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venerdì 18 giugno 2021

Trojan, il gip: “Intercettazioni utilizzabili” Vicina la richiesta di processo per Palamara. - A. Mass.

 

S’è chiusa ieri la vicenda trojan – quella perugina, perché a Firenze c’è un’attività d’indagine in corso – nell’inchiesta che vede Luca Palamara indagato per corruzione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Dopo mesi di udienze e di sospetti sull’utilizzo del trojan che intercettò l’ormai famoso dopocena all’hotel Champagne di Roma – quello in cui Palamara, nel maggio 2019, discuteva con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri del futuro procuratore di Roma – il gup Piercarlo Frabotta ha stabilito che v’è stato il “pieno rispetto” delle norme. In sostanza, sebbene Rcs avesse omesso di dichiarare alla procura di Perugia l’utilizzo, oltre a quello romano, di un server nella procura di Napoli, sconosciuto persino ai magistrati partenopei, nessuna legge è stata comunque violata: la norma prevede infatti che il server debba essere installato all’interno di una procura e, nonostante nessuno ne fosse al corrente, uno dei server in questione, era all’interno di un palazzo di giustizia. La scoperta era emersa in seguito alle indagini difensive svolte in sede disciplinare dall’avvocato di Ferri (non indagato a Perugia), Luigi Panella, ma il gup ha stabilito che esistevano comunque le “condizioni di sufficiente protezione quanto al transito sicuro del flusso dal telefono infetto al server finale di destinazione” e il “pieno rispetto dell’articolo 268 del codice di procedura penale”. Il paradosso, quindi, è che persino un server “fantasma”, purché installato all’interno di una procura, è quindi utilizzabile. “Siamo stati sempre certi che le intercettazioni fossero state fatte in modo corretto”, ha commentato il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, che nelle settimane scorse ha incassato anche la collaborazione dell’imprenditore Centofanti, il quale, disposto a patteggiare, ha raccontato in procura di aver fatto da “sponsor” per l’attività di “politica giudiziaria” di Palamara pagando cene per circa 8mila euro l’anno. È probabile che alla prossima udienza, chiedendo il rinvio a giudizio, la Procura rimoduli il capo d’imputazione per Palamara proprio alla luce delle dichiarazioni di Centofanti.

“Prendiamo atto della decisione del giudice e attendiamo gli esiti degli accertamenti definitivi da parte la Procura competente di Firenze” ha commentato invece Palamara precisando che ricorrerà in Cassazione ed eventualmente alla Corte europea. A Firenze, dove la Procura – che sta analizzando l’intero flusso degli impulsi, a differenza di quella umbra, che s’è concentrata su circa 20 chunk – Palamara e Ferri sono considerati parti offese perché Rcs non aveva riferito l’esistenza dei server napoletani.

ILFQ

mercoledì 31 marzo 2021

Palamara dimostra solo il potere delle correnti. - Antonio Esposito

 

Come è noto, i pm di Palermo, compreso il Procuratore capo Lo Voi, hanno chiesto il rinvio a giudizio di Matteo Salvini per sequestro di persona per aver negato lo sbarco, nell’estate del 2019, a 147 migranti soccorsi al largo di Lampedusa dalla nave della ong Open Arms. La richiesta ha dato spunto al direttore del Giornale, Sallusti, per un editoriale del 21 marzo dal titolo “Il Procuratore ‘made in Palamara’”. L’intento del direttore – oltre alla solita contumelia nei confronti della magistratura: “Facciamo finta di non vedere che la giustizia è nelle mani di una banda di sciagurati” – era quello “almeno che gli italiani sappiano da che pulpito arriva la richiesta di rinviare a giudizio Salvini per un presunto reato politico”.

In proposito, si è “affidato alle parole di Luca Palamara nel libro Il Sistema”, circa la nomina del nuovo procuratore di Palermo: “Mi convoca il procuratore di Roma Pignatone e a sorpresa mi dice: ‘Si va su Lo Voi?’. Rimango sorpreso, è il candidato con meno titoli tra quelli in corsa, ma sono uomo di mondo, mi adeguo e studio la pratica. È un’impresa difficile, l’uomo era distaccato fuori sede, all’Eurogest. Ricordo la trattativa come una delle più difficili della vita, faccio un doppio gioco e la vinco: Lo Voi va a Palermo e, dopo il giusto ricorso di un suo avversario, io e Pignatone organizziamo una cena con il magistrato che dovrà decidere sul ricorso che…”.

In realtà non esiste alcuna correlazione tra i due episodi, poiché la nomina a Procuratore del Lo Voi (avvenuta nel 2014) non incide in alcun modo sulla legittimità della richiesta di rinvio a giudizio che l’organo dell’accusa, nel contraddittorio tra le parti, sottopone alla valutazione di un giudice terzo, sicché del tutto impropria è l’affermazione del Sallusti: “Ecco, la politica oggi si fa giudicare da un uomo così”.

Inoltre, l’episodio è di una gravità inaudita per il Palamara il quale, componente del Csm, non solo non respinge la “raccomandazione” (semmai vi è stata) del Procuratore di Roma in favore di un candidato meno titolato di altri concorrenti al posto di Procuratore di Palermo, ma addirittura si impegna – in violazione del dovere di imparzialità, facendo anche il “doppio gioco” (!!) – a far vincere la procedura concorsuale al candidato “segnalato”, meno titolato, danneggiando così il candidato più titolato costretto a rivolgersi al Tar ove vince. Ma è il Palamara a non darsi per vinto perché “propizia” (se è vero) a casa sua un incontro tra il Pignatone e il magistrato del Consiglio di Stato che dovrà giudicare il ricorso – poi accolto – del Lo Voi avverso la decisione del Tar.

Orbene, vi è materia sufficiente per un’indagine che faccia luce sulla inquietante vicenda anche acquisendo la versione di Pignatone.

L’episodio in questione è uno dei tanti che il Palamara racconta nella sua intervista al Sallusti e tutti dovrebbero essere oggetto di accertamenti quantomeno disciplinari (accertamenti ancora possibili poiché il Palamara non è stato definitivamente rimosso dall’ordine giudiziario), tenuto conto che lo stesso Palamara ammette “che negli ultimi anni non ho fatto il magistrato: io ho fatto politica. Non dentro un partito politico, ma inserito in un sistema politico. Ho confuso i ruoli, certo, ma è giusto dire che non ero un pazzo isolato; eravamo in tanti ed eravamo compatti, eravamo diventati quelli di una parte pronti a colpire l’altra, e non c’entravamo più nulla con il collega che si alza ogni mattina e si deve occupare di furti, rapine, separazioni e fallimenti”.

Ora, un personaggio del genere – che vuole riciclarsi e vuole combattere per “una giustizia più giusta” – è diventata una star televisiva, riverito e osannato da una certa parte politica e da una certa stampa giunta al punto di affermare – e la cosa ha dell’incredibile – che “Palamara è ancora vivo e lotta insieme a noi” (così Il Tempo del 21.3, a firma di F. Storace).

Si tratta evidentemente della gratificazione dovutagli per essersi inventato un “Sistema” per il quale la magistratura si compattava contro i politici che “hanno sfidato i magistrati” e quindi Berlusconi, Renzi, Salvini (eccetto Enrico Letta e Paolo Gentiloni che “non hanno sfidato i magistrati”).

Per la verità, un tale sistema non è mai esistito, ma è esistito un sistema correntizio – di cui uno dei principali protagonisti era il Palamara – che inquinava le procedure concorsuali per incarichi e nomine basate non sul merito, ma sull’appartenenza alla corrente e su tale sistema non si è indagato a fondo, quantomeno in sede disciplinare.

IlFattoQuotidiano

martedì 23 febbraio 2021

“Così Palamara spifferava notizie sulle indagini in corso”. - Antonio Massari

 

Corruzione in atti giudiziari - Si aggrava la posizione dell’ex pm.

Nuove accuse per Luca Palamara: corruzione in atti giudiziari. In questa sorta di elastico – le contestazioni sono già mutate tre volte – nell’inchiesta perugina prende un ruolo centrale Piero Amara, l’eminenza grigia delle maggiori inchieste per corruzione di magistrati degli ultimi anni.

Sentito a Perugia come persona informata sui fatti, Amara ha spiegato che riusciva a ottenere informazioni riservate sulle indagini che lo riguardavano a Roma e Messina. La sua fonte era l’imprenditore Fabrizio Centofanti, il quale prendeva notizie da Palamara che, a sua volta, da un lato le carpiva al pm di Roma, Stefano Fava – che indagava su Amara nella Capitale – e dall’altro attraverso l’attuale procuratore generale di Messina, all’epoca procuratore aggiunto, Vincenzo Barbaro. Quest’ultimo ieri ha precisato: “La rivelazione di notizie è palesemente insussistente, come potrà essere comprovato nelle competenti sedi con inoppugnabile produzione documentale, oltre che con la deposizione di tutti i soggetti che a vario titolo si sono occupati del processo. Preannuncio iniziative giudiziarie nei confronti dei responsabili”.

I pm di Perugia – Gemma Miliani e Mario Formisano, coordinati dal procuratore capo Raffaele Cantone – hanno cercato riscontri alla versione di Amara e sono convinti di averli trovati. Prima di passare ai riscontri, però, riordiniamo la matassa delle accuse e mettiamo a fuoco la figura di Amara e Centofanti. Amara – avvocato ed ex legale esterno di Eni – è da anni al centro di numerose inchieste in tutta Italia. È stato condannato a Messina per aver corrotto l’ex pm di Siracusa, Giancarlo Longo, affinché istruisse un fascicolo farlocco, quello sull’inesistente complotto per far cadere l’ad di Eni Claudio Descalzi e finalizzato a depistare il fascicolo in cui lo stesso Descalzi è accusato, a Milano, di corruzione internazionale per l’acquisto del giacimento nigeriano Opl 245 da parte del colosso petrolifero italiano. Per questo “depistaggio” è indagato a Milano. È stato accusato a Roma di aver corrotto magistrati amministrativi per pilotare sentenze.

Amara e Palamara hanno un amico in comune: l’imprenditore Fabrizio Centofanti. E proprio nell’inchiesta romana i finanzieri del Gico hanno individuato un giro di fatture sospette emesse da Amara e Centofanti. Quest’ultimo, a sua volta, è l’uomo che ha pagato a Palamara viaggi e soggiorni in hotel, nonché la ristrutturazione dell’appartamento di una donna all’epoca a lui vicina. In sostanza, secondo la procura di Perugia, Centofanti avrebbe corrotto Palamara. In cambio di cosa? Nella prospettazione iniziale era indagato a Perugia anche Amara: Palamara – fatto poi ritenuto insussistente dai pm – avrebbe incassato 40mila euro per interessarsi alla nomina di Longo (mai avvenuta) come capo della procura di Gela. Amara viene poi archiviato e i pm derubricano l’accusa, per Palamara, in corruzione per esercizio della funzione. Accusa nuovamente cambiata ieri perché, interrogando Amara il 4 febbraio (e non soltanto lui), emerge un fatto nuovo: Amara sostiene di aver avuto notizie sulle sue indagini da Centofanti – sia su Roma sia su Messina – attraverso Palamara che le carpisce in qualche modo a Fava e Barbaro (non indagati). Un primo riscontro può giungere dagli atti d’indagine: Barbaro, da procuratore aggiunto a Messina, partecipava al coordinamento delle indagini con Roma. Ma c’è di più. Il suo nome compare nelle chat con Palamara – al solito si discute di nomine – e, soprattutto, il 14 ottobre 2017 Barbaro scrive una relazione al procuratore capo di Messina sostenendo che l’ex presidente dell’Anm gli aveva dimostrato di conoscere elementi del fascicolo in cui era indagato un suo amico. L’amico – che nella relazione non è menzionato – potrebbe essere proprio Centofanti sul quale, in quel momento storico, non c’era atti ufficiali: era tutto coperto dal segreto istruttorio.

La difesa di Palamara – sostenuta dagli avvocati Benedetto e Mariano Buratti e Roberto Rampioni – ha un’altra tesi. Le interlocuzioni con Barbaro riguardavano un procedimento disciplinare su Longo (che era appunto indagato a Messina): Palamara si informava per avere elementi utili alla decisione finale. Le conversazioni riguardavano anche la nomina da procuratore generale di Barbaro che infatti promette in chat di ringraziarlo con dei torroncini. Secondo Amara, il secondo canale informativo – ammesso che sia riuscito a carpirgli qualcosa, essendo noto il suo rigore – riguarda invece l’inconsapevole pm Fava. L’occasione – emerge da alcune chat con il poliziotto Renato Panvino – era rappresentata da alcuni incontri a tennis tra i due. Panvino ha confermato che, quando nelle chat citava le partite a tennis, intendeva riferirsi a incontri tra Palamara e Fava. Anche Amara ha fornito la stessa versione.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/23/cosi-palamara-spifferava-notizie-sulle-indagini-in-corso/6110365/

mercoledì 27 gennaio 2021

Giustizia gratta e vinci. - Marco Travaglio

 

Le “rivelazioni” dell’ex pm Luca Palamara nel libro-intervista con Alessandro Sallusti, al netto delle balle, possono stupire tutti, fuorché i lettori del Fatto. Che dalle nostre cronache hanno potuto seguire passo passo, non fuori tempo massimo, la sistematica demolizione di tutti i pm non allineati al sistema per mano delle cosche correntizie e dei loro mandanti politico-istituzionali: Scarpinato, Ingroia, Di Matteo, De Magistris, Nuzzi, Apicella, Verasani, Forleo, Woodcock, Robledo, De Pasquale, Esposito e altri, fino alla defenestrazione di Davigo dal Csm. È la stessa logica delinquenziale che in questi giorni orienta la congiura per cacciare Conte e riconsegnare il Paese ai soliti ladri con la benedizione dei loro giornaloni. La magistratura di Mani Pulite e della Primavera di Palermo è diventata un’altra cosa: non più l’istituzione sana rappresentata dai Borrelli, i Caselli, i D’Ambrosio, i Maddalena, i Guariniello che oscuravano poche mele marce; ma un’entità indistinta dominata da burocrati, carrieristi, correntisti, menefreghisti, in cui si annidano pochi magistrati che si ostinano a compiere il proprio dovere a proprio rischio e pericolo. Le indagini non fatte o mal fatte superano di gran lunga quelle svolte a regola d’arte, molte sentenze sembrano terni al lotto e la giustizia – con le dovute eccezioni – si riduce a gratta e vinci. Le “riforme” e i “moniti” finalizzati a non disturbare i manovratori, sono riusciti là dove la guerra di B. aveva fallito: a “mettere in ginocchio i magistrati” (Davigo dixit) come negli anni 50, 60 e 70, quando la giustizia era forte coi deboli e debole coi forti.

Oggi è prevista la sentenza del processo a Chiara Appendino, una delle sindache più oneste e perbene mai viste. Risponde di omicidio e lesioni colpose per la tragedia di piazza San Carlo del 3 giugno 2017, quando – durante la proiezione sul maxischermo della finale di Champions Juventus-Real Madrid – due donne morirono e 1500 persone furono ferite nel fuggifuggi scatenato da una banda di rapinatori armati di spray al peperoncino, scambiati per terroristi bombaroli. La più classica delle disgrazie imprevedibili e inevitabili, come può testimoniare il sottoscritto, che accorse in piazza a recuperare sua figlia ferita. Molti dei feriti, fra cui lei, erano caduti nella calca su un tappeto di vetri rotti, cioè di bottiglie di birra che incredibilmente la polizia aveva consentito venissero vendute da abusivi nella zona transennata. Soltanto in seguito si scoprì la banda dello spray urticante che aveva scatenato il panico, i cui membri sono già stati condannati per omicidio preterintenzionale. Resta da capire che senso abbia ormai il processo alla sindaca.

E che avrebbe potuto fare la Appendino per evitare l’accaduto se non, col senno di poi, vietare la manifestazione? Cosa che ovviamente non le venne in mente di fare, non potendo prevedere l’imprevedibile. La stessa piazza era stata concessa ai tifosi l’anno prima per la finale Juve-Barcellona dall’allora sindaco Piero Fassino pochi mesi dopo le stragi Isis a Parigi, e con gli stessi protocolli di sicurezza. Eppure oggi l’Appendino rischia 1 anno e 8 mesi (tanti ne ha chiesti il pm), che andrebbero ad aggiungersi ai 6 mesi per falso rimediati a ottobre in un altro processo kafkiano: quello sul “caso Ream”. Breve riepilogo: nel 2012 la giunta Fassino contrae uno strano debito con la società Ream, che versa al Comune una caparra di 5 milioni per avere il diritto di prelazione su un’area destinata a centro congressi. Nel 2013 il progetto viene aggiudicato a un’altra società, anche perché incredibilmente Ream ha versato la caparra senza partecipare alla gara. E i 5 milioni vanno restituiti. Ma la giunta Fassino non paga. E, ai solleciti di Ream, risponde che ridarà i soldi solo quando il vincitore della gara avrà la concessione e il Tar avrà sentenziato sul ricorso di una ditta esclusa. Nel 2016 arriva la Appendino e, trovando le casse vuote, tratta con Ream per rinviare la restituzione dei 5 milioni, che intanto restano fuori bilancio, tantopiù che l’affare è sempre fermo al Tar. Ma i capigruppo di opposizione, il leghista Morano e il pd Lorusso (compagno di chi ha contratto e non saldato il debito), la denunciano.

L’Appendino viene indagata per due abusi e due falsi (sui bilanci 2016 e 2017), ma rivendica la scelta, stanti le trattative con Ream per rinviare il pagamento: tant’è che poi ottiene di effettuarlo nel 2018 e iscrive il debito nel bilancio di quell’anno, col via libera della Corte dei Conti. La Procura però, malgrado il centro congressi sia rimasto bloccato al Tar fino all’autunno 2020, sostiene che l’aggiudicazione si fosse perfezionata già quattro anni prima, dunque la caparra andasse iscritta a bilancio e restituita nel 2016. Alla fine il gup, con rito abbreviato, condanna la sindaca, sia pure solo per il falso del 2016: 6 mesi per aver favorito il suo Comune iscrivendo un debito atipico nel bilancio 2018 anziché 2016. Nelle motivazioni, a tratti esilaranti, si legge che il dolo che fa dell’errore un reato è dimostrato anche dagli esposti di Lorusso e Morano (nel frattempo condannato in appello a 2 anni e 4 mesi per induzione indebita): cioè degli oppositori della sindaca. L’altroieri, con comodo, la Procura ha indagato Fassino per turbativa d’asta sulla folle caparra del 2012. Tanto è tutto prescritto. A questo punto, spiace dirlo, ma è sempre più arduo distinguere la giustizia dalla burla.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/27/giustizia-gratta-e-vinci/6079517/

domenica 4 ottobre 2020

“È giusto che Davigo rimanga al Csm. Grave escluderlo dal caso Palamara”. - Gianno Barbacetto

 












Giuseppe Marra - Il consigliere sulla possibile decadenza dell’ex pm al compimento dei 70 anni.

È in corso al Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara. Tra i giudici c’è Piercamillo Davigo, che il 20 ottobre compie 70 anni e come magistrato andrà in pensione. Deve lasciare anche il Csm e il procedimento Palamara? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Marra, membro del Csm e appartenente al gruppo di Davigo, Autonomia e indipendenza.

A che punto è il procedimento per Palamara?

La sezione disciplinare del Csm ha già deciso la sua sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, confermata dalla Cassazione. Ora è in corso il giudizio di merito, con attività istruttoria compiuta in diverse udienze pubbliche.

Palamara è sotto giudizio penale per corruzione a Perugia. E la sezione disciplinare del Csm che cosa deve giudicare?

Al momento gli è contestata la partecipazione, insieme a ex consiglieri del Csm e ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, a una riunione del maggio 2019 durante la quale, secondo l’accusa, si sarebbero realizzate condotte scorrette nei confronti di alcuni candidati alla nomina di procuratore di Roma, nonché dei magistrati Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, finalizzate a condizionare le scelte del Csm nella nomina dei dirigenti di diversi uffici giudiziari tra cui la Procura di Roma.

Il procedimento potrebbe fermarsi, per la presenza di Davigo?

Contro Davigo è stata presentata istanza di ricusazione, già rigettata. La presenza di Davigo non solo è legittima, ma anche doverosa, poiché è stato eletto dal plenum del Csm nella sezione disciplinare, la cui composizione non può essere modificata, se non nei casi previsti espressamente.

Quindi Davigo non deve lasciare il Csm, e dunque il procedimento Palamara, con il raggiungimento del settantesimo anno d’età?

La questione è controversa perché non vi sono precedenti nella storia del Csm. È stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, emesso ma non ancora noto. La Costituzione dice: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Idem la legge istitutiva del Csm, senza alcuna eccezione nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile dei componenti, togati o laici.

È vero che la disciplinare sta accelerando sul caso Palamara in vista della “scadenza” di Davigo?

Palamara è sottoposto a una misura cautelare molto afflittiva, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per cui è il primo ad avere interesse a un giudizio veloce. Non entro nel merito della decisione del collegio di non ammettere gran parte dei testimoni richiesti dalla difesa di Palamara che, trattandosi di decisione giudiziaria, potrà essere impugnata nelle sedi competenti. In termini generali ritengo però che sia il processo penale, sia quello disciplinare possono avere a oggetto solo singoli fatti, contestati puntualmente in relazioni a fattispecie precise. Il processo al “sistema” degenerato non spetta ai giudici, ma alla politica e, per quanto riguarda la magistratura, anche all’Associazione nazionale magistrati.

Chi chiede che Davigo lasci e se ne vada?

Nessuno ha formulato alcuna richiesta ufficiale. È lo stesso Davigo ad aver segnalato alla commissione competente sulla verifica titoli il raggiungimento dell’età pensionabile e credo lo abbia fatto per fugare qualsiasi ombra.

Non è automatica la decadenza di Davigo dal Csm, al compimento dei 70 anni d’età?

Assolutamente no, ogni decisione dovrà essere presa dal plenum del Csm dopo una discussione pubblica. Io credo però che, in assenza di una norma precisa, non la si possa pretendere in via interpretativa, in forza di argomentazioni opinabili. Il diritto elettorale, che è il cuore dei sistemi democratici, è fondato sul principio di tassatività delle ipotesi di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza dei membri eletti: in questo caso, in un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ipotizzare che sia la maggioranza di turno a integrare a livello interpretativo le norme sulla decadenza, mi sembra un precedente molto grave. Immaginare poi che ciò avvenga nei confronti di Davigo, che anche come presidente dell’Anm aveva già denunciato pubblicamente la degenerazione del sistema delle correnti, rappresenterebbe davvero un epilogo molto triste per la magistratura tutta.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/04/e-giusto-che-davigo-rimanga-al-csm-grave-escluderlo-dal-caso-palamara/5953610/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-04

mercoledì 15 luglio 2020

Ecco i testimoni di Palamara: ex ministri e uomini del Colle. - Antonio Massari

Ecco i testimoni di Palamara: ex ministri e uomini del Colle

L’offensiva. Il pm presenta una lista di 133 nomi.
Un documento di 34 pagine e un elenco di 133 testimoni. Luca Palamara chiede al Csm di accettare la lunghissima lista testi con una duplice conseguenza. Se il Csm accetta sfilerà mezza giustizia italiana – dall’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino agli ex ministri Andrea Orlando e Giovanni Maria Flick, passando per gli ex presidenti dell’Anm Francesco Minisci ed Eugenio Albamonte e all’attuale procuratore capo di Milano Francesco Greco – correndo il rischio di dimostrare che la gestione Palamara non era l’eccezione nella procedura delle nomine. Se rifiuterà, darà l’impressione di non volersi sottoporre a una operazione verità. Palamara chiama a testimoniare anche Guido Lo Forte, tra i favoriti per la Procura di Palermo fino allo stop inferto, nei fatti, dalla richiesta del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di procedere seguendo un inedito ordine cronologico. Intervento che portò la consiliatura successiva a nominare a Palermo Francesco Lo Voi (anch’egli nella lista testi). Lo Forte potrebbe dover spiegare perché, in seguito, revocò la candidatura alla Procura generale del capoluogo siciliano. Ma c’è di più. Palamara chiama a testimoniare due consiglieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – Francesco Garofani e Stefano Erbani – per due distinte vicende. La prima: le interlocuzioni con Luca Lotti relative alla nomina – poi saltata – del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, alla Procura di Roma. Tra le accuse rivolte a Palamara c’è quella di aver discusso della nomina di Viola alla presenza di Lotti il 9 maggio 2019. Palamara sostiene che Lotti fosse estraneo “agli orientamenti maturati dai gruppi di Unicost e Magistratura Indipendente”. Resterebbe indigeribile che ne discutesse alla sua presenza. Ma Palamara va oltre e vuole che Garofani riferisca “sulla posizione processuale” di Lotti al 9 maggio 2019 e “sui rapporti e colloqui intrattenuti” con il Parlamentare del Pd “in ambito istituzionale” e “anche con riferimento alle vicende relative al Csm”. Con il Fatto, lo scorso anno, Garofani ha smentito qualsiasi interessamento alle vicende in questione.
Palamara chiede che altri testimoni – per esempio l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini e l’ex consigliere laico Paola Balducci – confermino che la sua frequentazione con Lotti (indagato dalla Procura di Roma nell’inchiesta Consip e poi imputato per rivelazione del segreto e favoreggiamento) era iniziata a livello istituzionale con incontri avvenuti anche alla presenza dell’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone.
Erbani è invece chiamato a testimonare sul procedimento disciplinare su Woodcock (è stato assolto il mese scorso) iniziato con la consiliatura guidata da Legnini e rinviato a quella successiva. Fonti del Quirinale precisano al Fatto che Erbani non sa nulla sull’argomento. Diversa la posizione di Legnini, che Palamara cita come testimone, affinché racconti il “contenuto di una conversazione avuta con l’onorevole Paolo Cirino Pomicino”, proprio su Woodcock, “nel periodo di svolgimento” del suo “procedimento disciplinare”. Conversazione che fu poi “oggetto di un’intercettazione ambientale nell’ambito del procedimento Consip”. In sostanza Pomicino, in un’intercettazione ambientale, racconta di aver incontrato Legnini e di aver parlato con lui di Woodcock. E questa intercettazione – secondo la ricostruzione di Palamara – finisce proprio nel fascicolo Consip gestito inizialmente da Woodcock. Palamara vuole che Legnini spieghi le “ragioni del rinvio del procedimento disciplinare” nei confronti di Woodcock. In effetti, intercettato mentre parla con Legnini, già nel maggio 2019 Palamara gli dice che vuol riferire alla stampa le reali ragioni del rinvio. “Non lo puoi dire” gli risponde Legnini. Palamara lo rassicura: “Senza mettere in mezzo te”. Legnini spiega al Fatto che Palamara si riferiva a un’intercettazione – che non ha mai letto – nella quale Pomicino raccontava di averlo incontrato e nella quale avrebbe sostenuto, sempre a detta di Palamara, che lo stesso Legnini avrebbe parlato in termini non lusinghieri di Woodcock. Legnini era in quel momento giudice in sede disciplinare e avrebbe potuto rischiare una ricusazione. Ricusazione mai avvenuta. E intercettazione al momento sconosciuta. Legnini conferma al Fatto di aver incontrato Pomicino, che gli parlò di Woodcock, lamentandosene, ma spiega: “Gli dissi che non potevo far nulla”. Versione confernata da Pomicino. “Non mi sono lasciato condizionare – conclude Legnini – dalle parole di Palamara né dall’esistenza di questa presunta intercettazione. Il rinvio è stato giusto, fisiologico, richiesto dalla stessa difesa di Woodcock”.
Sullo stesso argomento Palamara chiama a testimoniare anche il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo. Poi passa ai finanzieri che hanno indagato su di lui, a partire dall’ex ufficiale del Gico Gerardo Mastrodomenico, al quale vorrebbe chiedere di alcune intercettazioni non riportate nelle informative, il perché non sia stata fermata la registrazione di Lotti e Cosimo Ferri, nonostante il divieto espresso dalla Procura di intercettare parlamentari e, infine, quali incarichi rivestisse dal maggio 2018 al giugno 2019. Mastrodomenico, al quale era stata delegata l’inchiesta, da settembre 2018, e fino al successivo incarico come comandante provinciale della Gdf di Messina, è stato alla Scuola di Perfezionamento per le forze di Polizia: è da lì – è la domanda sottintesa – che ha condotto le indagini? Tra i testimoni citati anche Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo ai quali vuol chiedere cosa sappiano dell’esposto presentato dal pm di Roma Stefano Fava su Pignatone e dei colloqui intrattenuti con il magistrato Erminio Amelio (Amelio era tra i candidati di Palamara a Perugia come procuratore aggiunto).
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/14/ecco-i-testimoni-di-palamara-ex-ministri-e-uomini-del-colle/5867204/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-07-14

giovedì 25 giugno 2020

Palamara: “Dirò la verità sul ‘ricatto’ Woodcock”. - Antonio Massari

Palamara: “Dirò la verità sul ‘ricatto’ Woodcock”

È la notte tra il 28 e il 29 maggio 2019. Luca Palamara si sfoga a lungo con l’ormai ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. E ha già l’istinto dell’animale ferito che lo accompagnerà fino a questi giorni. Pensa di parlare ai giornalisti, se possibile con Lucia Annunziata, e annuncia a Legnini cosa vorrebbe raccontare in tv: il motivo per cui il processo disciplinare di Henry John Woodcock è slittato alla nuova consiliatura del Csm.
“È una cosa che vorrei di’, questa, cioè che il processo Woodcock non è stato fatto per ‘sto motivo…”, dice Palamara a Legnini. Non si tratta di una frase senza peso. Soprattutto, come vedremo, per il seguito del discorso.
E quindi: qual è il vero motivo per cui è stato rinviato il disciplinare su Woodcock?
Il sospetto è che Palamara stia inviando “messaggi” e “pizzini”. Se vuole raccontare tutto quel che sa, se davvero ha delle verità da rivelare, potrebbe spiegare perché, in più di un’occasione – parlando per esempio con il parlamentare del Pd Luca Lotti – lega la parola “ricatto” al procedimento disciplinare su Woodocock: “Cioè Luca… è un ricatto da febbraio duemila… cioè anzi.. da pre-Woodcock… cioè questo è uno dei motivi per cui non ci fanno chiudere Woodcock…”. Qual è il ricatto? E qual è il motivo per cui non gli fanno “chiudere” Woodcock?
Il Fatto ha chiesto a Palamara di spiegare il senso delle sue parole. “Non avrò difficoltà a riferire nelle sedi istituzionalmente competenti il significato della mia conversazione con Giovanni Legnini” risponde Palamara. Palamara dice di essere pronto a spiegare. Vedremo se davvero Palamara si muove per amore di verità o se sta invece inviando messaggi ai naviganti. E vedremo se qualcuno, a livello istituzionale, ha interesse ad ascoltarlo. Intanto, per comprendere il livello della vicenda in questione, ricostruiamo il suo dialogo con Legnini.
“È una cosa che vorrei dì, questa, cioè che il processo Woodcock non è stato fatto per ’sto motivo…” esordisce Palamara. E Legnini lo interrompe: “No, non lo puoi dì”. Ecco: cos’è che Palamara non può dire?
“Lo so” risponde Palamara, “però Giovà, ho capito, non to vo (sembra dire “non ti voglio”, ndr)…”. Legnini lo interrompe ancora: “Dentro pure me”. Perché “pure” Legnini finirebbe “dentro” questa storia? Palamara gli risponde: “No, ma senza mettere in mezzo te, senza mettere in mezzo te, che questa cosa già girava quando (inc.)… e ma io lo devo dì…”.
Legnini – mentre Palamara gli dice di temere che, rivelando questa storia, avrebbe problemi con il Fatto Quotidiano – torna a dargli un consiglio: “Io la vicenda Woodcock non la sfruculerei, mentre invece sulle incertezze investigative, su Scafarto, vicende della Procura cioè, la parte Csm, mo’ non mi riferisco solo, ma io non la toccherei, anche perché noi abbiamo fatto esattamente il nostro dovere, alla fine abbiamo rinviato, e abbiamo fatto bene a farlo, certo per quel motivo, però (…) alla fine era anche una decisione ragionevole quella un (inc.) scadenza ehhh era giusto”.
In quest’ultima frase, non solo Legnini conferma che i due stanno parlando dei rinvii del disciplinare su Woodcock, ma dimostra che – accanto alla “decisione ragionevole” dovuta al Csm in “scadenza” – c’era dell’altro: “abbiamo fatto bene a farlo… certo, per quel motivo”. Di quale motivo sta parlando?
Lungi dal creare problemi con il Fatto Quotidiano, la domanda è stata formulata sia a Palamara, sia a Legnini. Ecco la sua risposta: “Gli sconsigliai – dice Legnini – di parlare con la stampa di presunti complotti riguardanti il procedimento Consip, che era stato condotto in modo del tutto trasparente, come può ricavarsi dai verbali delle numerose udienze. Non ci fu alcun condizionamento né su di me né sugli altri componenti del collegio, che decisero in assoluta autonomia”. E ancora: “Ignoro il presunto ‘ricatto’ di cui si parla in altre intercettazioni. Ripeto: ho presieduto il collegio disciplinare sul caso Woodcock libero da qualunque condizionamento. Il procedimento non si concluse poiché ne fu deciso il rinvio al nuovo Consiglio, deliberato in Camera di consiglio in assoluta libertà e autonomia di tutti i suoi componenti, su richiesta della difesa del magistrato incolpato. Eravamo a settembre 2018, prima della scadenza della consiliatura fissata per il 24 di quel mese, e i nuovi consiglieri erano stati già eletti tra giugno e luglio”.

mercoledì 24 giugno 2020

Sappiamo già tutto. - Marco Travaglio

Csm, l'ex consigliere Palamara indagato per corruzione - ItaliaOggi.it
Arrivano le chat, si salvi chi può! Da quando s’è sparsa la voce (sai che scoop) che Luca Palamara chattava con politici e magistrati anche prima che gli inoculassero il trojan nell’iPhone e ora potrebbe levarsi qualche macigno dalle scarpe, s’è creata una spasmodica quanto ridicola suspense: chissà mai cosa verrà fuori, ce ne sarà per tutti, mamma mia che impressione. Per i cortigiani di Arcore le chat trasformeranno i reati di B. in virtù cardinali e il Caimano in un martire perseguitato: certo, come no. Ma, qualunque cosa esca non sarà mai peggio di ciò che già si sa e si finge di dimenticare: le pagine più nere dell’Anm e del Csm sono state scritte alla luce del sole, anche se nessuno (a parte noi e pochi intimi) ha osato raccontarle. E non le ha scritte Palamara da solo: spesso agiva sotto dettatura del Colle, con Napolitano e pure con Mattarella. Per punire i magistrati scomodi e promuovere quelli comodi, si appoggiava sulle altre correnti (Area o MI o entrambe) e sui laici di tutti i partiti, a partire dai vicepresidenti Mancino, Vietti, Legnini, Ermini (tutti targati Pd).
Non c’è bisogno di chat per sapere che, quando De Magistris osò toccare i santuari politico-affaristico-massonici di Calabria e Basilicata, fu spazzato via prima dai suoi capi e poi dal Csm (tutto) insieme ai pm salernitani Apicella, Nuzzi e Verasani, che stavano scoprendo le sue ragioni, con la benedizione apostolica di Napolitano. Il quale benedisse pure le prime azioni disciplinari contro Woodcock, pm che da Potenza a Napoli rompeva le palle al Pd, a B. (per la corruzione dei senatori) e alla Lega (per i 49 milioni rubati). Quando invece tentarono di fargliela pagare per lo scandalo Consip del Giglio Magico renziano, c’era già Mattarella. Non c’è bisogno di chat neppure per scoprire cosa accadde ad Alfredo Robledo, procuratore aggiunto a Milano, scippato del fascicolo su Expo2015 dal suo capo Edmondo Bruti Liberati contro ogni regola interna: il Csm diede ragione a chi aveva torto e punì e cacciò chi aveva ragione su preciso ordine dello staff di Napolitano, con lettera su carta intestata. Altre tracce scritte e telefoniche lasciò Re Giorgio nella sua guerra senza quartiere ai pm palermitani che indagavano sulla Trattativa, da Ingroia a Di Matteo a Messineo: il Csm, non solo Palamara, obbedì. Secondo voi, perché il Pg di Palermo Roberto Scarpinato, pur essendo il più titolato, non è diventato procuratore nazionale Antimafia? Perché anche lui indaga da vent’anni sulle trattative e i sistemi criminali retrostanti le stragi del 1992-’94. Due anni fa era in pole position, ma gli fu preferito Federico Cafiero De Raho, che invece era il più titolato per la Procura di Napoli.
Ma dovette fare spazio a Gianni Melillo, ex capogabinetto di Orlando, e poi fu “risarcito” con la Dna. Da anni il Csm premia chi ha avuto incarichi politici, come se la vicinanza a partiti e governi fosse un pregio, non un handicap. È appena riaccaduto per Cantone, ex capo Anac per grazia renziana ricevuta, a Perugia. E Palamara non c’era.
Poi c’è il capolavoro sulla Procura di Roma dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone: ben due Csm presieduti da Mattarella e vicepresieduti dagli appositi Legnini ed Ermini, più maggioranze laiche e togate, si sono mobilitati per sbarrare la strada a due magistrati (Marcello Viola e Giuseppe Creazzo, Pg e procuratore di Firenze) che minacciavano discontinuità nel vecchio porto delle nebbie, e per consentire a Pignatone di scegliersi l’erede. Un anno fa, siccome in commissione Viola aveva battuto il pignatoniano Franco Lo Voi (procuratore di Palermo), il Colle profittò delle intercettazioni di Palamara&C. (in cui la voce di Viola non compariva mai) per far rigiocare la partita nel nuovo Csm su una nuova rosa di nomi. Così vinse il pignatoniano Prestipino, contro la cui nomina Viola e Creazzo ora ricorrono al Tar (sono due capi, più titolati e anziani dell’aggiunto Prestipino). Fu il replay di quant’era accaduto nel 2014 per Palermo: lì correvano due procuratori capi (Guido Lo Forte e Sergio Lari) e il solito Lo Voi, che non aveva mai diretto nulla, era più giovane e per giunta era stato nominato da B. a Eurojust. In commissione vinse Lo Forte, ma alla vigilia del Plenum arrivò il diktat di Napolitano, che bloccò la votazione, inventandosi un “criterio cronologico” mai visto prima. Anziché difendere le proprie regole, il Csm si piegò fantozzianamente all’ukase quirinalizio e rinviò il voto fino a scadere. Il nuovo Csm capì l’antifona e premiò il candidato meno meritevole, dipinto come Er Più da una tragicomica relazione della forzista Casellati. Lo Forte e Lari ricorsero al Tar del Lazio, che annullò la nomina di Lo Voi: “illegittima”, “illogica”, “irrazionale”, “apodittica” per “eccesso di potere”. Ma il Consiglio di Stato ribaltò il verdetto con una sentenza-supercazzola che spacciava per un titolo di merito (“le diverse esperienze maturate, anche in ambito internazionale”) l’euroincarico burocratico gentilmente offerto da B. Il presidente era Riccardo Virgilio e l’estensore Nicola Russo, poi indagati per corruzione giudiziaria con l’avvocato-depistatore dell’Eni Piero Amara: lo stesso del caso Palamara. Una storia più nera di qualunque chat che però nessuno, a parte noi, ha mai raccontato. Diceva Leo Longanesi: “Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più”.

domenica 21 giugno 2020

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela.

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela

Il sindacato delle toghe diffonde un comunicato per spiegare perché non ha sentito il suo ex presidente prima di espellerlo: "Semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni". Il leader di Area querela il collega, che ai giornali riferisce di cene con l'onorevole dem Donatella Ferranti per discutere della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini. Il segretario dell'Anm Caputo, tirato in ballo sempre dal pm sotto inchiesta, replica: "Per difendersi attacca, ma con lui mai parlato di nomine".
“Un Giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo Statuto di una associazione. Ancora di più quando ne è stato Presidente”. Nel day after dell’espulsione di Luca Palamara dall’Associazione nazionale magistrati – da lui presieduta tra il 2008 e il 2012 – le polemiche nel mondo delle toghe sono tutt’altro che svanite. Il sindacato dei magistrati, infatti, ha affidato a un comunicato stampa la sua replica per il pm al centro dell’inchiesta che imbarazza il mondo della giustizia. Ma a Palamara non è indirizzata solo la nota ufficiale dell’Anm, ma pure la smentita – si presume a titolo personale – del segretario del sindacato delle toghe, Giuliano Caputo. E poi l’annuncio di querela di Eugenio Albamonte, collega di Palamara alla procura di Roma e come lui ex presidente dell’Anm. Ma andiamo con ordine.
Anm: “Palamara mente” – Già ieri, quando il comitato direttivo centrale aveva respinto all’unanimità la sua richiesta di audizione, Palamara aveva attaccato: “Mi è stato negato il diritto di parola e di difesa, nemmeno nell’Inquisizione”. Poi aveva fatto trapelare alle agenzie di stampa il testo del suo discorso denso di rivendicazioni e avvertimenti. Quindi, in una serie di interviste ad alcuni quotidiani (compreso Il Fatto) rincara la dose: “Non ho agito da solo e non farò, come ho già detto più volte, da capro espiatorio. Questo deve essere estremamente chiaro”, dice il pm indagato dalla procura di Perugia. Ed è tornato nuovamente ad attaccare, che a suo dire non gli avrebbe dato modo di difendersi dalle contestazioni. “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente” e “cerca ora di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti”, replica la giunta dell’Associazione nazionale magistrati. “Il dottor Palamara – si legge nella nota dell’organismo guidato da Luca Poniz – non è stato sentito dal Cdc semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni. Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi Palamara mente: è stato sentito dai probiviri e in tutta la procedura disciplinare non hai mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati. E, come lui, gli altri incolpati. Le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo”.
“Albamonte a cena col Pd”. E lui querela – Molto diverso il dibattito che si è acceso per le dichiarazioni rilasciate da Palamara ai giornali, nei minuti dopo l’espulsione. Il pm è stato chiamato a chiarire cosa intende dire nel suo discorso quando si scaglia contro “quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento”. A chi si riferiva, gli chiede Antonio Massari del Fatto: “A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio”, risponde Palamara. Che poi evoca su quelle cene l’ombra degli accordi per le nomine degli uffici giudiziari: “Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva un rapporto anche tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito”. Segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, storicamente in buoni rapporti con Palamara – che era il leader di Unicost, la corrente moderata e per lungo tempo alleata di Area – Albamonte ha dato mandato al proprio legale per presentare querela nei confronti del collega. Il motivo? Lo ha diffamato – spiega l’avvocato Paolo Galdieri- parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. “Non vediamo cosa ci sia di diffamatorio nelle dichiarazioni del nostro assistito. Sarà comunque un’occasione di chiarimento. Piuttosto ci si dovrebbe seriamente interrogare sul trattamento ricevuto da Palamara, privato di difesa e di come il trojan inoculato non abbia carpito nulla di penalmente rilevante”, controreplicano i legali di Palamara, gli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti.
“Caputo? Ha beneficiato del sistema”. “Tutto falso” – Al quotidiano Repubblica, invece, il pm sotto inchiesta fa il nome del segretario dell’Anm, che come lui fa parte di Unicost: “Se penso a Giuliano Caputo – le parole di Palamara – penso a un beneficiato assoluto di questo meccanismo che si trova lì perché Enrico Infante, anche lui di Unicost, era ritenuto troppo di destra. Questi sono gli errori che hanno fatto fallire un sistema facendo prevalere gli accordi tra correnti”. Caputo, da parte sua, non querela ma smentisce: “Nel disperato tentativo di difendersi attaccando, Palamara inventa una realtà che non corrisponde ai fatti“. Il segretario dell’Anm smentisce di aver discusso con lui di nomine: “Mai ne avevo parlato con lui e la pubblicazione integrale delle chat chiarirà forse anche le sue idee sulla mia nomina.Con un chiaro tentativo mistificatorio accosta le dinamiche associative alle prassi relative alle nomine per posti direttivi e semidirettivi ed al mercato delle nomine di cui è stato assoluto (anche se non unico) protagonista negli ultimi anni. Non ho mai parlato né con lui né con altri di domande presentate da me o da altri magistrati”, dice Caputo. “Raramente – prosegue il segretario dell’Anm – mi sono confrontato con lui, come con altri ex esponenti apicali dell’Anm, su questioni dell’associazione. Era nota la sua aspirazione a diventare procuratore aggiunto a Roma, resa possibile dall’abrogazione di una norma, avvenuta con dinamiche ancora da chiarire, rispetto alla quale l’Anm ha assunto da subito una posizione di ferma condanna. Ignoravo assolutamente i suoi tentativi di condizionare la nomina del procuratore della Repubblica di Perugia che avrebbe dovuto gestire il procedimento a suo carico, che si confrontasse con un parlamentare imputato per la nomina del procuratore di Roma e che pensasse di screditare, per varie ragioni, altri colleghi, circostanze che hanno rappresentato le ragioni della sua espulsione dall’Anm”.

sabato 20 giugno 2020

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”. - Giuseppe Pipitone

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”

C'è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia: il magistrato al centro dell'inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe era considerato l'ambasciatore scelto dal Colle sotto la presidenza di Napolitano per interloquire con l'ufficio inquirente siciliano, trascinato in quei mesi davanti alla Consulta per la vicenda delle intercettazioni di Mancino col capo dello Stato.

Nel 2012, all’apice dello scontro tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo, all’allora procuratore aggiunto del capoluogo siciliano arrivò una proposta: creare un contatto con il Colle per risolvere “questa situazione“. Questa situazione era il conflitto d’attribuzione di poteri sollevato dall’allora presidente della Repubblica nei confronti dell’ufficio inquirente palermitano, che all’epoca aveva appena chiuso le indagini sulla Trattativa Stato-mafia. Un’interlocuzione assolutamente anomala e per la quale il Quirinale aveva individuato un ambasciatore: Luca Palamara. A raccontarlo è chi all’epoca era uno dei magistrati simbolo della procura di Palermo: Nino Di Matteo. C’è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia. Un fatto che diventa assolutamente emblematico se riletto oggi.
Lo scontro tra il Colle e la procura – Da settimane Palazzo San Macuto sta portando avanti un’indagine sulle scarcerazioni di boss mafiosi avvenute durante l’emergenza coronavirus. Ma anche sulla mancata nomina a capo del Dap di Di Matteo da parte del guardasigilli Alfonso Bonafede nel giugno del 2018. È di questo che ha riferito l’ex pm siciliano: cinque ore di audizione in cui più volte è spuntato sullo sfondo il nome di Palamara, la toga simbolo dello scandalo che imbarazza la magistratura. Ma, a sorpresa, il nome dell’ex presidente dell’Anm è venuto fuori anche quando Di Matteo ha riferito alcuni episodi inediti legati all’inchiesta più delicata della sua carriera: quella sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Un processo importante, finito nel 2018 con pesanti condanne, ma cominciato tra la fibrillazione dei più alti livelli dello Stato. Intercettando l’ex ministro Nicola Mancino, infatti, i pm palermitani si imbatterono per quattro volte nella voce dell’allora presidente della Repubblica Napolitano. Intercettazioni che gli inquirenti non reputarono rilevanti ai fini penali ed è per questo che non le trascrissero e non le depositarono mai agli atti dell’inchiesta, chiusa nel giugno del 2012. Il Colle, però, non gradì. E nel mese di luglio dello stesso anno sollevò un conflitto d’attribuzioni: trascinò cioè la procura di Palermo davanti alla Consulta. Alcuni mesi dopo l’Alta corte diede ragione al capo dello Stato, ordinando la distruzione di quei nastri. Prima, però – stando a quanto ricostruito da Di Matteo – tentò la strada della riconciliazione, in modo abbastanza irrituale.
Il racconto di Di Matteo: “Volevano fare una trattativa sulla trattativa” – “Se non ricordo male – ha raccontato l’attuale consigliere del Csm all’Antimafia – a un certo punto nel periodo più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia, che era ancora un magistrato della procura di Palermo e quindi conduceva le indagini con noi, disse a me e all’allora procuratore Messineo che a Roma aveva incontrato un direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo per risolvere questa situazione e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Palamara“. Praticamente, come l’ha definita lo stesso magistrato con una battuta, il Quirinale tentò di fare “una trattativa sulla trattativa“. “Io – ha proseguito Di Matteo – pensavo che Antonio scherzasse, sia io sia Messineo, e Ingroia era d’accordo, abbiamo detto: ma stiamo scherzando, questi vogliono fare una trattativa sulla trattativa, ma questa fu una battuta. Fu una cosa estemporanea, ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara. In quel momento – ha continuato l’ex pm – io non capivo cosa potesse entrarci con le vicende del procedimento sulla Trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale. Questo è un dato di fatto. Non sono mai più tornato con Ingroia su questa cosa, ma ricordo questo riferimento estemporaneo“. Ma chi fu a comunicare a Ingroia delle “richieste di contatto” del Quirinale? “Credo che il direttore cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro, Ingroia potrebbe essere più preciso. Io ricordo che eravamo nella stanza del procuratore, Ingroia tornava da Roma e fece questo riferimento che noi bloccammo subito, anche Ingroia era convinto che andasse bloccato subito, la pensava esattamente come me”. Ex procuratore aggiunto di Palermo e ora avvocato, qualche settimana fa Ingroia ha accennato quella strana proposta durante un’intervista televisiva sul caso nomine nella magistratura: “Palamara – sono le sue parole su La7- era stato indicato dal presidente Napolitano come possibile ambasciatore per cercare di concludere la contrapposizione tra procura di Palermo e Quirinale“.
L’avversione di Palamara per chi indaga sulle stragi – Il periodo al quale fa riferimento Ingroia è da collocarsi alla fine dell’estate del 2012: Palamara stava per terminare il suo mandato da presidente dell’Anm. Nei quattro anni al vertice del sindacato delle toghe non difenderà mai i magistrati di Palermo, finiti sotto attacco proprio mentre indagano sul Patto segreto tra Cosa nostra e pezzi delle Istituzioni. “Quelle – ha ricordato Di Matteo – furono critiche anche feroci ricevute da tutte le fazioni politiche, critiche particolarmente virulente nel momento in cui la vicenda si intrecciò con quella delle conversazioni di Napolitano“. Anni dopo Palamara non perderà la sua avversione per le indagini sui legami occulti dello Stato. È il 6 maggio del 2019 quando il pm oggi sotto inchiesta a Perugia scrive un messaggio su whatsapp all’amico Cesare Sirignano, ex pm della procura nazionale Antimafia e suo collega in Unicost, la corrente moderata delle toghe di cui Palamara era il leader assoluto: “Questo gruppo per indagare sulle stragi tutti ne parlano. Ma c’era bisogno? Ti dico che non è grande mossa”. Sirignano replica: “Luca ma tu non hai capito che Federico rappresenta la nostra forza”. Palamara risponde: “Lo so. Ma non deve sbagliare mosse”. Il gruppo stragi è il pool di magistrati creato alla Dna per coordinare il lavoro della varie procure sulle bombe del 1992 e 1993.
La rimozione dal pool Stragi e la soddisfazione di Palamara – Fino al 26 maggio del 2019 di quel gruppo di pm faceva parte pure Di Matteo: poi Federico Cafiero De Raho (il Federico citato da Sirignano) ha deciso di escluderlo, dopo un’intervista concessa dal pm ad Andrea Purgatori. Secondo il procuratore nazionale antimafia in quell’intervista Di Matteo svela alcuni elementi in quel momento segreti perché ancora al centro dell’indagine sulla strage di Capaci: “Su quel tema si erano tenute ben due riunioni, con la presenza di vari procuratori distrettuali, si parlava di indagini, di interpretazione di alcune dichiarazioni e le dichiarazioni Di Matteo finiscono per toccare proprio quei temi”, ha sostenuto De Raho domenica scorsa, telefonando in diretta alla trasmissione tv di La7 Non è l’Arena. “L’intervista era stata resa prima della riunione, e nella riunione non si era parlato di questo. E poi se avessi raccontato qualcosa di segreto rispetto alle riunioni penso sarebbe stato d’obbligo denunciarmi all’autorità giudiziaria“, ha detto Di Matteo a Palazzo San Macuto. In seguito alla rimozione dal pool stragi, filone d’inchiesta al quale ha dedicato l’intera carriera in magistratura, Di Matteo ha lasciato la procura nazionale antimafia, dopo aver ottenuto l’elezione al Csm da consigliere indipendente. Per chiarire come è andata davvero quella storia c’è una pratica ancora aperta – e top secret – al Csm. Di sicuro c’è solo che il giorno in cui il quotidiano Repubblica scrive prima di tutti della rimozione del pm siciliano, Sirignano informa in diretta Palamara, girandogli il link dell’articolo. Il leader di Unicost risponde: “Grande Federico”. Pochi secondi dopo Sirignano replica con uno laconico: “Noi siamo seri”. Ma noi chi?
La corrente di Palamara in via Arenula – Faceva parte della stessa corrente di Palamara e Sirignano anche Fulvio Baldi, ex capo di gabinetto di Bonafede, che si è dovuto dimettere dopo che ilfattoquotidiano.it ha svelato le intercettazioni telefoniche in cui il leader di Unicost lo chiamava affettuosamente “Fulvietto“. Non solo: Palamara all’amico Baldi chiedeva anche un aiuto per piazzare altri magistrati amici al ministero della giustizia. In via Arenula Baldi era stato nominato da Bonafede il 20 giugno del 2018, cioè lo stesso giorno in cui il guardasigilli, cercando di convincere di Di Matteo a dare la sua disponibilità per essere nominato direttore generale degli Affari Penali, dice :”Dottore Di Matteo, ci pensi bene. Perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono“. “Una frase – ha detto l’ex pm siciliano all’Antimafia – assolutamente precisa le cui parole io non posso equivocare, né allora e né ora. Mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento“. Il 12 maggio scorso il guardasigilli ha detto alla Camera: “Si continuano a cercare possibili condizionamenti evocando, in modo più o meno diretto, i vari livelli istituzionali. Una volta per tutte: non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Punto!”.
I renziani alla corte di Palamara – Di sicuro quei giorni del giugno del 2018 per Bonafede sono molto convulsi: è arrivato al ministero da due settimane quando – è lunedì 18 giugno – telefona a Di Matteo e gli propone di scegliere tra due incarichi, o il vertice del Dap o gli Affari Penali. Il giorno successivo, prima di ricevere la risposta del magistrato siciliano, sceglie come vertice delle carceri Francesco Basentini, pure lui di Unicost come Baldi e Palamara, pure lui un ex visto che si è dimesso nei primi giorni di maggio dopo le polemiche per le scarcerazioni dei boss. A lavorare col guardasigilli – come vicecapo di gabinetto – c’è anche Leonardo Pucci, già compagno di studi a Firenze di Bonafede, assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce, oltre a Basentini, anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Spina partecipava agli incontri notturni in cui si discuteva del futuro procuratore di Roma. Incontri ai quali – oltre ad alcuni consiglieri del Csm – partecipavano anche due deputati: il magistrato “prestato” alla politica Cosimo Ferri e l’ex sottosegretario Luca Lotti, che della procura di Roma era – ed è – un imputato dell’inchiesta Consip. Entrambi sono renziani di vecchissima data: con l’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, Lotti è stato sottosegretario alla presidenza del consiglio, Ferri invece sottosegretario alla giustizia. Il primo è ancora oggi nel Pd, il secondo, invece, ha seguito Renzi in Italia viva.
Il “pensiero affettuoso” di Renzi per Napolitano – Sarà un caso ma è proprio Matteo Renzi la prima persona che lega il nome di Giorgio Napolitano allo scontro tra Bonafede e Di Matteo. Lo fa, in modo apparentemente inspiegabiledurante il suo intervento in Senato nel giorno della bocciatura della mozione di sfiducia al ministro della giustizia: “Visto che in tanti avete citato Di Matteo, cui va il nostro rispetto e l’augurio di buon lavoro, permettetemi – per aver vissuto una certa pagina di questo Paese – di esprimere un pensiero affettuoso al presidente emerito Giorgio Napolitano. Lui sa perché, voi sapete perché”. Già, perché? Il giorno dopo il leghista Gianluca Cantalamessa lo ha chiesto al guardasigilli. Che ha risposto: “Escludo qualsiasi tipo di pressione, immaginiamo quella dell’ex presidente Napolitano“. Il presidente dell’Antimafia Morra, ora, lo ha chiesto a Di Matteo: “Non posso sapere – ha risposto – perché in quel momento il senatore Renzi abbia sentito la necessità o l’opportunità di ringraziare il presidente Napolitano, non lo dovete chiedere a me”.