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martedì 12 aprile 2022

Gas, Italia e Algeria firmano l’intesa per aumentare le forniture di gas. Fino a nove miliardi di metri cubi in più all’anno. -

 

"Avevo annunciato che l’Italia si sarebbe mossa con rapidità per ridurre la dipendenza dal gas russo. Gli accordi di oggi sono una risposta significativa a questo obiettivo strategico, ne seguiranno altre", ha spiegato il presidente del Consiglio. L'intesa aiuta ma non è risolutiva. Il Paese oggi è il secondo fornitore dell'Italia con circa 21 miliardi di metri cubi di gas l'anno.

La missione di Mario Draghi e Luigi Di Maio ad Algeri finisce con la firma di una “dichiarazione d’intenti sulla cooperazione bilaterale nel settore dell’energia” ma soprattutto, ed è quel che più conta, di un accordo tra Eni e la compagnia statale algerina Sonatrach per aumentare le esportazioni di gas verso l’Italia. Il Paese, che oggi è il secondo fornitore dell’Italia dietro la Russia con circa 21 miliardi di metri cubi venduti ogni anno, ne fornirà “gradualmente” attraverso il gasdotto TransMed che approda a Mazara del Vallo una quantità maggiore, fino ad arrivare a 9 miliardi in più nel 2023-24. L’obiettivo del viaggio del premier e del ministro degli Esteri era liberarsi, il più rapidamente possibile, dal gas di Mosca smettendo così di finanziare indirettamente l’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin. E mettere in sicurezza le forniture, per non trovarsi spiazzati – e costretti a razionamenti – il prossimo inverno. L’intesa da questo punto di vista aiuta ma non è risolutiva, visto che l’incremento non sarà immediato.

“Aumentare le forniture richiede tempo”, aveva spiegato a Ilfattoquotidiano.it Nicola Pedde, direttore di Institute for Global Studies, lo scorso 24 marzo sottolineando che realisticamente Algeri potrebbe aumentare il gas inviato in Italia di 2-3 miliardi di metri cubi nel giro di poco tempo e di altri 4-5 miliardi nel giro di 5 anni. In ogni caso non una soluzione miracolosa non immediata né sufficiente per colmare un’ipotetica interruzione dei flussi russi. Il viaggio ad Algeri è comunque il primo di una serie nell’agenda del premier delle prossime settimane, per accelerare al massimo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento: dopo Pasqua potrebbe essere la volta del Congo, seguito da Angola e Mozambico. Paesi con cui l’Italia intende “rafforzare la cooperazione energetica” come ha ribadito Di Maio, che ha già fatto tappa anche in Qatar e Azerbaijan per preparare il terreno di nuove intese. “Subito dopo l’invasione dell’Ucraina, avevo annunciato che l’Italia si sarebbe mossa con rapidità per ridurre la dipendenza dal gas russo. Gli accordi di oggi sono una risposta significativa a questo obiettivo strategico, ne seguiranno altre“, ha commentato non a caso il presidente del Consiglio aggiungendo che “il governo vuole difendere i cittadini e le imprese dalle conseguenze del conflitto“.

Presentando il piano strategico di Eni, l’ad Claudio Descalzi aveva calcolato in 9-11 miliardi di metri cubi le forniture aggiuntive che potrebbero arrivare da Algeria e Libia già entro il prossimo inverno. In media, come ha ricordato più volte il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani – in delegazione ad Algeri con il premier e Di Maio – importiamo dalla Russia circa 29 miliardi di metri cubi di gas che potrebbero essere ridotti velocemente di circa un terzo grazie alla collaborazione tra Eni e l’algerina Sonatrach. L’intesa tra le due società passerà anche per investimenti nelle infrastrutture, per potenziare l’estrazione nei giacimenti attivi e per accelerare lo sviluppo dei nuovi progetti, come quello annunciato a marzo nell’area Berkine Sud per olio e gas.

Va inoltre considerato che, al di là delle pressioni di Mosca sull’Algeria, l’intesa – come aveva spiegato Pedde – è appesa anche alla “instabilità interna” del Paese. “C’è una grave frattura tra la classe dirigente, ancora espressione di quella andata al potere nel 1962 e il resto della società che rischia di rendere molto inverta la situazione dei prossimi anni – afferma il direttore dell’Institute for Global Studies – I paesi Ue, che nel Mediterraneo pianificano molto ma fanno poco in concreto, dovrebbero intervenire per puntellare economicamente questi Paesi e cercare di stabilizzarli. In questo momento, un’altra crisi non saremmo davvero in grado di gestirla.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/04/11/gas-italia-e-algeria-firmano-lintesa-per-aumentare-le-forniture-di-gas-fino-a-nove-miliardi-di-metri-cubi-in-piu-allanno/6555826/

sabato 19 febbraio 2022

Il governo cerca i soldi per contenere gli aumenti di luce e gas. E intanto il gruppo Eni, controllato al 30% dallo Stato, quintuplica i profitti.

Il governo cerca i soldi per contenere gli aumenti di luce e gas. E intanto il gruppo Eni, controllato al 30% dallo Stato, quintuplica i profitti

L'utile netto del cane a sei zampe sale a 4,7 miliardi di euro, il più elevato dal 2012 grazie alle quotazioni del gas sul mercato. Ieri risultati record anche per il secondo operatore in Italia Edison, controllato dalla francese Edf. Nel decreto sarebbe previsto l'azzeramento degli oneri di sistema sull'elettricità sia per le famiglie che per le Pmi e le imprese più grandi per 3 miliardi, riduzione dell’Iva sul gas al 5% per circa 590 milioni, riduzione degli oneri sul gas per 480 milioni, rafforzamento del bonus sociale per 500 milioni, credito di imposta per le imprese energivore per 700 milioni e per le imprese gasivore per circa 500 milioni. Sono gli interventi sulle bollette contenuti nel dl all’esame del consiglio dei ministri per un totale di 5,8 miliardi.

Mentre il governo vara il decreto da 5,8 miliardi di euro per calmierare i costi di luce e gas, il gruppo Eni (controllato al 30% dal Tesoro) ha comunicato i risultati preliminari di bilancio del 2021 che si è chiuso con gli utili più alti dal 2012 (4,7 miliardi) e un Ebit adjusted quintuplicato a 9,7 miliardi di euro. A spingere i guadagni è la corsa dei prezzi del gas, sestuplicati rispetto al periodo pre-Covid. Ieri aveva diffuso dati record anche Edison, secondo operatore in Italia, controllato dalla francese Edf. I ricavi sono quasi triplicati a 11,7 miliardi di euro mentre l’utile sfiora il miliardo con un incremento del 45% rispetto al 2020.

Eni verrebbe coinvolta nel piano per raddoppiare la quantità di gas estratto dai giacimenti italiani che il governo vorrebbe alzare da 3 a 6 miliardi di metri cubi (su un consumo nazionale di oltre 70 miliardi di metri cubi l’anno) per poi rivendere il prodotto a prezzi calmierati alle aziende energivore. Per Eni si tratterebbe di incassi aggiuntivi per 1,5 miliardi di euro se il gas fosse venduto a prezzi di mercato (circa 50 centesimi al metro cubo). Se venisse calmierato a 20 centesimi, i ricavi supplementari sarebbero di circa 600 milioni di euro. Parlando con le aziende italiani alcune settimane fa il presidente russo Vladimir Putin ha ricordato come le aziende energetiche italiane stiano facendo grandi profitti grazie agli accordi siglati con la Russia, principale fornitore di gas dell’Europa e che ogni anno manda in Italia attraverso il Tarvisio circa 30 miliardi di metri cubi. Parte di questo flussi sarebbero state poi rivendute sui mercati internazionali lucrando sulla differenza di prezzo. “Siamo aperti e pronti a investire sul fronte del gas in Italia”, ha detto l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi rispondendo ad un analista in conference call dopo la diffusione dei dati. “Siamo aperti al dialogo e in caso a sviluppare nuove risorse, abbiamo capacità di aumentare la produzione” ha affermato.

Nel decreto varato nel pomeriggio è previsto l’azzeramento degli oneri di sistema sull’elettricità sia per le famiglie che per le Pmi e le imprese più grandi per 3 miliardi, riduzione dell’Iva sul gas al 5% per circa 590 milioni, riduzione degli oneri sul gas per 480 milioni, rafforzamento del bonus sociale per 500 milioni, credito di imposta per le imprese energivore per 700 milioni e per le imprese gasivore per circa 500 milioni.

Il decreto contiene anche lo stanziamento di fondi ai comuni per coprire gli extra-costi per le bollette. E risorse ad hoc per gli impianti sportivi e le piscine in particolare, tra le più colpite dal mix tra restrizioni Covid e caro-bollette. Si starebbero ancora facendo i calcoli definitivi per indicare le risorse, che per lo sport, istanza portata al tavolo dal ministro Giancarlo Giorgetti, potrebbero aggirarsi attorno ai 100 milioni. Arrivano poi altri 400 milioni di euro per le spese Covid delle Regioni per far fronte alla quarta ondata e per l’aumento della bolletta energetica per le strutture sanitarie.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/02/18/il-governo-cerca-i-soldi-per-contenere-gli-aumenti-di-luci-e-gas-e-intanto-il-gruppo-eni-controllato-al-30-dallo-stato-quintuplica-i-profitti/6498537/?fbclid=IwAR3JJo8tEUmRS4xNUqihwuasReZu7XCeLILbFTuEqxrpDYA6nMpPeYUhnds#

giovedì 4 marzo 2021

Uomini Eni alla Farnesina: l’accordo segreto del 2008. - Stefano Vergine

 

Esclusivo. Dai tempi di B. e Putin, 11 anni fa, il gruppo può dislocare dirigenti al ministero e viceversa. Così è parte della nostra diplomazia.

C’è un accordo riservato che mette nero su bianco il segreto di pulcinella della politica estera italiana. È un protocollo d’intesa stipulato tra il ministero degli Esteri ed Eni nel 2008, finora mai pubblicato. Spiega in concreto perché il colosso petrolifero di San Donato, controllato dal Tesoro, non è una società privata come tutte le altre. L’accordo concede infatti a Eni un privilegio particolare: stanziare un proprio “funzionario” presso il ministero degli Esteri per un periodo di due anni rinnovabile all’infinito e, reciprocamente, avere nei propri uffici un “funzionario diplomatico” della Farnesina. Insomma Eni e governo italiano si scambiano pedine, così da “rafforzare il raccordo tra l’azienda e il ministero degli Affari Esteri”, dice l’accordo. In più, il gruppo privato e la Farnesina si sono impegnati a scambiarsi informazioni “sulla realtà economica, istituzionale e sociale dei Paesi oggetto di interesse”.

Lo rivela un rapporto intitolato “Tutti gli uomini del ministero” firmato da Re:Common, associazione italiana che da anni monitora l’attività di Eni nel mondo e ha, tra le altre cose, dato il via con le proprie denunce alle inchieste condotte dalla Procura di Milano per casi di sospetta corruzione in Nigeria e Repubblica del Congo. “In veste di principale compagnia energetica italiana, Eni gode di un peso rilevante sulla politica estera del nostro Paese. La protezione degli asset petroliferi del Cane a sei zampe ha motivato persino alcune delle missioni militari in cui è tuttora impegnato l’esercito italiano”, scrive Re:Common nell’introduzione del suo rapporto. Che il confine tra Eni e lo Stato italiano sia sempre stato sottile non è un segreto. “L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti”, disse in tv nel 2014 Matteo Renzi, appena eletto presidente del Consiglio, scatenando le proteste dell’opposizione. La frase di Renzi “potrebbe essere usata da qualunque concorrente, all’estero, per bloccare contratti o gare”, commentò ad esempio Guido Crosetto, coordinatore di Fratelli d’Italia. Ma non è solo una questione commerciale. Prendiamo il caso di Giulio Regeni. Che peso ha avuto finora Eni, che in Egitto ha enormi interessi economici, nella decisione del governo italiano di non rompere i rapporti con il regime di al-Sisi? È uno dei tanti temi toccati dal rapporto di Re:Common, così come quello delle negoziazioni sul clima. “Quello in corso sarà un anno fondamentale per la politica energetica italiana”, scrive l’associazione, “e il nostro Paese avrà la co-presidenza della prossima COP 26 e quella del G20. Un tema centrale sarà proprio quello dei finanziamenti pubblici in nuovi progetti fossili. Viene da chiedersi però quali siano le possibilità concrete che l’esecutivo smetta di finanziare i devastanti progetti di Eni, fintanto che la compagnia godrà di una posizione privilegiata all’interno della stessa cabina di regia incaricata di coordinare la posizione dell’Italia nell’ambito di questi negoziati”. L’associazione ha scoperto quali sono i dipendenti Eni distaccati alla Farnesina. E due di questi avrebbero partecipato alle riunioni del ministero svoltesi in vista delle negoziazioni internazionali sul clima. Si tratta di Alfredo Tombolini, distaccato alla Farnesina dal 2016 al 2019, e di Sandro Furlan, oggi ancora in carica. Secondo Re:Common, i due manager hanno partecipato ad almeno tre riunioni delle cabine di regia su “Energia” e “Ambiente e Clima” tenutesi tra il dicembre del 2019 e la scorsa estate. Il problema, secondo l’associazione, è che così facendo la politica italiana rischia di essere troppo influenzata da Eni.

Il protocollo d’intesa tra l’azienda e il ministero dura ormai da 13 anni. È stato firmato nel settembre del 2008, quando a capo del governo c’era Silvio Berlusconi e sulla poltrona di amministratore delegato di Eni sedeva Paolo Scaroni. Due anni prima l’azienda aveva firmato con la russa Gazprom un contratto di fornitura di gas con scadenza 2035. “Visto il lungo radicamento della società in Russia e gli ottimi rapporti di cui gode con il Cremlino, Berlusconi vide in Eni un asset formidabile per la sua politica estera, tanto da permettere alla compagnia petrolifera di insediare i propri funzionari all’interno della Farnesina”, scrive Re:Common. Di sicuro il primo manager Eni distaccato al ministero degli Esteri è stato Giuseppe Ceccarini, fino ad allora responsabile delle relazioni istituzionali con la Russia per il Cane a sei zampe.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/03/04/uomini-eni-alla-farnesina-laccordo-segreto-del-2008/6121370/

mercoledì 20 gennaio 2021

Antitrust: multa da 12,5 milioni per Eni, Enel e Sen.

 

Per fatture dopo mancata lettura dei contatori.

L'Autorità Antitrust ha irrogato una sanzione di 12,5 milioni di euro ad Enel Energia, Servizio Elettrico Nazionale (SEN) ed Eni gas e luce, dopo aver "accertato l'ingiustificato rigetto delle istanze di prescrizione biennale presentate dagli utenti, a causa della tardiva fatturazione dei consumi di luce e gas, in assenza di elementi idonei a dimostrare che il ritardo fosse dovuto alla responsabilità dei consumatori". Le società addebitavano agli utenti la responsabilità della mancata lettura dei contatori a fronte dei tentativi di lettura dichiarati dal distributore; ma i tentativi non erano documentati o addirittura smentiti.

"Con riferimento al procedimento AGCM in materia di prescrizione biennale delle fatture emesse per i consumi di energia elettrica e gas, le società del Gruppo Enel precisano di aver sempre agito nel pieno rispetto della normativa primaria e regolatoria di riferimento, riconoscendo il diritto dei consumatori ad ottenere la prescrizione delle fatture".

E' la risposta di Enel alla multa irrogata dall'Antitrust.

Le Società "si riservano sin d'ora ogni azione a propria tutela, confidando di poter dimostrare la piena legittimità e correttezza del proprio operato nelle successive fasi di giudizio".

https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2021/01/20/antitrust-multa-da-125-milioni-per-eni-enel-e-sen_0137e88e-1b42-4247-9d90-87e15863c3dd.html

sabato 10 ottobre 2020

E l’Eni fa causa alla Nigeria: “Rivogliamo i nostri pozzi”. - Gianni Barbacetto

 

L’accusa dei pm: l’affare in Africa grazie a tangenti.

Mentre a Milano va verso la conclusione il processo per corruzione internazionale a Eni e ai suoi manager, accusati di aver pagato una supertangente in Nigeria, altre vertenze sul contenzioso nigeriano si accendono in giro per il mondo, a Washington e nel Delaware. Il 3 settembre si è chiusa la causa promossa dallo Stato nigeriano presso la Corte di Giustizia di Londra, che si è detta non competente per motivi di giurisdizione. Ora la compagnia petrolifera italiana ha avviato a Washington un arbitrato contro la Nigeria presso l’Icsid (International Centre for the Settlement of the Investment Disputes), l’organizzazione della Banca mondiale che giudica sulle contese contrattuali internazionali. Il 14 settembre, Eni ha chiesto all’Icsid di valutare il comportamento della Nigeria, che sulla base di accuse di corruzione che Eni ritiene infondate, non ha rispettato il contratto firmato nel 2011 che concedeva a Eni (e alla sua alleata Shell) il diritto di esplorazione sul gigantesco campo petrolifero denominato Opl 245. La Nigeria non ha mai revocato a Eni e Shell la licenza d’esplorazione petrolifera, non l’ha però mai trasformata in licenza estrattiva, bloccando dal 2011 a oggi l’investimento delle due compagnie.

Eni e Shell avevano ottenuto la licenza pagando su un conto a Londra del governo africano 1 miliardo e 92 milioni di dollari, poi subito girati a Malabu, una società riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete, e infine dispersi in una serie di conti di politici, faccendieri, ministri ed ex ministri nigeriani e di alcuni mediatori internazionali. Una gigantesca corruzione internazionale, secondo la Procura di Milano, un caso di tangente che non è, come di solito, una percentuale dell’affare realizzato, ma addirittura l’intero importo dell’affare. Un normale contratto, secondo Eni, che ripete di aver versato i soldi su un regolare conto del governo, di non essere responsabile di quello che è successo dopo il suo bonifico e di voler tornare quindi in possesso del giacimento, che ritiene di aver regolarmente pagato, prima che la licenza scada, nel maggio 2021.

L’ipotesi dell’accusa formulata dai pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro è però condivisa dagli attuali governanti nigeriani, che accusano di corruzione i loro predecessori, rifiutano di dare a Eni e Shell il giacimento e anzi chiedono di tornare in possesso di quel miliardo di dollari che ritengono strappato al popolo della Nigeria.

A pronunciarsi sulle accuse penali sarà, tra qualche mese, il Tribunale di Milano. Intanto però a Washington è al lavoro anche l’Icsid, che dovrà valutare gli argomenti contrattuali presentati contro lo Stato della Nigeria, per conto di Eni, da due studi legali, Three Crowns di Londra e Aluko & Oyebode di Lagos. “Si tratta di un atto dovuto a tutela dei nostri investimenti e nei confronti dei nostri investitori”, dichiara Eni, “ma confidiamo che si possa comunque arrivare a una soluzione soddisfacente per entrambe le parti”.

Al lavoro anche il Tribunale distrettuale del Delaware, negli Usa, dove Eni ha chiamato in causa la Drumcliffe Partners Llc, una società americana di gestione degli investimenti che si è impegnata a finanziare le azioni legali della Nigeria, in cambio di una percentuale su quanto riuscirà a recuperare. Drumcliffe sostiene di gestire un portafoglio mondiale di richieste di risarcimenti per un valore complessivo di 14 miliardi di dollari che riguardano frodi commerciali, insolvenze, recupero crediti. Nel caso della Nigeria, Drumcliffe ha garantito finanziamenti per 2,75 milioni di dollari da impegnare nelle azioni legali del Paese africano in giro per il mondo, con l’obiettivo di recuperare la cifra di oltre 1 miliardo di dollari che la Nigeria potrebbe ottenere come risarcimento da Eni e Shell .

La vicenda nasce nel 2016, quando il procuratore generale e ministro della Giustizia della Nigeria, Abubakar Malami, dà mandato allo studio legale nigeriano Johnson & Johnson di recuperare i fondi di Opl 245 acquisiti illecitamente, secondo il governo, dalla società Malabu controllata dall’ex ministro Etete. In cambio di un compenso del 5 per cento sulle somme recuperate. Nel 2018, lo studio Johnson & Johnson stipula un accordo con una società del Delaware collegata a Drumcliffe, Poplar Falls Llc, riconoscendole un compenso del 35 per cento sui fondi che riuscirà a recuperare. Sul miliardo ipotizzato, sarebbero tra i 300 e i 400 milioni di dollari. Una “commissione” abnorme, secondo Eni, che chiede al tribunale del Delaware di fare chiarezza. Secondo un report commissionato dalla compagnia petrolifera, il fondatore di Drumcliffe, James “Jim” Christian Little, nel suo profilo Linkedin conferma di aver lavorato per una azienda, la Sra International, che ha fornito servizi tecnologici alle agenzie d’intelligence Usa; un suo collaboratore, Christopher Camponovo, ha lavorato per il Dipartimento di Stato americano e per il National Security Council Usa.

(foto ilFQ)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/10/e-leni-fa-causa-alla-nigeria-rivogliamo-i-nostri-pozzi/5961226/

mercoledì 22 luglio 2020

“Maxitangente per l’affare Eni in Nigeria”. Chiesti otto anni per Scaroni e Descalzi. - Gianni Barbacetto

“Maxitangente per l’affare Eni in Nigeria”. Chiesti otto anni per Scaroni e Descalzi

Richieste pesanti, anni di carcere e rimborsi miliardari. Dopo due intere giornate di requisitoria, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno formulato le richieste di pena per gli imputati del processo Eni-Nigeria, accusati a Milano di corruzione internazionale. Ben 8 anni per l’appena riconfermato amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e per il suo predecessore Paolo Scaroni; 6 anni e 8 mesi per l’intermediario Luigi Bisignani e per due manager Eni, Vincenzo Armanna e Ciro Pagano; 7 anni e 4 mesi per il braccio destro di Descalzi, Roberto Casula. Addirittura 10 anni per l’ex ministro del petrolio nigeriano, Dan Etete.
È la vicenda della concessione dei diritti d’esplorazione del blocco petrolifero Opl 245, il più grande giacimento della Nigeria, assegnata nel 2011 a Eni e Shell in cambio del pagamento di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, versati dalla compagnia petrolifera italiana su un conto a Londra del governo africano, ma poi subito girati a Malabu, una società riferibile all’ex ministro Etete, e infine dispersi in una serie di conti di politici, faccendieri, ministri ed ex ministri nigeriani e di alcuni mediatori internazionali, come Bisignani, Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev (per gli ultimi due sono stati richiesti 6 anni di reclusione).
Pesanti le richieste in denaro: 900 mila euro ciascuna a Eni e Shell come sanzione, più la confisca di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, pari all’intera cifra pagata dalle compagnie per ottenere Opl 245: secondo l’accusa, è una gigantesca tangente, sottratta allo Stato africano e spartita tra politici nigeriani, intermediari e “consulenti”, con qualche “retrocessione” anche a manager Eni. Un caso in cui la mazzetta non è una percentuale, ma l’intera somma dell’affare trattato. Pesanti le richieste di pena (da 6 anni e 8 mesi a 7 anni e 4 mesi) anche per i quattro manager Shell coinvolti nella vicenda e imputati nel processo milanese, che però – a differenza di quelli Eni – sono già tutti usciti dalla compagnia petrolifera anglo-olandese.
A settembre, toccherà agli avvocati di parte civile, che rappresentano lo Stato nigeriano e chiederanno i danni subiti nell’affare, e infine ai difensori dei tredici imputati e delle due compagnie. Eni ha sempre negato le responsabilità proprie e dei propri manager, definendo “inconsistenti” gli argomenti dell’accusa e “prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna”. La compagnia sostiene di aver regolarmente pagato i pattuiti 1,092 miliardi di dollari su un conto del governo nigeriano: “Eni non conosceva, né era tenuta a conoscere l’eventuale destinazione dei fondi successivamente versati a Malabu dal governo nigeriano”.

domenica 3 maggio 2020

Olanda, da Fca a Ferrero e Mediaset ecco i gruppi italiani con sede ad Amsterdam. E la Ue vieta di escluderli dagli aiuti pubblici. - Mauro Del Corno

Olanda, da Fca a Ferrero e Mediaset ecco i gruppi italiani con sede ad Amsterdam. E la Ue vieta di escluderli dagli aiuti pubblici

Nel paese dei tulipani anche Eni, Enel, Luxottica, Illy, Telecom Italia, Prysmian e la Cementir. Il Paese formalmente non ha aliquote bassissime ma sono ridotti o inesistenti i prelievi su dividendi, guadagni da cessioni di partecipazioni, royalties. Francia, Danimarca e Polonia hanno deciso di escludere da contributi statali le società con sedi in paradisi fiscali. Per Bruxelles questa distinzione è contraria ai principi della libera circolazione dei capitali.
I gruppi italiani che hanno sede o filiali nei Paesi Bassi sono tanti. Fca e Ferrari hanno qui la loro sede legale, la Exor della famiglia Agnelli quella fiscale. Sede legale ad Amsterdam anche per Mediaset, ma ad aver creato holding qui sono pure alcune delle più importanti partecipate italiane: EniEnel e Saipem. In viaggio verso il paese dei tulipani anche Campari che sta per trasferire qui la sua sede. E poi Luxottica, qui dal 1999, FerreroIllyTelecom Italia, Prysmian e la Cementir di Caltagirone. La banche tendono invece a preferire i regimi fiscali di Irlanda e Lussemburgo. Uno dei grimaldelli impiegati negli ultimi anni per recuperare una piccola parte dei proventi fiscali sottratti in questo modo agli altri Paesi è stato contestare gli aiuti pubblici, proibiti da Bruxelles quando ledono la concorrenza. Ma la Commissione proprio in questi giorni ha sancito che – in nome della libera circolazione dei capitali – i piani di salvataggio pubblico adottati a causa dell’emergenza Covid non possono escludere chi ha la sede in un altro Stato.
Zone grigie e paradisi non dichiarati – Non è corretto fare processi alle intenzioni. Avere una sede in Olanda non significa automaticamente adottare comportamenti fiscalmente discutibili. Può trattarsi di trasparente e legittima ottimizzazione fiscale e scelte di corporate governance. Ma le zone grigie sono molte e trincerarsi dietro lo scudo arancione è facile. L’Olanda, ad esempio, non fa parte della lista dei paradisi fiscali stilata dall’Unione europea. Esclusione dettata da ragioni politiche. In materia di fisco l’Ue richiede l’unanimità dei voti (quindi compresi quelli di Olanda e Lussemburgo) per apportare modifiche. Le grandi aziende europee che approfittano dei vantaggi del fisco arancione fanno pressione sui loro governi per fare in modo che nulla cambi. Anche l’Ocse dispone di dati che sarebbero preziosi per aumentare la trasparenza sulle pratiche fiscali del paese, però non li rende pubblici a causa di veti di paesi membri. Così si va per deduzioni e per vie indirette.
Addio a 72 miliardi di profitti che finiscono in Olanda – L’Olanda è un buco nero che, ogni anno, risucchia dai paesi membri fino a 72 miliardi di euro di profitti aziendali. Una montagna di denaro che ricompare, molto rimpicciolita, ad Amsterdam. Quasi 10 miliardi di euro finiscono al fisco olandese, il resto rimane nelle casse delle multinazionali. Le stime sono dell’economista Gabriel Zucman, tra i più esperti e attenti osservatori del fenomeno a livello globale. Dalla sola Italia spariscono ogni anno profitti per quasi 30 miliardi di euro e di questi più di 3 miliardi finiscono in Olanda che in questo modo sottrae quasi un miliardo di euro all’anno al fisco italiano. Per contro quasi il 40% del gettito da tassazione sui profitti di impresa del paese dei tulipani deriva da questo scippo.
Ma perché l’Olanda è un forziere particolarmente difficile da scardinare? Formalmente le sue aliquote fiscali non sono particolarmente diverse da quelle di molti altri paesi europei. I prelievi sono però estremamente ridotti o inesistenti se si parla di dividendi, guadagni da cessioni di partecipazioniinteressi incassati da prestiti infra gruppo, royalties e quant’altro. Così le multinazionali stabiliscono qui le loro holding (società che hanno in pancia le partecipazioni chiave di un’impresa) e costruiscono strutture di gruppo artificiose per far affluire denaro sotto queste forme. Non solo.
Consulente Oxfam: “Accordi fiscali riservati permettono di ridurre la tassazione” – “Destano preoccupazione gli accordi fiscali riservati che i Paesi Bassi, come anche altri Paesi Ue, hanno siglato e continuano a siglare con le imprese multinazionali che verosimilmente permettono di ridurre in modo consistente il livello effettivo di tassazione delle corporation”, spiega Misha Maslennikov, consulente di Oxfam Italia in tema di fisco. “L’Olanda”, continua Maslennikov, “ha inoltre in essere un ampio network di convenzioni fiscali con altri Paesi che hanno natura particolarmente restrittiva, permettendo un abbattimento significativo delle aliquote sulle ritenute alla fonte per diverse fattispecie di reddito d’impresa che fluiscono verso Amsterdam”.
L’incredibile produttività di lussemburghesi, svizzeri e olandesi – Non è un caso se nella classifica globale dell’associazione Tax Justice Network, che denuncia e combatte pratiche fiscali scorrette, i Paesi Bassi vengano solo dopo Isole VerginiBermuda e Isole Cayman quanto a opacità delle pratiche fiscali. Una delle tecniche utilizzate è quella di valutare la discrepanza tra le risorse che una società possiede in un determinato paese (dipendenti, uffici) e gli utili che qui realizza. Incrociando questi dati si scopre che ogni singolo, e a quanto pare fenomenale, dipendente lussemburghese genera profitti per oltre 8 milioni di euro. Uno svizzero 760mila, in Olanda 530mila. La media di tutti gli altri paesi europei è di 60mila euro per dipendente, con Italia e Germania allineate intorno ai 42mila e Francia a 33mila.
Il grimaldello degli aiuti pubblici… – Uno dei grimaldelli impiegati in questi anni per recuperare una piccola parte del maltolto è stato quello degli aiuti pubblici, proibiti da Bruxelles quando ledono la concorrenza. Accordi tra azienda ed erario che abbassino sotto certi limiti il livello del prelievo sono stati equiparati ad indebite agevolazioni. Un alcuni casi si è arrivati a condanna nonostante l’opposizione, scontata, dei gruppi coinvolti ma anche dei soliti LussemburgoIrlanda e Olanda che si battono in aula per rafforzare la loro immagine di cani da guardia degli utili di azienda.
…e lo stop della Commissione: “No all’esclusione in base a dove è la sede” – In questa fase drammatica per il futuro economico dell’Europa i governi avrebbero avuto un’arma in più. Se la Commissione Ue non si fosse messa di mezzo. FranciaDanimarca e Polonia hanno infatti deciso di escludere dall’erogazione di aiuti pubblici le società con sedi in paradisi fiscali. Bruxelles, che predica bene ma razzola molto male, ha però puntualizzato che questa distinzione è contraria ai principi della libera circolazione dei capitali a sci sono improntati i trattati europei. Davvero un peccato anche perché sarebbe giusto che i contribuenti che pagano gli aiuti sapessero a chi stanno dando i loro soldi, come sottolinea Maslennikov. “Sarebbe opportuno che anche il nostro Parlamento emendasse in fase di conversione il DL Liquidità inserendo l’obbligo per le società italiane che fanno parte di grandi gruppi multinazionali e richiedono garanzie statali su nuovi finanziamenti di rendere pubbliche le proprie rendicontazioni paese per paese”, ragiona l’esperto di Oxfam Italia. “Volete il nostro supporto? Ben venga, ma vi chiediamo di permettere a cittadini e parlamentari un maggior scrutinio sulla vostra strutturazione societaria globale e sul livello di contribuzione fiscale in ciascun Paese in cui operate” conclude.