Visualizzazione post con etichetta Barbacetto. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Barbacetto. Mostra tutti i post

venerdì 26 marzo 2021

B. ricoverato: dall’uveite alla “Spinellite”, diserta l’udienza del Ruby ter. - Gianni Barbacetto

 

Strategia - Non si avvale del “legittimo impedimento” ma evita l’incontro con il “cassiere”.

Prima di tutto la salute. E sulla salute non si scherza. Silvio Berlusconi negli ultimi mesi ha avuto più d’un problema medico, il Covid, il ricovero al San Raffaele per infezione da coronavirus, poi la degenza all’ospedale di Monaco per disturbi cardiaci. Ieri era di nuovo al San Raffaele di Milano. È stato il suo avvocato, Federico Cecconi, a spiegarlo davanti ai giudici che lo devono giudicare, insieme a 28 suoi coimputati, per corruzione giudiziaria nel processo Ruby 3. “Voglio dare atto a verbale che Berlusconi per problematiche di salute è da lunedì mattina ospedalizzato”, dice Cecconi nella grande aula approntata causa Covid nei padiglioni della Fiera di Milano. Ma il difensore ha “deciso di non avanzare istanza di legittimo impedimento”, dunque il processo è proseguito comunque. E nel pomeriggio, a udienza conclusa, il paziente è stato per fortuna dimesso dall’ospedale.

È la difesa a collegare salute e processi, con Cecconi che a fine gennaio dice in aula che è in corso “una sorta di monitoraggio processuale delle condizioni di salute” di Berlusconi. Di udienza in udienza. Ieri mattina, Silvio avrebbe dovuto incontrare in aula un suo fedele dipendente, il ragionier Giuseppe Spinelli, il cassiere personale, il suo portafoglio umano, quello che gli allunga i soldini di cui ha bisogno. E che allungava buste gialline gonfie di banconote da 500 euro a Karima El Mahroug detta Ruby e alle decine di ragazze che affollavano le feste del bunga-bunga ad Arcore. L’incontro non c’è stato. Assente Berlusconi, assente anche il ragionier Spinelli, che ha presentato, lui sì, istanza di legittimo impedimento, chiedendo che la sua testimonianza sia rimandata a una prossima udienza. L’incontro Spinelli-Berlusconi davanti ai giudici non riesce mai a verificarsi. Una volta era l’uveite a tenere lontano Silvio dal processo Ruby. Era l’8 marzo 2013, quando gli occhialoni neri, l’infezione agli occhi, la diagnosi di uveite e il ricovero al reparto D del San Raffaele erano serviti a Silvio per saltare le udienze del primo processo Ruby. Allora i giudici del Tribunale non erano stati teneri e avevano disposto una visita fiscale, che aveva scatenato la più clamorosa delle proteste mai viste a Palazzo di giustizia, con decine di parlamentari che avevano marciato sul Tribunale, avevano tentato di occupare l’aula del processo, fatta però sigillare dal pm Ilda Boccassini, e poi erano sostati a lungo, a favor di telecamera, sulla scalinata davanti al Palazzo. Guarita l’uveite, scatta la spinellite. Silvio e il suo portafoglio non si devono incrociare in aula. Vedremo che cosa succederà nelle prossime udienze e se lo storico incontro finalmente ci sarà. L’ultimo anno è stato duro per tutti, anche per Silvio Berlusconi. Il 9 febbraio 2021, si era mostrato in gran forma a Palazzo Chigi, all’incontro con l’allora presidente incaricato Mario Draghi alle prese con le consultazioni per formare il nuovo governo. Ma è stato un attimo: pochi giorni dopo, sono tornati a prevalere i problemi di salute.

Il 14 gennaio, convocato dalla Procura di Roma per essere sentito come persona informata sui fatti (indagine sull’audio registrato ad Arcore del giudice Amedeo Franco), l’ex presidente del Consiglio non si era potuto presentare perché ricoverato nel Principato di Monaco per aritmia cardiaca. Quello stesso giorno era stato convocato anche a Siena, dove è in corso uno dei tre tronconi del processo Ruby 3. Anche lì era arrivata un’istanza dei legali di Berlusconi che avevano presentato richiesta di legittimo impedimento. Il processo era stato bloccato. Per fortuna, il paziente era stato felicemente dimesso dall’ospedale 24 ore dopo ed era tornato nella sua villa in Costa Azzurra. Poi, il 27 gennaio, il legale dell’ex presidente del Consiglio aveva depositato certificazione medica nella quale diceva ai giudici che il leader di Forza Italia, dopo il Covid e il ricovero per problemi cardiaci, aveva bisogno di “riposo assoluto”. Pandemia e aritmia stanno costringendo Silvio a stare lontano dai tribunali. Ieri è scattata anche la spinellite.

IlFattoQuotidiano

venerdì 8 gennaio 2021

Sala & Calenda, due “rivoluzionari” in cachemire rosé. - Gianni Barbacetto

 

Abbiamo aspettato tanto, ma poi, quando si è deciso, è partito col botto: “Mi ricandido per fare una vera rivoluzione”: così dice Giuseppe Sala. La “rivoluzione” la vuole fare in compagnia di un altro noto bombarolo, Carlo Calenda, autoproposto sindaco della Capitale. “È certamente un candidato credibile per Roma”, ha dichiarato Sala. Me li vedo, i due “rivoluzionari”, a chiacchierare in cachemirino pastello davanti al caminetto con i potenti delle due città. “Ci vogliono persone competenti al governo, per gestire la crisi sanitaria”, disse Sala, stupito che non avessero chiamato lui, competente per definizione, così competente da aver detto che #milanononsiferma, così competente da averla poi fermata, Milano, per non aver saputo spargere un po’ di sale, Sala: sono bastati dieci centimetri di neve a fine dicembre.

“Rivoluzione!”: ormai si è messo a capo del soviet di Brera, Sala, e sta preparando “la discontinuità e il cambiamento”: “La discontinuità è la consapevolezza che non si possa solo subire l’impatto della pandemia. Il cambiamento è inteso come i grandi temi che innervano le metropoli, dall’equità sociale all’ambiente. Con il Covid sento nella gente un’ambizione diversa nella gestione della propria vita in città. Le città stanno pagando salato il prezzo della pandemia, ma i milanesi vogliono vivere a Milano, solo in maniera diversa. In particolare ho in mente la questione ambientale e la mobilità. E quindi due macrorivoluzioni. La prima sul trasporto pubblico urbano ed extra urbano puntando su mezzi meno inquinanti. La seconda è muoversi meno, ovvero tutti i servizi nel raggio di 15 minuti a piedi o in bici”. Vedremo. Intanto Milano, per due anni prima nella classifica della vivibilità in Italia, è precipitata al dodicesimo posto (per il Sole 24 Ore) o al quarantacinquesimo (per Italia Oggi). E le parole altisonanti (“rivoluzione!”) coprono uno smarrimento e una mancanza di prospettive disarmanti. A Milano nell’ ultimo anno i ricchi (pochi) sono diventati più ricchi e i poveri (tanti) sono diventati più poveri.

L’unica rivoluzione possibile è bloccare questa tendenza e cercare di invertirla. Provare a ridurre le disuguaglianze. Per quello che può fare un amministratore di città, si tratta – come va ripetendo il direttore di Arcipelago Milano, Luca Beltrami Gadola – di difendere i beni comuni che i cittadini affidano al loro sindaco affinché li tuteli, li accresca e li difenda. Sala in questi anni ha fatto il contrario: li ha privatizzati, venduti, a volte svenduti. I beni comuni di cui Milano è ricca sono il suo territorio e il suo ambiente. Ci sono almeno 3 milioni di metri quadrati di territorio che nei prossimi anni devono trovare un loro nuovo destino: i sette scali ferroviari, l’area dello stadio di San Siro e dei contigui spazi dell’ippica, la Piazza d’Armi, il quartiere Rubattino, oltre all’area ex Expo che Sala conosce bene. Sì: si potrebbe davvero fare una “rivoluzione”, mettendo queste aree a disposizione dei cittadini, con più parchi e più servizi; Milano potrebbe diventare la metropoli più verde d’Europa e la sua aria potrebbe diventare meno avvelenata. La “rivoluzione” di Sala è invece un esproprio: i milanesi sono espropriati dei loro beni comuni, affidati a Fs (gli scali), a Milan e Inter (San Siro), ai grandi operatori immobiliari, Coima, Lendlease, Hines, in alleanza con banche e assicurazioni (Axa). Altro che “rivoluzione”: Sala ha lavorato – e promette di lavorare in futuro – per rendere Milano più “attrattiva”: per attirare cioè capitali, specie esteri, spesso anonimi e chissà se puliti o sporchi. Una città in vendita. Ai milanesi, le briciole: bei luoghi dove andare a vedere come vivono i ricchi, e periferie che restano periferie per tornare a dormire dopo il lavoro, per chi ce l’ha.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/08/sala-calenda-due-rivoluzionari-in-cachemire-rose/6058774/

giovedì 7 gennaio 2021

L’ex sindaca con la passione per le consulenze a peso d’oro. - Gianni Barbacetto

 

Se arriverà a Palazzo Lombardia come assessore alla Sanità in sostituzione di Giulio Gallera, Letizia Moratti porterà con sé un bel curriculum. Ex sindaco di Milano, ex ministro dell’Istruzione, ex presidente della Rai, ex broker assicurativo, ex presidente di Ubi banca. Ma anche condannata dalla Corte dei conti “per colpa grave” nella vicenda delle “consulenze d’oro”; e indagata per una brutta storia di soldi e petrolio, in cui fanno capolino gruppi mafiosi e perfino i terroristi dell’Isis.

Letizia Maria Brichetto Arnaboldi vedova Moratti era sindaco di Milano quando assunse a Palazzo Marino una sessantina di persone di sua fiducia. Tra queste, sei uomini d’oro entrati con “illeciti conferimenti di incarichi dirigenziali” e altri sei ingaggiati con “non consentite nomine di addetti all’Ufficio stampa comunale”, che arrivò ad avere 20 dipendenti. Tutto a spese del Comune. Peccato che la Corte dei conti le abbia poi presentato il conto: 591 mila euro di danno erariale da rimborsare, un cifra che arriva a oltre 1 milione se si considerano anche i suoi 21 coimputati.

I fatti sono del 2006. La condanna diventa definitiva, con sentenza della Corte di Cassazione, nel 2019. Le motivazioni sono pesanti: l’operato di Letizia Moratti ha avuto “il connotato della grave colpevolezza, ravvisabile in uno scriteriato agire, improntato ad assoluto disinteresse dell’interesse pubblico alla legalità e alla economicità dell’espletamento della funzione di indirizzo politico-amministrativo spettante all’organo di vertice comunale”. Nessuno dei nominati – appurano i magistrati – era in possesso delle competenze professionali richieste dalla legge.

Ancor più bruciante la vicenda che l’ha coinvolta da presidente di Ubi, ruolo che ha ricoperto fino all’ottobre 2020, quando la banca è stata conquistata da Intesa. Tre anni prima, nel 2017, un funzionario antiriciclaggio di Ubi, Roberto Peroni, denuncia che la banca ha una quarantina di clienti molto speciali, che godono di un trattamento particolare: per loro non valgono i controlli e non scattano le segnalazioni di operazioni sospette. Tra questi, la presidente Moratti: la Saras Trading, società svizzera del gruppo Moratti, ha infatti ricevuto da Ubi Factor finanziamenti milionari poi finiti all’estero, con transazioni passate nelle Isole del Canale.

Peroni viene cacciato, ma la Procura di Brescia apre un’indagine che si chiude nel 2019, con un’archiviazione: la mancata segnalazione di operazioni sospette non è più reato ma solo illecito amministrativo, comunque sanzionato dalla Banca d’Italia con una multa a Ubi di 1,2 milioni di euro. La posizione di Moratti viene però stralciata e mandata alla Procura di Cagliari. E questa fa il botto. Scopre che tra il 2015 e il 2016, Saras, la società petrolifera del gruppo Moratti, aumenta le importazioni di greggio dal Kurdistan iracheno, allora controllato dall’Isis. Niente bolle regolari e prezzi stracciati, con un ribasso “mediamente di oltre il 22 per cento, con punte del 38-42 per cento”. L’ipotesi degli investigatori è che sia lo Stato Islamico a contrabbandare il petrolio, dal porto di Bassora, in Iraq, attraverso Petraco Oil Company Llp, società inglese con una sede a Lugano, controllata da una sigla domiciliata nell’isola di Guernsey. Petraco è nel biennio 2015-2016 il maggior fornitore di petrolio di origine irachena (72 importazioni su 51) a Saras Trading. Moratti è coinvolta due volte: come azionista di Saras e come presidente di Ubi. Perché è il consiglio d’amministrazione di Ubi Factor che il 23 dicembre 2016 delibera di finanziare Saras Trading con 45 milioni di euro. Il credito viene triangolato (Ubi Factor-Saras Trading-Petraco) negli ultimi giorni dell’anno. E la banca ha “volutamente omesso” la segnalazione all’antiriciclaggio, pur “in una situazione di palese conflitto d’interessi”, visto che Letizia Moratti è presidente della banca che finanzia una sua società . I contratti di factoring, secondo la Guardia di finanza, potrebbero essere “un modus operandi” per nascondere “la provenienza delittuosa” del petrolio.

Ma non basta l’Isis. Il gruppo Moratti è indiziato anche “di relazioni commerciali con società contigue ad ambienti della criminalità organizzata o ad alto rischio di condizionamento”. Gli investigatori citano la Kb Petrols, società anch’essa in rapporti con Ubi Banca e anch’essa non segnalata all’antiriciclaggio. Il suo rappresentante legale è Claudio La Rosa, che risulta in contatto con “Giuseppe Arena, considerato organico della famiglia di Cosa nostra Santapaola-Ercolano, essendo una delle persone più vicine (autista e guardaspalle) a Vincenzo Aiello, rappresentante provinciale di Cosa nostra catanese”. La Rosa è rappresentante legale anche di un’altra azienda, in rapporti d’affari con ditte collegate a Luigi Brusciano, “riconducibile al clan dei casalesi” e contiguo agli ambienti di Malta citati in alcune inchieste giornalistiche sulla morte della giornalista Daphne Caruana Galizia, uccisa nel 2017 con una autobomba. Con questo curriculum, Letizia Brichetto Moratti arriva in Regione con l’impegno a non farci rimpiangere Gallera.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/07/lex-sindaca-con-la-passione-per-le-consulenze-a-peso-doro/6057454/

giovedì 12 novembre 2020

Regioni, l’obiettivo non è fermare il virus ma far cadere Conte. - Gianni Barbacetto

 

Non è andato tutto bene. E non ne stiamo uscendo migliori. Peggiori, invece, più cinici e incattiviti. La seconda ondata ha tirato fuori il peggio dalla politica, ma anche da quella che chiamavamo società civile. I negazionisti, intendiamoci, esistono in tutto il mondo, una minoranza terrapiattista per cui il Covid è un complotto planetario di non si sa quali poteri occulti si fa sentire in varie parti del globo. Ma solo in Italia si vede un uso così cinico e al tempo stesso contraddittorio del virus per fare lotta politica. Nel primo tempo di questo teatro dell’assurdo, una composita schiera di politici, amministratori, presunti virologi, opinionisti a comando e leoni da tastiera minimizzavano il pericolo, protestavano contro le chiusure, attaccavano il governo che cercava di imporle. Sfoderando un ventaglio d’argomenti che andavano dalla negazione dell’emergenza, dal virus “clinicamente morto” (Zangrillo), “inutile chiudere tutto, gli asintomatici non sono malati” (Bassetti), fino alla solita “Milano non si ferma”, “così si uccide l’economia”. L’economia muore se si lascia tutto aperto, permettendo che la pandemia diventi un’ecatombe. Fa più danni alle attività commerciali la manica larga ora, che ci costringerà a chiudere a Natale, che non la fermezza immediata necessaria per bloccare rapidamente la progressione dell’infezione. Basta il buonsenso per capirlo: un intervento drastico, ma tempestivo (e temporaneo), può bloccare un interminabile aumento dei contagi, dei ricoveri, dei morti. Invece prevale l’ideologia e la cattiva fede. Perché l’obiettivo di molti non è fermare il virus, ma far cadere il governo. Gli errori vanno sempre denunciati, chiunque li compia. Ma anche in questa partita scatta il metodo dei due pesi e due misure: inflessibili contro gli errori e le sottovalutazioni governative, che pure ci sono, mentre non si vede la trave delle amministrazioni regionali, che hanno la competenza della sanità, anche in tempi d’emergenza. Soprattutto la Regione Lombardia ha inanellato una serie d’errori da brivido. All’impreparazione con cui ha affrontato la prima ondata della pandemia si è aggiunta la disfatta con cui ha subìto la seconda, prevedibilissima ondata (tracciamento contagi inadeguato, medici Usca per l’assistenza a domicilio insufficienti, trasporti per le scuole non rafforzati, medici tolti agli ospedali che funzionano per mandarli all’ospedale-spot in Fiera, vaccini antinfluenzali che mancano…). Tutto invisibile, a chi vuole usare il virus, i malati, i morti soltanto come arma per attaccare il governo.

Ora è scattato il secondo tempo del teatro dell’assurdo. Ormai impossibile (tranne che per una minoranza complottista) negare, minimizzare, chiedere di tenere tutto aperto: ci sono i contagi che aumentano ogni giorno, e soprattutto i ricoveri, le terapie intensive, i morti. Scatta allora l’effetto ammuina, con i sindaci (come Giuseppe Sala) e i presidenti di Regione (come Attilio Fontana) che tirano in lungo, filosofeggiano, fanno scaricabarile, aspettano che a decidere siano altri per poi attaccarli comunque. “La zona rossa? Uno schiaffo alla Lombardia”, declama Fontana. “I criteri per definire le zone? Troppo complicati”, aggiunge Sala. Milano brucia, i medici chiedono la chiusura totale e il lockdown nazionale e loro spaccano il capello in quattro, pensano ai voti dei commercianti, invece di pensare a mantenerli sani e in vita insieme ai loro clienti, cioè a tutti noi. Vorrebbero distinguere, chiudere solo qui e non lì, lasciare aperto dove ci sono meno contagi, distinguendo non solo per regione, ma per provincia, per comune, per caseggiato, la scala A chiusa, la scala B aperta. Mandano segnali, giocano con la comunicazione, cercano il consenso. Chissà se mai qualcuno chiederà loro il conto finale di comportamenti confusi, cinici, criminali.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/12/regioni-lobiettivo-non-e-fermare-il-virus-ma-far-cadere-conte/6000736/

martedì 13 ottobre 2020

Gare e camici, l’Anticorruzione regionale non si accorge di nulla. - Gianni Barbacetto

 

L’Orac, nato nel 2018, ha il compito di vigilare.

Nessuno se n’è accorto, ma la Regione Lombardia ha una sua agenzia anticorruzione. Si chiama Orac (Organismo regionale anticorruzione), è stata costituita nel settembre 2018, anche se è davvero funzionante solo dall’ottobre 2019, e ha come presidente un magistrato di gran fama, Giovanni Canzio, già presidente della Corte d’appello di Milano e poi primo presidente della Corte di cassazione. Ha appena varato la sua prima semestrale, un ponderoso documento, con gli allegati, di 121 pagine. In quei fogli, però, non c’è traccia alcuna degli scandali che hanno investito nei mesi scorsi la Regione Lombardia. Centinaia di appalti senza gara per l’emergenza Covid. Donazioni fantasma e forniture senza controllo per realizzare il finora inutile ospedale in Fiera. L’appalto dei camici diventato miracolosamente “donazione” da parte dell’azienda del cognato e della moglie del presidente regionale Attilio Fontana. La sede della Lombardia Film Commission venduta alla Regione al doppio del suo prezzo da parte della banda dei commercialisti della Lega. I contratti per i test sierologici con Diasorin. I vaccini antinfluenzali comprati a prezzi fuori mercato e non autorizzati.

Di queste vicende si sono occupati i giornali e la Procura della Repubblica, non l’Anticorruzione regionale, che non si è accorta di niente, non ha visto niente, non ha aperto alcuna istruttoria. Da ottobre a dicembre 2019 l’Orac ha tenuto nove riunioni, 23 da gennaio a giugno 2020. I nove membri dell’Anticorruzione hanno intascato finora compensi per 340 mila euro (55,6 mila euro il presidente Canzio, 41,7 a testa gli altri). Ma non hanno acceso alcun faro sui tanti casi di gare, incarichi e appalti che pure hanno attirato l’attenzione della stampa e anche dei magistrati. La relazione semestrale segnala due sole istruttorie aperte dall’Orac: su alcune nomine ad Areu (l’azienda regionale delle emergenze) e all’istituto neurologico Besta. Nessun controllo sulle gare, sugli appalti, sull’attività di Fnm e Trenord, nessuna verifica su Finlombarda (la finanziaria regionale) o su Aria (la centrale acquisti della Regione).

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/13/gare-e-camici-lanticorruzione-regionale-non-si-accorge-di-nulla/5963931/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-13

sabato 10 ottobre 2020

E l’Eni fa causa alla Nigeria: “Rivogliamo i nostri pozzi”. - Gianni Barbacetto

 

L’accusa dei pm: l’affare in Africa grazie a tangenti.

Mentre a Milano va verso la conclusione il processo per corruzione internazionale a Eni e ai suoi manager, accusati di aver pagato una supertangente in Nigeria, altre vertenze sul contenzioso nigeriano si accendono in giro per il mondo, a Washington e nel Delaware. Il 3 settembre si è chiusa la causa promossa dallo Stato nigeriano presso la Corte di Giustizia di Londra, che si è detta non competente per motivi di giurisdizione. Ora la compagnia petrolifera italiana ha avviato a Washington un arbitrato contro la Nigeria presso l’Icsid (International Centre for the Settlement of the Investment Disputes), l’organizzazione della Banca mondiale che giudica sulle contese contrattuali internazionali. Il 14 settembre, Eni ha chiesto all’Icsid di valutare il comportamento della Nigeria, che sulla base di accuse di corruzione che Eni ritiene infondate, non ha rispettato il contratto firmato nel 2011 che concedeva a Eni (e alla sua alleata Shell) il diritto di esplorazione sul gigantesco campo petrolifero denominato Opl 245. La Nigeria non ha mai revocato a Eni e Shell la licenza d’esplorazione petrolifera, non l’ha però mai trasformata in licenza estrattiva, bloccando dal 2011 a oggi l’investimento delle due compagnie.

Eni e Shell avevano ottenuto la licenza pagando su un conto a Londra del governo africano 1 miliardo e 92 milioni di dollari, poi subito girati a Malabu, una società riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete, e infine dispersi in una serie di conti di politici, faccendieri, ministri ed ex ministri nigeriani e di alcuni mediatori internazionali. Una gigantesca corruzione internazionale, secondo la Procura di Milano, un caso di tangente che non è, come di solito, una percentuale dell’affare realizzato, ma addirittura l’intero importo dell’affare. Un normale contratto, secondo Eni, che ripete di aver versato i soldi su un regolare conto del governo, di non essere responsabile di quello che è successo dopo il suo bonifico e di voler tornare quindi in possesso del giacimento, che ritiene di aver regolarmente pagato, prima che la licenza scada, nel maggio 2021.

L’ipotesi dell’accusa formulata dai pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro è però condivisa dagli attuali governanti nigeriani, che accusano di corruzione i loro predecessori, rifiutano di dare a Eni e Shell il giacimento e anzi chiedono di tornare in possesso di quel miliardo di dollari che ritengono strappato al popolo della Nigeria.

A pronunciarsi sulle accuse penali sarà, tra qualche mese, il Tribunale di Milano. Intanto però a Washington è al lavoro anche l’Icsid, che dovrà valutare gli argomenti contrattuali presentati contro lo Stato della Nigeria, per conto di Eni, da due studi legali, Three Crowns di Londra e Aluko & Oyebode di Lagos. “Si tratta di un atto dovuto a tutela dei nostri investimenti e nei confronti dei nostri investitori”, dichiara Eni, “ma confidiamo che si possa comunque arrivare a una soluzione soddisfacente per entrambe le parti”.

Al lavoro anche il Tribunale distrettuale del Delaware, negli Usa, dove Eni ha chiamato in causa la Drumcliffe Partners Llc, una società americana di gestione degli investimenti che si è impegnata a finanziare le azioni legali della Nigeria, in cambio di una percentuale su quanto riuscirà a recuperare. Drumcliffe sostiene di gestire un portafoglio mondiale di richieste di risarcimenti per un valore complessivo di 14 miliardi di dollari che riguardano frodi commerciali, insolvenze, recupero crediti. Nel caso della Nigeria, Drumcliffe ha garantito finanziamenti per 2,75 milioni di dollari da impegnare nelle azioni legali del Paese africano in giro per il mondo, con l’obiettivo di recuperare la cifra di oltre 1 miliardo di dollari che la Nigeria potrebbe ottenere come risarcimento da Eni e Shell .

La vicenda nasce nel 2016, quando il procuratore generale e ministro della Giustizia della Nigeria, Abubakar Malami, dà mandato allo studio legale nigeriano Johnson & Johnson di recuperare i fondi di Opl 245 acquisiti illecitamente, secondo il governo, dalla società Malabu controllata dall’ex ministro Etete. In cambio di un compenso del 5 per cento sulle somme recuperate. Nel 2018, lo studio Johnson & Johnson stipula un accordo con una società del Delaware collegata a Drumcliffe, Poplar Falls Llc, riconoscendole un compenso del 35 per cento sui fondi che riuscirà a recuperare. Sul miliardo ipotizzato, sarebbero tra i 300 e i 400 milioni di dollari. Una “commissione” abnorme, secondo Eni, che chiede al tribunale del Delaware di fare chiarezza. Secondo un report commissionato dalla compagnia petrolifera, il fondatore di Drumcliffe, James “Jim” Christian Little, nel suo profilo Linkedin conferma di aver lavorato per una azienda, la Sra International, che ha fornito servizi tecnologici alle agenzie d’intelligence Usa; un suo collaboratore, Christopher Camponovo, ha lavorato per il Dipartimento di Stato americano e per il National Security Council Usa.

(foto ilFQ)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/10/e-leni-fa-causa-alla-nigeria-rivogliamo-i-nostri-pozzi/5961226/

lunedì 5 ottobre 2020

Impero San Donato, il mistero Kamel Ghribi. - Gianni Barbacetto

 


San Raffaele & C. - Nel gruppo dei Rotelli non solo ex politici, magistrati e 007: vicepresidente è un finanziere, ex petroliere tunisino. Gli affari con arabi e russi.

È il più grande gruppo italiano della sanità privata, con i suoi 19 ospedali e cliniche, 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti, fatturato di oltre 1 miliardo e mezzo. Ma il Gruppo San Donato della famiglia Rotelli, il cui ospedale più famoso è il San Raffaele di Milano, è anche una formidabile macchina di relazioni politiche ed economiche. I consigli d’amministrazione delle sue società sono zeppi di uomini dei partiti, ex ministri e perfino ex agenti segreti. Presidente della holding San Donato è Angelino Alfano, ex segretario di Silvio Berlusconi ed ex ministro dell’Interno, della Giustizia, degli Esteri. Consigliere d’amministrazione degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo, è Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia. Consigliera d’amministrazione del San Raffaele e della holding è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, già capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy (nonché moglie di Bruno Vespa). Sovrintendente sanitario del Gruppo è Valerio Fabio Alberti, fratello del presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nel 2019 è entrato per qualche mese nel cda del San Donato anche Ernesto Maria Ruffini, che aveva appena terminato il suo incarico di direttore generale dell’Agenzia delle entrate, dove è poi tornato a inizio 2020.

Del sistema Rotelli, come capi della Security, fanno parte anche due agenti segreti d’esperienza come Claudio di Sabato e Giuseppe Caputo, ex generali della Guardia di finanza e poi ufficiali dell’Aise (l’agenzia di sicurezza per l’estero).

Ma il personaggio più misterioso della galassia Rotelli è un ex petroliere tunisino diventato finanziere in Svizzera: Kamel Ghribi, amico della vedova del fondatore, Giuseppe Rotelli, che è scomparso nel 2013, lasciando la guida al figlio Paolo. Una vecchia foto di Ghribi lo ritrae con vistosi pantaloni blu elettrico, camicia di seta in tinta e giacca a quadrettoni. Oggi Ghribi indossa più sobri abiti scuri di buon taglio ed è vicepresidente del Gruppo San Donato, nonché global advisor della famiglia, di cui cura gli investimenti. Da dove spunta Ghribi? Sappiamo che nasce a Sfax, città nel sud della Tunisia, padre commerciante (“Da lui ho ereditato il senso degli affari”) e famiglia con nove tra fratelli e sorelle. Poi è difficile distinguere biografia e agiografia. Racconta di essere diventato, già a 29 anni, vicepresidente a New York di una compagnia petrolifera statunitense, la Olympic Petroleum Corporation, e presidente della Olympic in Italia. Nel 1994 diventa presidente della Attock Oil Company, una compagnia attiva soprattutto in Pakistan, fondata dall’uomo d’affari saudita Ghaith Pharaon, che fu per un periodo ricercato dall’Fbi in seguito allo scandalo internazionale della banca Bcci. Dal 2005, Ghribi si concentra sulla sua holding personale, la Gk Investment, basata in Svizzera, a Lugano, che dichiara di dedicarsi “a nuove opportunità di business” e di investire soprattutto “in Africa e in Medio Oriente”. Nel suo sito web si definisce finanziere e filantropo, dichiara che “l’obiettivo principale di Kamel Ghribi continua a essere quello di incoraggiare un riavvicinamento tra Occidente, Medio Oriente e Nord Africa”. A Roma lavora con lo studio legale di Vittorio Emanuele Falsitta, ex deputato di Forza Italia. Ma si dice attivo con i suoi affari finanziari soprattutto nel mondo arabo e in Russia. Sostiene di aver fornito servizi di consulenza a importanti leader di aziende private internazionali e a non meglio specificati uomini di governo. Racconta “di essere entrato in contatto, durante la sua carriera di imprenditore internazionale di grande successo, con leader mondiali e luminari del mondo politico, industriale e culturale. Le primi incontri si sono rapidamente sviluppati in conoscenze consolidate, tanto che è stato poi in grado di sviluppare stretti rapporti con alcune delle figure più importanti della storia moderna”. Nientemeno.

Al San Donato è diventato vicepresidente, gestore del patrimonio della famiglia Rotelli e ambasciatore dell’espansione in Africa e nel Medio Oriente. Con il governo del Botswana ha firmato nel 2019 un memorandum d’intesa per offrire formazione del personale medico locale. Ma quello a cui punta il gruppo San Donato è attirare i ricchi clienti arabi e russi che vanno a curarsi nei grandi ospedali degli Stati Uniti. Già aperta una sede a Dubai, negli Emirati, dove il San Donato si occupa di formazione dei medici locali. Paolo Rotelli promette: “Vogliamo attirare nei nostri ospedali i turisti che già vengono in Italia perché apprezzano il nostro stile di vita e le bellezze del nostro Paese”.

(foto da ilFQ)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/04/impero-san-donato-il-mistero-kamel-ghribi/5953606/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-04

domenica 4 ottobre 2020

“È giusto che Davigo rimanga al Csm. Grave escluderlo dal caso Palamara”. - Gianno Barbacetto

 












Giuseppe Marra - Il consigliere sulla possibile decadenza dell’ex pm al compimento dei 70 anni.

È in corso al Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara. Tra i giudici c’è Piercamillo Davigo, che il 20 ottobre compie 70 anni e come magistrato andrà in pensione. Deve lasciare anche il Csm e il procedimento Palamara? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Marra, membro del Csm e appartenente al gruppo di Davigo, Autonomia e indipendenza.

A che punto è il procedimento per Palamara?

La sezione disciplinare del Csm ha già deciso la sua sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, confermata dalla Cassazione. Ora è in corso il giudizio di merito, con attività istruttoria compiuta in diverse udienze pubbliche.

Palamara è sotto giudizio penale per corruzione a Perugia. E la sezione disciplinare del Csm che cosa deve giudicare?

Al momento gli è contestata la partecipazione, insieme a ex consiglieri del Csm e ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, a una riunione del maggio 2019 durante la quale, secondo l’accusa, si sarebbero realizzate condotte scorrette nei confronti di alcuni candidati alla nomina di procuratore di Roma, nonché dei magistrati Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, finalizzate a condizionare le scelte del Csm nella nomina dei dirigenti di diversi uffici giudiziari tra cui la Procura di Roma.

Il procedimento potrebbe fermarsi, per la presenza di Davigo?

Contro Davigo è stata presentata istanza di ricusazione, già rigettata. La presenza di Davigo non solo è legittima, ma anche doverosa, poiché è stato eletto dal plenum del Csm nella sezione disciplinare, la cui composizione non può essere modificata, se non nei casi previsti espressamente.

Quindi Davigo non deve lasciare il Csm, e dunque il procedimento Palamara, con il raggiungimento del settantesimo anno d’età?

La questione è controversa perché non vi sono precedenti nella storia del Csm. È stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, emesso ma non ancora noto. La Costituzione dice: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Idem la legge istitutiva del Csm, senza alcuna eccezione nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile dei componenti, togati o laici.

È vero che la disciplinare sta accelerando sul caso Palamara in vista della “scadenza” di Davigo?

Palamara è sottoposto a una misura cautelare molto afflittiva, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per cui è il primo ad avere interesse a un giudizio veloce. Non entro nel merito della decisione del collegio di non ammettere gran parte dei testimoni richiesti dalla difesa di Palamara che, trattandosi di decisione giudiziaria, potrà essere impugnata nelle sedi competenti. In termini generali ritengo però che sia il processo penale, sia quello disciplinare possono avere a oggetto solo singoli fatti, contestati puntualmente in relazioni a fattispecie precise. Il processo al “sistema” degenerato non spetta ai giudici, ma alla politica e, per quanto riguarda la magistratura, anche all’Associazione nazionale magistrati.

Chi chiede che Davigo lasci e se ne vada?

Nessuno ha formulato alcuna richiesta ufficiale. È lo stesso Davigo ad aver segnalato alla commissione competente sulla verifica titoli il raggiungimento dell’età pensionabile e credo lo abbia fatto per fugare qualsiasi ombra.

Non è automatica la decadenza di Davigo dal Csm, al compimento dei 70 anni d’età?

Assolutamente no, ogni decisione dovrà essere presa dal plenum del Csm dopo una discussione pubblica. Io credo però che, in assenza di una norma precisa, non la si possa pretendere in via interpretativa, in forza di argomentazioni opinabili. Il diritto elettorale, che è il cuore dei sistemi democratici, è fondato sul principio di tassatività delle ipotesi di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza dei membri eletti: in questo caso, in un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ipotizzare che sia la maggioranza di turno a integrare a livello interpretativo le norme sulla decadenza, mi sembra un precedente molto grave. Immaginare poi che ciò avvenga nei confronti di Davigo, che anche come presidente dell’Anm aveva già denunciato pubblicamente la degenerazione del sistema delle correnti, rappresenterebbe davvero un epilogo molto triste per la magistratura tutta.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/04/e-giusto-che-davigo-rimanga-al-csm-grave-escluderlo-dal-caso-palamara/5953610/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-04

domenica 6 settembre 2020

Dall’uveite al virus “morto”: vita da medico personale. - Gianni Barbacetto

Dall’uveite al virus “morto”: vita da medico personale

È primario di anestesia e rianimazione, Alberto Zangrillo, ma il suo intervento medico più notevole, a favore del suo paziente più notevole, ha riguardato l’uveite, che è una malattia degli occhi. “Ne soffro da quando mi hanno scagliato in faccia una statuetta del Duomo”, dichiara nel 2014 Silvio Berlusconi, l’ur-paziente dell’esimio professore anestesista e rianimatore. Si presenta in pubblico con degli occhialoni neri che fanno dimenticare perfino la bandana che nel 2007 aveva giovanilisticamente coperto il lavoro di un altro medico, il professor Piero Rosati, insigne tricologo, che gli aveva eseguito un trapianto di capelli. Nel novembre 2014, dunque, Zangrillo apre le porte del San Raffaele di Milano, dov’è primario, a un Berlusconi con gli occhiali scuri: “Non sarà un ricovero brevissimo, almeno una settimana, perché faremo anche un controllo generale delle condizioni di salute del paziente”. Ma allora: “È solo uveite?”, chiesero i malfidenti. “Non c’è niente di non detto. È un problema oftalmico”, assicurò l’anestesista Zangrillo, “il ricovero l’ho deciso dopo essermi consultato con l’oftalmologo Francesco Bandello”.
Il bello è che l’anno prima, l’8 marzo 2013, occhialoni, uveite e ricovero al reparto D del San Raffaele erano serviti a Silvio per saltare le udienze del processo Ruby. Con conseguente visita fiscale disposta dai giudici del Tribunale e superprotesta dei suoi allora molti parlamentari, che avevano marciato sul palazzo di giustizia e tentato di occupare l’aula del processo. Medicina e politica si incrociano sempre, sul corpo di Silvio. Zangrillo cerca di districarle come può. Una volta ha perfino sbattuto la porta alla politica: nell’inverno del coronavirus 2020, quando viene invitato a una riunione in Regione Lombardia dal presidente Attilio Fontana e dall’assessore Giulio Gallera per far partire il progetto del super-ospedale Covid alla Fiera di Milano. Zangrillo non la ritiene una buona idea, l’Astronave nel deserto, slegata e distante dalle specialità (pneumologiche, cardiovascolari, nefrologiche, neurologiche…) di un ospedale: “Una rianimazione non può essere svincolata, anche in termini di spazi, da una struttura ospedaliera”. Boccia senza appello l’ideona di Fontana e Gallera. I fatti (21 i milioni spesi, non più di 20 i pazienti ricoverati) gli daranno poi ragione. È proprio in quei giorni che comincia a circolare la notizia che Zangrillo potrebbe candidarsi a sindaco di Milano. Lui smentisce con decisione, ma chissà.
Nato nel 1958 sotto il segno dell’ariete, si laurea in Medicina e chirurgia a 25 anni, alla Statale di Milano. Si specializza in anestesia e rianimazione. Fa pratica al Queen Charlotte Hospital di Londra, all’Ospital de la Santa Creu Pau di Barcellona, al Centro Cardiotoracico di Montecarlo, all’Hetzer Deutsche Herzzentrum di Berlino. Poi si ferma al San Raffaele, dove diventa primario. Ma è noto soprattutto per essere il medico personale di Berlusconi, che assiste anche nei momenti più neri e difficili. Il 13 dicembre 2009, quando un ragazzo instabile gli scaglia in faccia la statuetta. Nel 2016, quando viene sottoposto a un complesso intervento a cuore aperto. Nei mesi del Covid va tutto bene finché Silvio resta confinato in Francia. Il 31 maggio 2020, però, Zangrillo dichiara in tv che “il virus, dal punto di vista clinico, non esiste più”. Anche il suo paziente zero allenta le precauzioni. Si trasferisce in Sardegna. Incontra Flavio Briatore, poi positivo al Covid-19, anche se gli interessati escludono che possa essere stato lui l’untore. Il patron del Billionaire, diventato un cluster dell’infezione, lo precede comunque al San Raffaele, dichiarando però che il suo problema è, se non un’uveite, una prostatite. Pochi giorni dopo, Silvio risulta positivo al coronavirus e viene ricoverato per polmonite bilaterale. Zangrillo alla fine è costretto a fare autocritica. Ritratta, come Galileo. “Sollecitato provocatoriamente, ho usato in tv un tono forte, probabilmente stonato. Ma fotografava quello che osservavamo e continuiamo a osservare”. Conclusione: “L’umore di Berlusconi non è dei migliori. Neanche il mio”. Chissà se ha ripensato anche alla sua fantacandidatura sospesa a sindaco di Milano.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/05/dalluveite-al-virus-morto-vita-da-medico-personale/5921017/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=ore-19&utm_term=2020-09-05

giovedì 20 agosto 2020

Milano, Sala è “stanchino”. Nel Pd la guerra dei 2 Pier. - Gianni Barbacetto

Milano, Sala è “stanchino”. Nel Pd la guerra dei 2 Pier

Il sindaco vuole tornare a fare il manager, la coalizione già scricchiola.
Nessuno, nelle stanze della politica milanese, si è stupito per l’articolo del Fatto quotidiano che due giorni fa raccontava che Giuseppe Sala non ha voglia di ricandidarsi per il secondo mandato a sindaco di Milano. “È un segreto di Pulcinella”, dice un giovane esponente del Pd, “sappiamo tutti che Beppe è stufo di passare molte ore ogni giorno nel suo ufficio di Palazzo Marino e che da tempo sta cercando alternative di vita”. Da cinque anni sta facendo il lavoro più noioso e peggio pagato della sua carriera. Ora vuole cambiare. Ha ripetuto, nei mesi scorsi, una frase già pronunciata da Grillo: “Sono un po’ stanchino”.
Gli piacerebbe molto tornare a fare il manager in un business strategico come le telecomunicazioni, alla guida della Tim 2 che potrebbe nascere dallo scorporo delle reti Telecom, sotto la regia di Cassa depositi e prestiti. È il progetto che piace molto a Beppe Grillo, che Sala è andato a incontrare il 10 agosto nella sua casa di Marina di Bibbona, sul litorale livornese. È anche il sogno – segreto ma non troppo – di Sala, che ne ha parlato con più d’un interlocutore. Il sindaco sa però che Tim 2 è un piano ambizioso e ancora tutto da costruire. Sta dunque considerando anche altre alternative a Palazzo Marino, più politiche. È disponibile ad andare a Roma a fare il ministro in quota Pd, nel caso di un prossimo rimpasto di governo. È tentato comunque dal giocare un ruolo politico nazionale, diventando per il Partito democratico – oggi molto “sudista” – il punto di riferimento per un fronte del Nord: non gli dispiacerebbe insomma essere per il Pd di Nicola Zingaretti quello che Luca Zaia è per la Lega di Matteo Salvini. Sta considerando molte strade, Sala, tutte aperte e tutte da costruire pazientemente. Con il Partito democratico nazionale che invece sta facendo di tutto per farlo restare a Milano: per non avere un ennesimo leader a Roma a competere con gli altri leader; ma soprattutto per non rischiare di perdere Milano, che senza la ricandidatura di Sala nella primavera del 2021 potrebbe finire nelle mani del centrodestra. Più pragmatici i “ragazzi” del Pd milanese, che da tempo si stanno preparando all’eventualità che “Beppe” – di cui rispettano la forza, ma che in fondo hanno sempre considerato un estraneo a casa loro – non si ricandidi. Se corre per il secondo mandato, la coalizione che lo sostiene resterà unita, Pd, civici, renziani di Italia viva, radicali, Più Europa…; se imboccherà altre strade, l’alleanza salta e ognuno farà il proprio gioco. Ada Lucia De Cesaris, già vicesindaco di Giuliano Pisapia con ambizione (frustrata) alla sua successione, è pronta a candidarsi come sindaco. Per piantare la bandiera di Italia viva a Milano, ma soprattutto per non lasciare la strada tutta in discesa ai “due ragazzini” del suo ex partito, il Pd: Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran. Sono “i due Pier” già pronti a sostituire “Beppe”. Il primo, ex assessore all’assistenza, oggi è parlamentare europeo, eletto con ben 90 mila preferenze, ma non ha smesso un minuto di presidiare Milano. Il secondo, assessore all’urbanistica, sta seguendo tutte le grandi partite immobiliari, dall’area Expo agli scali ferroviari fino al nuovo San Siro, cercando di ammantare di verde milioni di metri quadri di nuove edificazioni. Il primo presidia l’ala sinistra, il secondo l’ala destra. “I due Pier” si dovranno confrontare nelle primarie, unica strada per dirimere ambizioni personali e scontri politici interni e trovare un candidato sindaco da presentare alla città. Le primarie potranno essere arricchite da altri partecipanti possibili, come (sull’ala sinistra) Paolo Limonta, maestro e assessore alla scuola, e (sull’ala destra) Anna Scavuzzo, vicesindaco di Sala e assessore alla sicurezza. Più difficile la discesa in campo di “indipendenti” e rappresentanti della cosiddetta società civile, anche se circolano i nomi di Tito Boeri, economista ed ex presidente dell’Inps, e di Ferruccio Resta rettore del Politecnico, che curiosamente è accreditato come candidato sia per il centrosinistra sia per il centrodestra.
Il gran rifiuto di Sala, insomma, aprirebbe conflitti e incertezze tali da poter aprire la strada al ritorno della destra a Palazzo Marino. Per questo il Pd nazionale ha già cominciato il pressing sull’attuale sindaco per convincerlo a restare: anche l’altro Beppe (Grillo) si era detto “un po’ stanchino”, ma non si è affatto tolto di mezzo.

mercoledì 22 luglio 2020

I pm: “Regione regalò 1 milione”. Maroni: “È stato tutto regolare”. - Gianni Barbacetto

I pm: “Regione regalò 1 milione”. Maroni: “È stato tutto regolare”

L’indagine “Lombardia Film Commission”.
“Tutto regolare”: contattato dal Fatto, Roberto Maroni non vuole aggiungere altro sul finanziamento da un milione di euro stanziato dalla Regione Lombardia, quando ne era presidente, e destinato alla Lombardia Film Commission. Ottocentomila euro di quei fondi, secondo la Procura di Milano, sono serviti per pagare un immobile a Cormano, ora sede della Fondazione. Quella compravendita adesso però è finita al vaglio dei pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi, che vogliono vedere chiaro non solo su tutta l’operazione immobiliare, ma pure sui soldi pubblici erogati. Tanto che ieri i magistrati hanno inviato la Guardia di finanza negli uffici del Pirellone per acquisire, tra gli altri documenti, anche gli atti della delibera con cui nel 2015 la Giunta regionale guidata da Maroni (non indagato) ha stanziato il contributo di un milione di euro. E così le Fiamme gialle tornano nella sede della Regione. C’erano già state per acquisire documenti prima per la questione relativa alla gestione della pandemia, poi nell’ambito di un’indagine sulla fornitura di camici. Ieri una nuova visita, seppur per fatti diversi.
Stavolta l’inchiesta riguarda l’immobile di Cormano. Un acquisto da parte della Lombardia Film Commission che i magistrati definiscono “insensato” e parlano di “ritorni per chi l’ha deciso e attuato”. Per i pm l’operazione era finalizzata al “‘drenaggio’ di risorse che la Regione Lombardia aveva già destinato alla Fondazione e di cui Di Rubba era presidente; e infatti – continuano i magistrati negli atti – Di Rubba e il ‘socio’ Manzoni beneficeranno della quota maggiore”.
Il riferimento è ad Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, il primo amministratore della Lega al Senato, il secondo revisore del gruppo alla Camera. Entrambi sono accusati di peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Stessi reati per i quali è stato iscritto anche Michele Scillieri, commercialista nel cui studio nel 2017 è stato domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”.
L’operazione immobiliare a prezzo “gonfiato”.
L’operazione immobiliare è piuttosto complessa. La Fondazione infatti nel 2017 acquista questo immobile alle porte di Milano dalla Immobiliare Andromeda srl, società di cui la Procura ritiene essere stato amministratore di fatto Scillieri. Il costo 800 mila euro, pagati anche con i soldi stanziati nel 2015 dalla Regione Lombardia. Denaro che i pm ritengono essere una sorta di “regalo” chiesto e ottenuto in poco più di un mese dalla Fondazione. I magistrati infatti sospettano che quel finanziamento sia stato un escamotage per far arrivare, in qualche modo, i soldi ai commercialisti vicini al Carroccio.
Per i pm però l’immobile è stato comprato a un costo gonfiato. Infatti prima di venderlo alla Lombardia Film Commission, l’Immobiliare Andromeda aveva acquistato quello stesso edificio dalla Paloschi srl, società di cui era liquidatore Luca Sostegni, altro indagato in questa inchiesta. Sostegni è accusato di peculato e di estorsione: secondo i magistrati avrebbe chiesto denaro in cambio del silenzio su ciò che sapeva sulle operazioni immobiliari.
Intercettato a giugno del 2020, al telefono con Scillieri l’uomo “spiegava come non comprendesse la ragione per la quale Di Rubba e Manzoni preferissero per risparmiare ‘pochi soldi’, fare ‘scoperchiare il pentolone, che può fargli danni assurdi’”.
Sostegni stava scappando in Brasile quando mercoledì scorso è stato fermato dagli uomini della Finanza. In un primo interrogatorio ha ricostruito i suoi rapporti con Scillieri. Ma giovedì tornerà davanti ai magistrati.
Le email acquisite e la nomina di Di Rubba.
Intanto il lavoro degli inquirenti si concentra su ciò che è stato acquisito ieri in Regione Lombardia. Dagli atti emerge che Di Rubba il 16 novembre 2015 scrisse una email nella quale chiedeva alla Regione proprio un milione di euro e che il 21 dicembre dello stesso anno la Regione gli rispose che lo stanziamento era stato accordato. Tra le carte utili, anche quelle relative alla nomina nel 2014 di Di Rubba (è rimasto in carica nella Fondazione fino al giugno 2018).

giovedì 16 luglio 2020

Ora anche Repubblica e Carlo De Benedetti riabilitano il Caimano. - Gianni Barbacetto

Ora anche Repubblica e Carlo De Benedetti riabilitano il Caimano

Doppio endorsement.Sognando il governissimo di Draghi.
Doppio colpo del Foglio, in onore e gloria del pregiudicato Silvio. In un giorno solo, pubblica una gemellare riabilitazione di Berlusconi, pronunciata da due che dovrebbero essere per definizione rigorosi e severi con l’ex capo del centrodestra, nonché condannato definitivo per frode fiscale, indagato per strage mafiosa e plurisalvato via prescrizione da una lunga serie di reati. I due sono il neodirettore di Repubblica, Maurizio Molinari, e l’ex arcinemico di Berlusconi, Carlo De Benedetti, neoeditore di Domani. Sottile perfidia, quella dei foglianti: mettono in pagina, uno accanto all’altro, due che dovrebbero essere agli antipodi, zenit e nadir. Cdb si è opposto alla vendita di Repubblica, la sua Repubblica, al gruppo Gedi di John Elkann, che l’ha strappata dalle sue radici e dalla sua storia, come stanno constatando i lettori che l’abbandonano. Sconfitto dai figli, Cdb ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo, fondando un nuovo giornale. Aveva addirittura rotto con Eugenio Scalfari, quando il Fondatore aveva detto che giù dalla torre, tra Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, avrebbe gettato il secondo, tenendosi il primo. Tanta fatica annullata nello spazio di un mattino: i registi foglianti addetti alla Grande Riabilitazione infilano Cdb (“Sono pronto a trangugiare un governo col Caimano”) sopra il Molinari strappatore di radici del suo ex giornale. Se è così, poteva anche risparmiare l’investimento nel Domani.
Salvini il selvaggio e Meloni Fascista.
“Se si tratta di isolare Salvini e Meloni, trangugio anche Berlusconi al governo con la sinistra”, dichiara De Benedetti infilandosi dritto dritto nell’imboscata di Salvatore Merlo. “Ma accompagnato anche dal benservito a Conte che rappresenta il vuoto pneumatico”. Il Berlusconi che gli ha sfilato la Mondadori grazie a una sentenza comprata e venduta diventa colui che in un colpo solo ci può liberare da Salvini, Meloni e Conte. “Mai avrei immaginato di dire che al mondo esiste qualcosa di peggiore di Berlusconi. E sia chiaro, continuo a pensare che il livello di corruzione morale che lui ha introdotto nel Paese abbia costituito un periodo nero della nostra storia. Se non era per Scalfaro avremmo avuto Previti ministro della Giustizia”. Ma c’è un eppure: “Eppure sono pronto a trangugiare il rospo. Meloni è figlia del fascismo, e io il fascismo me lo ricordo da bambino con orrore. Salvini invece è un selvaggio privo di qualsiasi cultura. E quanto a Conte, basta il caso Autostrade per qualificare la sua nullità”. Alla fine, cade nel tranello che non ha perdonato a Scalfari: al gioco della torre, tra Silvio e Giuseppi, salva il primo.
Meglio il pregiudicato del premier Conte.
I foglianti gongolano. Incassano volentieri la telefonata del Fedele Confalonieri, che protesta per i giudizi, ritenuti duri e inaccettabili, sull’amico Silvio, creatore delle tv private e inventore di Forza Italia. Ma conta il titolo: Cdb riabilita il Nemico. E lo sdogana come protagonista della politica di domani (minuscolo): “Se Berlusconi si stacca dalla destra sovranista è possibile che si formi una maggioranza in grado di esprimere un presidente del Consiglio finalmente capace di fare il suo mestiere”. 
E Merlo evoca il solito nome: Mario Draghi? “Magari. Se tutto va bene è in arrivo nel nostro Paese una quantità di denaro che non si vedeva dal primo dopoguerra. Un’occasione unica. E c’è bisogno di un governo, e di una personalità al governo, che questa occasione storica la sappia cogliere. Ora o mai più”. L’eterna illusione italiana: Mussolini usato dai liberali che poi furono invece mangiati in un sol boccone; Berlusconi considerato disponibile a dare gratis il suo soccorso, lui che gratis non ha dato mai niente. Ma poiché “Giuseppe Conte non è adatto”, porte aperte al Caimano, che pure Cdb conosce bene. Ricordate il marito che si evira per far dispetto alla moglie? Perché mai il Cavaliere che “non ha idee, ma calcoli personali” dovrebbe contribuire a fare oggi le mirabolanti riforme (fisco e “modernizzazione del Paese”) che piacciono a De Benedetti? Per il paradosso del suo stesso conflitto d’interessi, sostiene Cdb: per salvare la sua roba (Mondadori e Mediaset) può contribuire a far sì che non siano sprecati i soldi pubblici e quelli in arrivo dall’Europa. Tanti auguri.
Più facile Molinari: alle ortiche la Repubblica delle dieci domande a Berlusconi, per fare un altro giornale, “sulle notizie e non sul colore delle notizie”. Un foglio “verde e blu”, una “palestra di idee” che non divida più “il mondo nelle vecchie categorie destra-sinistra”. Basta “asprezze ideologiche”, porte aperte a giornalisti “non prigionieri del passato”: dunque fuori dalla storia di Repubblica.

lunedì 6 luglio 2020

Non solo Maroni e Alfano: Sua Sanità ingaggia spioni. - Gianni Barbacetto

Non solo Maroni e Alfano: Sua Sanità ingaggia spioni

San Donato - Il primo gruppo della sanità privata dopo aver arruolato ex ministri, assume anche agenti dell’Aise: in arrivo pure il vicedirettore.
Non ci sono soltanto ex ministri (sempre di centrodestra). Il Gruppo San Donato di Paolo Rotelli, primo in Italia nella sanità privata e attivo in Lombardia, assolda non solo politici del calibro di Angelino Alfano e Roberto Maroni, ma anche agenti segreti. Nell’Aise (i servizi segreti per l’estero) in questi giorni si sta giocando la partita per decidere le nomine dei nuovi vertici. Come direttore è già arrivato Gianni Caravelli, al posto di Luciano Carta, diventato presidente di Leonardo. Mancano le nomine dei vice (che potrebbero arrivare a breve).
Sono due le caselle da riempire: c’è quella lasciata libera da Caravelli e poi quella occupata da Giuseppe Caputo, generale della Guardia di finanza arrivato all’Aise molti anni fa e che ora ha presentato domanda di “collocamento a riposo”, ossia pensione, con decorrenza da fine luglio. Caputo poi andrà al San Donato, il gruppo che conta 19 tra ospedali e cliniche, più di 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti e che nel 2018 ha fatturato di 1,65 miliardi, in buona parte provenienti dai rimborsi pubblici regionali per la sanità accreditata.
Caputo entrerà nell’“Ufficio compliance, protezione aziendale e relazioni con le istituzioni”, che cura la security del gruppo e tiene i contatti politici e istituzionali. Affiancherà un vecchio collega, Claudio di Sabato, anch’egli ex generale della Gdf ed ex ufficiale dell’Aise, arrivato al San Donato nel 2019 e che resta il numero uno.
Caputo dovrà occuparsi delle relazioni istituzionali e della sicurezza, in vista della programmata espansione del gruppo San Donato nei territori del Sud Italia. “Avevamo bisogno di una figura professionale come la sua per operare in un territorio complicato come il Meridione, a rischio di infiltrazioni criminali”, spiegano fonti del gruppo.
Così si è pensato a un professionista che in Aise ha messo piede nel lontano 1998 e che è poi stato capo di gabinetto di Alberto Manenti, quando questi guidava i servizi segreti per l’estero, per poi diventarne vicedirettore.
Con l’arrivo dello 007 si completa la squadra di vertice del San Donato. Nel luglio 2019 era stato scelto l’ex delfino di Silvio Berlusconi e poi fondatore del Nuovo Centro Destra, Angelino Alfano, chiamato con il ruolo di presidente del San Donato. Nel giugno 2020, invece, sono stati formati i nuovi consigli d’amministrazione delle società del gruppo. Tra i nuovi arrivi c’è stato anche Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia, entrato nel cda degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo. E poi c’è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy. Iannini, moglie di Bruno Vespa, è entrata a far parte del consiglio d’amministrazione della holding e in quello dell’Ospedale San Raffaele, fiore all’occhiello del gruppo.
E dunque: Alfano, Maroni, Iannini. Impossibile non notare come gli organigrammi del gruppo siano pieni di figure che vengono da partiti e da ministeri, personalità che di certo durante la loro carriera hanno tessuto non pochi rapporti. Inoltre, gran parte del fatturato del San Donato proviene dai soldi pubblici, tramite gli accreditamenti che i suoi ospedali hanno ottenuto, a partire dai bei tempi della riforma di Roberto Formigoni che ha aperto il sistema sanitario lombardo ai privati (un modello che durante la crisi Covid ha mostrato tutti i suoi limiti).
Ma forse la politica non basta. Al gruppo evidentemente serve anche chi ha avuto esperienze di primo piano nelle strutture dell’intelligence.