luigi Carbone (anche lui consigliere di Stato in distacco) come capo di gabinetto al Mef: magistrato amministrativo (cresciuto alla scuola di Vincenzo Fortunato, potentissimo al Tesoro ai tempi di Tremonti e Monti), oggi capo della Procura federale della Figc, Chinè è stato capo di gabinetto di Beatrice Lorenzin alla Salute (governo Renzi) e al Miur con Marco Bussetti (in quota Lega nel governo Conte I).

Gradita a Giorgetti, ma anche al mondo dem, è la papabile nuova capo di gabinetto di Garofoli, Daria Perrotta: già capo segreteria del leghista quando era sottosegretario a Palazzo Chigi coi gialloverdi, ricoprì lo stesso ruolo con Maria Elena Boschi nell’esecutivo Gentiloni; oggi è consulente di Dario Franceschini al Mibact.

Al ministero dello Sviluppo, Giorgetti dovrebbe invece portarsi Paolo Visca, alto funzionario della Camera e capo di gabinetto di Matteo Salvini da vicepremier .

In quota Confindustria, ma vicina al finanziere-costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, al ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta dovrebbe arrivare l’ex dg di Viale dell’Astronomia, Marcella Panucci. Invece Gaetano Caputi, che fu direttore generale Consob ai tempi di Giuseppe Vegas, è in pole position per la stessa poltrona al ministero del Turismo del leghista Massimo Garavaglia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/16/cassese-c-labbuffata-dei-super-burocrati/6102579/

domenica 14 febbraio 2021

Marta Cartabia, la professoressa vicina a Cl che Napolitano nominò alla Consulta: chi è la ministra della giustizia del governo Draghi. - Giuseppe Pipitone

 

La prima donna eletta presidente della Consulta è la nuova guardasigilli. Ordinaria di diritto Costituzionale alla Bicocca e poi alla Bocconi, vicina a Comunione e Liberazione e all'ex presidente della Repubblica, da tempo veniva accostata a ogni tipo di incarico istituzionale. Ora dovrà gestire riforme delicate come quella sulla giustizia civile - fondamentale per ottenere i fondi del Recovery - e penale, che già causarono la caduta dei governi Conte 1 e 2.

Da un paio d’anni la candidavano praticamente a qualsiasi cosa: presidente del consiglio dopo la caduta del governo gialloverde, guida dell’esecutivo tecnico che avrebbe dovuto condurre a elezioni dopo la caduta di quello giallorosso, capa dello Stato alla conclusione del mandato di Sergio Mattarella. Alla fine Marta Cartabia ha effettivamente trovato occupazione politica. Non sarà la prima donna a guidare un governo, non ancora almeno. Per il momento si dovrà accontentare di un ministero, seppur di peso come quello della Giustizia. Un dicastero delicato quello ereditato dal grillino Alfonso Bonafede e per il quale Mario Draghi ha deciso di affidarsi a una tecnica pura come l’ex presidente della Consulta. Una manovra che ricorda la nomina di Luciana Lamorgese agli Interni nel 2019. Scelta fatta per spoliticizzare il Viminale dopo l’ingombrante presenza di Matteo Salvini. In via Arenula, invece, è toccato alla prima donna eletta presidente della Consulta. Costituzionalista di rilievo internazionale e tecnica perfetta per ogni tipo di incarico politico. Va detto, però, che la giustizia penale e civile è un’altra cosa. E qualcuno già sostiene che come guardasigilli ci sarebbe stato bisogno di un tecnico più esperto di aule di tribunale che di stanze dell’università.

La giustizia che fa cadere i governi – Cartabia prende il posto di Bonafede, sovraesposto guardasigilli dei 5 stelle. Paga, sicuramente, le riforme (dalla Spazzacorrotti alla precrizione) che l’Europa chiede al nostro Paese da anni. Ma che ampie porzioni della politica italiana hanno sempre cercato di affossare. Non è un mistero, infatti, che gli ultimi due governi siano caduti proprio a causa della giustizia. Prima la Lega e poi Italia viva hanno staccato la spina ai due esecutivi di Giuseppe Conte per provare a neutralizzare le riforme dei processi, soprattutto quelli penali. Lo stesso Conte, dopo aver incassato la fiducia in Parlamento, si è dimesso alla vigilia della votazione della relazione sulla giustizia di Bonafede: il governo sarebbe sicuramente andato sotto. “Un voto contro Bonafede è un voto contro tutto il governo”, disse Luigi Di Maio: 48 ore dopo l’ormai ex presidente del consiglio andò al Quirinale per dimettersi. In venti giorni la crisi al buio aperta per colpa di Matteo Renzi ha imboccato una strada impronosticabile all’inizio. Dopo il fallimento del mandato esplorativo di Roberto Fico, Mattarella ha optato per un governo del presidente. E Draghi ha deciso di spoliticizzare i ministeri chiave, mettendoli in mano ai tecnici.

Le riforme in eredità – Fatto fuori Bonafede, però, restano le sue riforme. Che devono essere portate avanti. Durante le consultazioni Draghi ha citato tra le priorità quella sulla giustizia civile, che giace da circa un anno alla commissione giustizia del Senato. Alla Camera è invece ferma quella sul processo penale, che ha al suo interno il “lodo Conte” sulla riforma della prescrizione. Tutte leggi al momento bloccate e che il nuovo governo dovrà in qualche modo prendere in mano. Non si tratta di una libera scelta: la riforma per velocizzare i processi è necessaria per ottenere l’effettivo accesso ai fondi del Recovery. Senza considerare che secondo la bozza del piano del governo Conte ben 3 dei 209 miliardi sono destinati alle assunzioni per velocizzare i processi. È di tutto questo che dovrà occuparsi Cartabia, da anni considerata una riserva della Repubblica, costituzionalista di altissimo livello, ma lontana dalle logiche della giustizia penale.

Onida, gli Usa, Napolitano e Cl – Nata il 14 maggio del 1963 a San Giorgio su Legnano, nell’Alto milanese, ordinaria di diritto Costituzionale alla Bicocca e poi alla Bocconi, cresciuta alla cattedra di Valerio Onida, tra i suoi maestri la nuova guardasigilli può annoverare Joseph Weiler, direttore dello Straus Institute for Advanced Study in Law and Justice della New York University, una delle scuole di formazione giuridica più prestigiose del mondo, che Cartabia frequentò nel 2009. Weiler è un vecchio amico di Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che nel 2014 gli conferirà la cittadinanza italiana (all’epoca il giurista americano guidava l’European University Institute di Firenze) e che già tre anni prima aveva nominato Cartabia alla Consulta, facendone a soli 48 anni la componente più giovane di sempre. Risaliva a un anno prima, al 2010, l’applauditissimo intervento di Napolitano al Meeting di Rimini, l’evento annuale simbolo di Comunione e liberazione. Un ambiente, quello del movimento cattolico fondato da don Luigi Giussani, dove Cartabia è di casa fin dagli anni degli studi universitari. Insieme al marito, Giovanni Maria Grava, l’ex presidente della Consulta è considerata molto vicina a Cl: per dieci anni è intervenuta al Meeting di Rimini, l’ultima volta nel 2019. Sarà un caso ma l’estate scorsa pure il neo premier Draghi fu accolto con tutti gli onori alla kermesse ciellina. Risale al 2016, invece, la visita di Sergio Mattarella, altro importante interlocutore dell’attuale guardasigilli.

Le posizioni sui matrimoni omosessuali e sul suicidio assistito – Prima della nomina alla Consulta, tra l’altro, Cartabia era una delle firme del ilsussidiario.net, organo della Fondazione per la Sussidiarietà e interprete giornalistico della linea di Cl. Sul sito si trovano ancora i suoi interventi, molto critici sul suicidio assistito: “Quell’arbitrio che pretende di giudicare il mistero della vita”, è il titolo un articolo sul caso di Eluana Englaro. Definito dall’attuale guardasigilli come “un verdetto che riguarda anche ciascuno di noi che assistiamo impotenti alla fine di una vita”. “Matrimonio a ogni costo, la pretesa dei falsi diritti“, era invece intitolato un intervento di Cartabia sulla legge approvata dallo Stato di New York, che consentiva il matrimonio tra persone dello stesso sesso. “Chi scrive non esulta di fronte a questa decisione”, spiegava la futura presidente della Consulta. Che è stata la prima donna a essere eletta al vertice della Corte. “Si è rotto un vetro di cristallo, ho l’onore di essere un’apripista”, disse l’11 dicembre del 2019, giorno dell’elezione. Rovinato dalle proteste delle associazioni Lgbt, che l’accusavano di essere di parte per la sua provenienza dal mondo cattolico e per quelle posizioni sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. Critiche che la ferirono e alle quali rispose spiegando: “La Corte difende i diritti di tutti perché nella laicità positiva dello Stato“.

L’arrivo in via Arenula – Guida la Consulta per 270 giorni e ha il merito di svecchiarne l’immagine, aprendola all’esterno nonostante il suo mandato sia quasi parallelo all’esplosione della pandemia. “Abbiamo tutti vissuto un grande cambiamento. E sono veramente fiera di sottolineare che questa istituzione ha assicurato il pieno funzionamento della della giustizia costituzionale senza cedimenti e interruzioni”, dirà nel suo ultimo giorno da presidente, prima di tornare a insegnare. Oggi che diventa ministra, il primo a commentarne la nomina è Tommaso Cerno, senatore del Pd: “La scelta di Cartabia alla giustizia ci lascia perplessi come cittadini e come omosessuali viste le posizioni sostanzialmente reazionarie della guardasigilli va detto che tanto tuono che non piove”. E dire che Cerno è stato portato in Senato da Matteo Renzi, uno dei più appassionati cultori della nuova guardasigilli. Dicono che tra i due ci sia un legame, mai messo in risalto nelle relazioni pubbliche. Oggi Cartabia giura da ministra della giustizia di un governo che è il risultato della crisi politica provocata da Renzi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/13/marta-cartabia-la-professoressa-vicina-a-cl-che-napolitano-nomino-alla-consulta-chi-e-la-ministra-della-giustizia-del-governo-draghi/6096546/

sabato 4 luglio 2020

B. & il giudice: obiettivo grazia. “Parliamone a Napolitano” Le mosse di Silvio sul Colle. - Gianni Barbacetto

B. & il giudice: obiettivo grazia. “Parliamone a Napolitano” Le mosse di Silvio sul Colle

Agganciare direttamente Giorgio Napolitano – tramite un consigliere giuridico del Colle – per riaffrontare il tema della grazia. È una delle strategie che, il 6 febbraio 2014, Silvio Berlusconi pensa di mettere in campo dopo la batosta della condanna in Cassazione nel 2013 a quattro anni per frode fiscale e la decadenza da senatore. Di questo parla con Amedeo Franco, giudice relatore di quello stesso verdetto che poi davanti a Berlusconi ha rinnegato. Quel giorno la conversazione tra i due, come è noto, viene registrata ed è stata poi depositata dalla difesa dell’ex presidente del Consiglio nel ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Alcune frasi – quelle in cui Franco parla di “plotone d’esecuzione” e di sentenza “porcheria” – sono state già pubblicate. Altre no. Come quelle in cui Berlusconi parla con il giudice della grazia: richiesta che al Colle non arriverà mai.
Nella conversazione del 6 febbraio di sei anni fa, quindi, il giudice Franco (deceduto lo scorso anno) si mostra disponibile a lavorare per il riscatto di Berlusconi. “Bisognerebbe trovare un modo – dice – in cui sia efficace questa, perché a me non è che mi dispiacerebbe sollevarmi la coscienza e dire: ‘Io ho fatto, ho accettato di fare questa cosa perché è un modo per esprimere la mia solidarietà al presidente Berlusconi (…) perché a mio avviso… come si sono svolte le vicende, ma a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subìto una grave ingiustizia’”. “Però – aggiunge Franco – che si faccia una lettera… bisogna pensare il modo, perché se si fa una lettera al presidente della Repubblica, noi soprattutto se è segreta, secondo me non va bene”. Berlusconi interviene: “E chiedergli un incontro?”. E Franco: “E che gli dico? Io posso andare non da lui, posso andare da Lupo in qualsiasi momento, dico di ricevermi, ma non serve a niente”.
Il Lupo citato potrebbe essere Ernesto Lupo, presidente di Cassazione dal 2010 al 2013, che lascia il posto pochi mesi prima della condanna di Berlusconi. Poi diventa consigliere per gli Affari di giustizia al Quirinale, con Giorgio Napolitano presidente. Su Lupo il discorso torna più volte. Franco dice di avergli parlato della sentenza che, dopo aver firmato, rinnega. Circostanza questa che Lupo, in un’intervista al Corriere della Sera, ha già spiegato: “La camera di consiglio è segreta. Sarebbe stata una scorrettezza grave per lui violare quel segreto e anche per me se lo avessi indotto a farlo. (…) Per questo cambiavo argomento e tornavo sul motivo delle chiamate ripetute: la sua promozione. Non per sviare”.
Parlando dunque di Lupo, Franco ribadisce: “Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo, ecc ecc. Ho cominciato a dirglielo e ha cambiato subito opinione, ha chiuso il discorso. Ma lo sa, figurarsi…”. E Berlusconi: “Però aveva capito?”. “Sì che aveva capito – risponde il giudice – ma non è diciamo che c’ho molta confidenza con lui… non è che… mi posso permettere di dirglielo apertamente. Casomai ritorno al Quirinale, ci devo parlare per quell’altra questione, ci vado… ritorno al Quirinale, glielo dico (…) in via riservata”. “Va bene, ci pensi un po’, lei veda un po’”, conclude Berlusconi. Che poco dopo, durante la stessa conversazione, torna alla carica sul tema della grazia: “L’unico modo – dice l’ex premier – potrebbe essere questo, che lei telefoni a Lupo e gli dice (…) ‘Guarda, io ho un peso sulla coscienza, siccome so che adesso c’è il fatto grazia sì, grazia no per Berlusconi, vorrei venire a dire…’”.
Sentito dal Fatto, Ernesto Lupo smentisce nettamente: mai il giudice Franco gli ha parlato della grazia per Berlusconi. Insomma quella dell’ex presidente del Consiglio rimase una intenzione non realizzata, con Franco come pedina per provare ad arrivare al Colle. Ma Napolitano aveva già messo i suoi paletti: il 13 agosto 2013 aveva fatto sapere che non c’erano le condizioni per la grazia.

sabato 20 giugno 2020

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”. - Giuseppe Pipitone

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”

C'è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia: il magistrato al centro dell'inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe era considerato l'ambasciatore scelto dal Colle sotto la presidenza di Napolitano per interloquire con l'ufficio inquirente siciliano, trascinato in quei mesi davanti alla Consulta per la vicenda delle intercettazioni di Mancino col capo dello Stato.

Nel 2012, all’apice dello scontro tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo, all’allora procuratore aggiunto del capoluogo siciliano arrivò una proposta: creare un contatto con il Colle per risolvere “questa situazione“. Questa situazione era il conflitto d’attribuzione di poteri sollevato dall’allora presidente della Repubblica nei confronti dell’ufficio inquirente palermitano, che all’epoca aveva appena chiuso le indagini sulla Trattativa Stato-mafia. Un’interlocuzione assolutamente anomala e per la quale il Quirinale aveva individuato un ambasciatore: Luca Palamara. A raccontarlo è chi all’epoca era uno dei magistrati simbolo della procura di Palermo: Nino Di Matteo. C’è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia. Un fatto che diventa assolutamente emblematico se riletto oggi.
Lo scontro tra il Colle e la procura – Da settimane Palazzo San Macuto sta portando avanti un’indagine sulle scarcerazioni di boss mafiosi avvenute durante l’emergenza coronavirus. Ma anche sulla mancata nomina a capo del Dap di Di Matteo da parte del guardasigilli Alfonso Bonafede nel giugno del 2018. È di questo che ha riferito l’ex pm siciliano: cinque ore di audizione in cui più volte è spuntato sullo sfondo il nome di Palamara, la toga simbolo dello scandalo che imbarazza la magistratura. Ma, a sorpresa, il nome dell’ex presidente dell’Anm è venuto fuori anche quando Di Matteo ha riferito alcuni episodi inediti legati all’inchiesta più delicata della sua carriera: quella sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Un processo importante, finito nel 2018 con pesanti condanne, ma cominciato tra la fibrillazione dei più alti livelli dello Stato. Intercettando l’ex ministro Nicola Mancino, infatti, i pm palermitani si imbatterono per quattro volte nella voce dell’allora presidente della Repubblica Napolitano. Intercettazioni che gli inquirenti non reputarono rilevanti ai fini penali ed è per questo che non le trascrissero e non le depositarono mai agli atti dell’inchiesta, chiusa nel giugno del 2012. Il Colle, però, non gradì. E nel mese di luglio dello stesso anno sollevò un conflitto d’attribuzioni: trascinò cioè la procura di Palermo davanti alla Consulta. Alcuni mesi dopo l’Alta corte diede ragione al capo dello Stato, ordinando la distruzione di quei nastri. Prima, però – stando a quanto ricostruito da Di Matteo – tentò la strada della riconciliazione, in modo abbastanza irrituale.
Il racconto di Di Matteo: “Volevano fare una trattativa sulla trattativa” – “Se non ricordo male – ha raccontato l’attuale consigliere del Csm all’Antimafia – a un certo punto nel periodo più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia, che era ancora un magistrato della procura di Palermo e quindi conduceva le indagini con noi, disse a me e all’allora procuratore Messineo che a Roma aveva incontrato un direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo per risolvere questa situazione e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Palamara“. Praticamente, come l’ha definita lo stesso magistrato con una battuta, il Quirinale tentò di fare “una trattativa sulla trattativa“. “Io – ha proseguito Di Matteo – pensavo che Antonio scherzasse, sia io sia Messineo, e Ingroia era d’accordo, abbiamo detto: ma stiamo scherzando, questi vogliono fare una trattativa sulla trattativa, ma questa fu una battuta. Fu una cosa estemporanea, ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara. In quel momento – ha continuato l’ex pm – io non capivo cosa potesse entrarci con le vicende del procedimento sulla Trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale. Questo è un dato di fatto. Non sono mai più tornato con Ingroia su questa cosa, ma ricordo questo riferimento estemporaneo“. Ma chi fu a comunicare a Ingroia delle “richieste di contatto” del Quirinale? “Credo che il direttore cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro, Ingroia potrebbe essere più preciso. Io ricordo che eravamo nella stanza del procuratore, Ingroia tornava da Roma e fece questo riferimento che noi bloccammo subito, anche Ingroia era convinto che andasse bloccato subito, la pensava esattamente come me”. Ex procuratore aggiunto di Palermo e ora avvocato, qualche settimana fa Ingroia ha accennato quella strana proposta durante un’intervista televisiva sul caso nomine nella magistratura: “Palamara – sono le sue parole su La7- era stato indicato dal presidente Napolitano come possibile ambasciatore per cercare di concludere la contrapposizione tra procura di Palermo e Quirinale“.
L’avversione di Palamara per chi indaga sulle stragi – Il periodo al quale fa riferimento Ingroia è da collocarsi alla fine dell’estate del 2012: Palamara stava per terminare il suo mandato da presidente dell’Anm. Nei quattro anni al vertice del sindacato delle toghe non difenderà mai i magistrati di Palermo, finiti sotto attacco proprio mentre indagano sul Patto segreto tra Cosa nostra e pezzi delle Istituzioni. “Quelle – ha ricordato Di Matteo – furono critiche anche feroci ricevute da tutte le fazioni politiche, critiche particolarmente virulente nel momento in cui la vicenda si intrecciò con quella delle conversazioni di Napolitano“. Anni dopo Palamara non perderà la sua avversione per le indagini sui legami occulti dello Stato. È il 6 maggio del 2019 quando il pm oggi sotto inchiesta a Perugia scrive un messaggio su whatsapp all’amico Cesare Sirignano, ex pm della procura nazionale Antimafia e suo collega in Unicost, la corrente moderata delle toghe di cui Palamara era il leader assoluto: “Questo gruppo per indagare sulle stragi tutti ne parlano. Ma c’era bisogno? Ti dico che non è grande mossa”. Sirignano replica: “Luca ma tu non hai capito che Federico rappresenta la nostra forza”. Palamara risponde: “Lo so. Ma non deve sbagliare mosse”. Il gruppo stragi è il pool di magistrati creato alla Dna per coordinare il lavoro della varie procure sulle bombe del 1992 e 1993.
La rimozione dal pool Stragi e la soddisfazione di Palamara – Fino al 26 maggio del 2019 di quel gruppo di pm faceva parte pure Di Matteo: poi Federico Cafiero De Raho (il Federico citato da Sirignano) ha deciso di escluderlo, dopo un’intervista concessa dal pm ad Andrea Purgatori. Secondo il procuratore nazionale antimafia in quell’intervista Di Matteo svela alcuni elementi in quel momento segreti perché ancora al centro dell’indagine sulla strage di Capaci: “Su quel tema si erano tenute ben due riunioni, con la presenza di vari procuratori distrettuali, si parlava di indagini, di interpretazione di alcune dichiarazioni e le dichiarazioni Di Matteo finiscono per toccare proprio quei temi”, ha sostenuto De Raho domenica scorsa, telefonando in diretta alla trasmissione tv di La7 Non è l’Arena. “L’intervista era stata resa prima della riunione, e nella riunione non si era parlato di questo. E poi se avessi raccontato qualcosa di segreto rispetto alle riunioni penso sarebbe stato d’obbligo denunciarmi all’autorità giudiziaria“, ha detto Di Matteo a Palazzo San Macuto. In seguito alla rimozione dal pool stragi, filone d’inchiesta al quale ha dedicato l’intera carriera in magistratura, Di Matteo ha lasciato la procura nazionale antimafia, dopo aver ottenuto l’elezione al Csm da consigliere indipendente. Per chiarire come è andata davvero quella storia c’è una pratica ancora aperta – e top secret – al Csm. Di sicuro c’è solo che il giorno in cui il quotidiano Repubblica scrive prima di tutti della rimozione del pm siciliano, Sirignano informa in diretta Palamara, girandogli il link dell’articolo. Il leader di Unicost risponde: “Grande Federico”. Pochi secondi dopo Sirignano replica con uno laconico: “Noi siamo seri”. Ma noi chi?
La corrente di Palamara in via Arenula – Faceva parte della stessa corrente di Palamara e Sirignano anche Fulvio Baldi, ex capo di gabinetto di Bonafede, che si è dovuto dimettere dopo che ilfattoquotidiano.it ha svelato le intercettazioni telefoniche in cui il leader di Unicost lo chiamava affettuosamente “Fulvietto“. Non solo: Palamara all’amico Baldi chiedeva anche un aiuto per piazzare altri magistrati amici al ministero della giustizia. In via Arenula Baldi era stato nominato da Bonafede il 20 giugno del 2018, cioè lo stesso giorno in cui il guardasigilli, cercando di convincere di Di Matteo a dare la sua disponibilità per essere nominato direttore generale degli Affari Penali, dice :”Dottore Di Matteo, ci pensi bene. Perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono“. “Una frase – ha detto l’ex pm siciliano all’Antimafia – assolutamente precisa le cui parole io non posso equivocare, né allora e né ora. Mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento“. Il 12 maggio scorso il guardasigilli ha detto alla Camera: “Si continuano a cercare possibili condizionamenti evocando, in modo più o meno diretto, i vari livelli istituzionali. Una volta per tutte: non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Punto!”.
I renziani alla corte di Palamara – Di sicuro quei giorni del giugno del 2018 per Bonafede sono molto convulsi: è arrivato al ministero da due settimane quando – è lunedì 18 giugno – telefona a Di Matteo e gli propone di scegliere tra due incarichi, o il vertice del Dap o gli Affari Penali. Il giorno successivo, prima di ricevere la risposta del magistrato siciliano, sceglie come vertice delle carceri Francesco Basentini, pure lui di Unicost come Baldi e Palamara, pure lui un ex visto che si è dimesso nei primi giorni di maggio dopo le polemiche per le scarcerazioni dei boss. A lavorare col guardasigilli – come vicecapo di gabinetto – c’è anche Leonardo Pucci, già compagno di studi a Firenze di Bonafede, assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce, oltre a Basentini, anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Spina partecipava agli incontri notturni in cui si discuteva del futuro procuratore di Roma. Incontri ai quali – oltre ad alcuni consiglieri del Csm – partecipavano anche due deputati: il magistrato “prestato” alla politica Cosimo Ferri e l’ex sottosegretario Luca Lotti, che della procura di Roma era – ed è – un imputato dell’inchiesta Consip. Entrambi sono renziani di vecchissima data: con l’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, Lotti è stato sottosegretario alla presidenza del consiglio, Ferri invece sottosegretario alla giustizia. Il primo è ancora oggi nel Pd, il secondo, invece, ha seguito Renzi in Italia viva.
Il “pensiero affettuoso” di Renzi per Napolitano – Sarà un caso ma è proprio Matteo Renzi la prima persona che lega il nome di Giorgio Napolitano allo scontro tra Bonafede e Di Matteo. Lo fa, in modo apparentemente inspiegabiledurante il suo intervento in Senato nel giorno della bocciatura della mozione di sfiducia al ministro della giustizia: “Visto che in tanti avete citato Di Matteo, cui va il nostro rispetto e l’augurio di buon lavoro, permettetemi – per aver vissuto una certa pagina di questo Paese – di esprimere un pensiero affettuoso al presidente emerito Giorgio Napolitano. Lui sa perché, voi sapete perché”. Già, perché? Il giorno dopo il leghista Gianluca Cantalamessa lo ha chiesto al guardasigilli. Che ha risposto: “Escludo qualsiasi tipo di pressione, immaginiamo quella dell’ex presidente Napolitano“. Il presidente dell’Antimafia Morra, ora, lo ha chiesto a Di Matteo: “Non posso sapere – ha risposto – perché in quel momento il senatore Renzi abbia sentito la necessità o l’opportunità di ringraziare il presidente Napolitano, non lo dovete chiedere a me”.