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mercoledì 28 ottobre 2020

Veneto, il contagio sono i clan. - Filippomaria Pontani

 

Il mito produttivo - Anche in pieno lockdown le imprese sono riuscite a moltiplicarsi. E con esse il dominio della criminalità. Dall’edilizia alla ristorazione, dai rifiuti alle vongole. Nel placido regno del doge Zaia.

Il Veneto che produce, e non si ferma. Nel pieno del lockdown, tra marzo e maggio, su 2700 imprese nate in Veneto oltre un terzo aveva ai vertici persone con precedenti per usura, riciclaggio, frode fiscale o mafia.

Pochi mesi prima, il procuratore Bruno Cherchi aveva dichiarato che “esiste un sistema omertoso ormai diffuso nel mondo imprenditoriale veneto”, e che “il Veneto è un luogo di investimento dei proventi delle attività criminose”. Di “piena infiltrazione” per il Friuli-Venezia Giulia parlava nel 2019 il procuratore di Trieste Carlo Mastelloni. Sabato scorso sono stati messi i sigilli a diverse grosse aziende di logistica e di lavorazione del porfido nella valle dell’Adige, sospettate di inquinamento mafioso. Ma l’estate è stata anche più traumatica: il 3 giugno a Verona – provincia dove sin dal 2019 era acclarata la perniciosa presenza del clan Multari – l’operazione “Isola Scaligera” ha portato in manette l’ex presidente dell’azienda dei rifiuti, e indagato l’ex sindaco Flavio Tosi e altre decine di persone (15 i milioni confiscati) nell’àmbito dell’inchiesta su un sistema ramificato all’estero (Albania), guidato dalle ’ndrine ma gestito da un avvocato massone del Polesine. Il 15 luglio, poi, l’operazione “Taurus” ha visto 33 arresti e 100 avvisi di garanzia (e il sequestro di beni per 3 milioni di euro) per estorsione, usura, riciclaggio, fatture false, traffico di droga, furto, e associazione di stampo mafioso, tra Lazise, Sommacampagna e Villafranca: legami solidi con Gioia Tauro e con le famiglie calabresi, ma anche vistoso coinvolgimento di imprenditori e professionisti veronesi scesi a patti coi clan (salvo poi pentirsene) per il recupero crediti. E basta percorrere il territorio per rendersi conto che il business delle ecomafie non sembra perdere colpi nemmeno dopo inchieste giudiziarie a largo raggio come la famosa “Cassiopea”, peraltro finita nel 2011 con un’accorante prescrizione. Ne fanno fede i continui roghi di capannoni abbandonati e riempiti di rifiuti più o meno tossici: solo negli ultimi 12 mesi due incendi alla Futura srl di Montebello Vicentino e due alla Snua di Aviano (gli ultimi il 12 e 18 settembre), un altro il 18 maggio a Sandrigo, per non parlare dei 46 episodi registrati e documentati dal 2009 al 2016 tra Zevio, Boara Polesine, Motta di Livenza… insomma ai quattro angoli della regione.

Non è certo un caso che proprio nell’àmbito dei rifiuti gravitino i più grossi scandali scoppiati dal 2000 in poi, come quello della Ramm di Alessandro Rossato attiva tra Venezia e la Calabria (dove era in affari con la costa Alampi-Libri), quello del trevigiano Stefano Gavioli arrestato per la gestione dei rifiuti di Napoli e della Calabria (ma poi assolto da ogni addebito, e ora di nuovo in pista in quel di Teramo), quello del consulente della sottosegretaria leghista all’ambiente Fabrizio Ghedin che l’anno scorso cercava di corrompere Fanpage.it per tacitare una veemente inchiesta sulle ecomafie a Nord-est, o ancora quello dell’alto dirigente regionale Fabio Fior, condannato in Cassazione a 4 anni e da più parti indicato come referente della “cricca dei rifiuti” nei 15 anni di controllo decisionale sulle politiche ambientali del Veneto. A leggere il libro di Luana de Francisco e Ugo Dinello Crimini a Nord-Est (Laterza 2020) si ricava l’impressione che le società criminali più varie abbiano trovato tra Veneto e Friuli un terreno fertile e pronto a una sollecita connivenza. Spesso la propaganda leghista si concentra, con facili quanto ipocrite filippiche (chi si fa di coca? chi compra le finte borsette Gucci? chi paga le signorine in tangenziale? per chi lavorano gli operai-schiavi?), sulle attività tenute prevalentemente dagli stranieri: dal traffico di oggetti contraffatti in mano alla mafia cinese dello Zheijang a quello della droga che fa capo (per lo più) ai nigeriani, dalla prostituzione gestita dai clan albanesi e kosovari (pure attivi nella tratta di esseri umani sul confine orientale) alle pratiche di caporalato di bengalesi e albanesi nei cantieri navali di Porto Marghera e Monfalcone – ma i confini fra queste aree di competenza sono porosi, e non di rado generano sanguinosi conflitti tra le bande.

Tuttavia, oltre agli innegabili legami – non sempre pacifici – tra questi cartelli e le organizzazioni nostrane (che per lo più mirano oggi ad attività meno “sporche” e più redditizie), ciò che emerge in modo più preoccupante dal dossier di De Francisco e Dinello – come già dalle mirabili indagini di Gianni Bellonni – è l’allignare in diverse zone di una criminalità italiana stanziale capace di produrre focolai endemici, e di diffondere a largo raggio quel contagio sommerso dell’omertà e dell’illegalità (rare le denunce di operazioni sospette; rarissime quelle di capannoni occupati, pur certo non poco visibili), che parrebbe aver superato ormai il punto di non ritorno. Con tanto di colletti bianchi, commercialisti, mediatori autoctoni pronti a riciclare denaro, oggi come ieri, approfittando delle imprese in difficoltà. È balzato agli onori delle cronache nazionali il consolidato strapotere di una fazione del clan camorristico dei Casalesi nel litorale veneziano, dall’edilizia alla ristorazione, dal narcotraffico al voto di scambio alla distrazione dei fondi europei: il processo contro 26 imputati, tra i quali il boss di Eraclea, Luciano Donadio da Giugliano (amico di Sandokan: “Infórmati chi sono, ti sparo in bocca”, soleva dire per persuadere), è attualmente in corso nell’aula-bunker di Mestre, e perfino il teste-chiave nel dibattimento, l’ex ragioniere della banda, il veneto Christian Sgnaolin, dichiara di avere paura. Ma non è inutile ricordare che per anni il business dei lancioni turistici al Tronchetto di Venezia è stato in mano al boss dell’Acquasanta Vito Galatolo (custode designato dell’esplosivo destinato a Nino Di Matteo, e cugino del regista dell’attentato all’Addaura), che negli anni 2000 l’usura campana (la famigerata società Aspide, che ha dato il nome all’omonimo processo) teneva in scacco il Padovano, e che sin dagli anni 90 la mafia siciliana – poi largamente scalzata dalla ’ndrangheta – aveva messo le mani, per lo più tramite prestanome, sul turismo, sul settore agroalimentare e della ristorazione, perfino sulla stabulazione e la raccolta delle vongole. Tutti settori oggi in crisi, in attesa di ristori e rilanci.

Questa scalata delle organizzazioni criminali, se pure – come molti amano ripetere con fare autoassolutorio – ha avuto origine nei contatti tra criminalità locale e mafiosi spediti al soggiorno obbligato dagli anni 80 in poi (da ultimo, fino al 2017, il figlio di Totò Riina; ma tra Abano Terme e il Vicentino latitarono alcuni dei protagonisti della stagione stragista, da Piddu Madonia ai fratelli Graviano), di certo ha esplicato e radicato tutto il suo potere negli ultimi due decenni: né risulta che la questione – al di là dei consueti proclami – sia mai stata in cima ai programmi delle numerose giunte leghiste e forzitaliote succedutesi a Palazzo Ferro Fini. A tener desta l’attenzione sul tema, anzitutto a livello di informazione, è sempre stata l’opposizione: il LeU Piero Ruzzante, qualche volonteroso 5stelle (per esempio Patrizia Bartelle, che ha poi abbandonato il MoVimento), e soprattutto, storicamente, gli infaticabili consiglieri e deputati pd Alessandro Naccarato e Nicola Pellicani: quest’ultimo nel luglio scorso, dopo lo scoppio di “Taurus”, ha vanamente chiesto l’insediamento di una Commissione regionale d’inchiesta, proprio in previsione dei pericoli di ulteriori infiltrazioni dovute alla crisi economica post-pandemia (crisi di liquidità, soldi a pioggia e controlli allentati); l’Osservatorio per il Contrasto alla Criminalità della Regione ha invece allineato nel suo recente rapporto, accanto a un’interessante analisi storica del consigliere pd Bruno Pigozzo, anche le paginette sbrigative e un po’ sbagliate del senatore leghista Giovanni Fabris.

È in questa luce che può leggersi lo sgomento di chi vede oggi il trionfale 76% del governatore Zaia tradursi in un 41 (maggioranza) a 9 (opposizione) nel Consiglio regionale: tra quegli sparuti nove, senz’altro, vi saranno nuovi alfieri di questa imprescindibile battaglia sia nel Pd sia (la sola e combattiva Erika Baldin) nel M5S: ma non sarebbe male che, sia pur tardivamente, pensassero almeno a unire le forze.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/28/veneto-il-contagio-sono-i-clan/5982221/

mercoledì 22 luglio 2020

I pm: “Regione regalò 1 milione”. Maroni: “È stato tutto regolare”. - Gianni Barbacetto

I pm: “Regione regalò 1 milione”. Maroni: “È stato tutto regolare”

L’indagine “Lombardia Film Commission”.
“Tutto regolare”: contattato dal Fatto, Roberto Maroni non vuole aggiungere altro sul finanziamento da un milione di euro stanziato dalla Regione Lombardia, quando ne era presidente, e destinato alla Lombardia Film Commission. Ottocentomila euro di quei fondi, secondo la Procura di Milano, sono serviti per pagare un immobile a Cormano, ora sede della Fondazione. Quella compravendita adesso però è finita al vaglio dei pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi, che vogliono vedere chiaro non solo su tutta l’operazione immobiliare, ma pure sui soldi pubblici erogati. Tanto che ieri i magistrati hanno inviato la Guardia di finanza negli uffici del Pirellone per acquisire, tra gli altri documenti, anche gli atti della delibera con cui nel 2015 la Giunta regionale guidata da Maroni (non indagato) ha stanziato il contributo di un milione di euro. E così le Fiamme gialle tornano nella sede della Regione. C’erano già state per acquisire documenti prima per la questione relativa alla gestione della pandemia, poi nell’ambito di un’indagine sulla fornitura di camici. Ieri una nuova visita, seppur per fatti diversi.
Stavolta l’inchiesta riguarda l’immobile di Cormano. Un acquisto da parte della Lombardia Film Commission che i magistrati definiscono “insensato” e parlano di “ritorni per chi l’ha deciso e attuato”. Per i pm l’operazione era finalizzata al “‘drenaggio’ di risorse che la Regione Lombardia aveva già destinato alla Fondazione e di cui Di Rubba era presidente; e infatti – continuano i magistrati negli atti – Di Rubba e il ‘socio’ Manzoni beneficeranno della quota maggiore”.
Il riferimento è ad Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, il primo amministratore della Lega al Senato, il secondo revisore del gruppo alla Camera. Entrambi sono accusati di peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Stessi reati per i quali è stato iscritto anche Michele Scillieri, commercialista nel cui studio nel 2017 è stato domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”.
L’operazione immobiliare a prezzo “gonfiato”.
L’operazione immobiliare è piuttosto complessa. La Fondazione infatti nel 2017 acquista questo immobile alle porte di Milano dalla Immobiliare Andromeda srl, società di cui la Procura ritiene essere stato amministratore di fatto Scillieri. Il costo 800 mila euro, pagati anche con i soldi stanziati nel 2015 dalla Regione Lombardia. Denaro che i pm ritengono essere una sorta di “regalo” chiesto e ottenuto in poco più di un mese dalla Fondazione. I magistrati infatti sospettano che quel finanziamento sia stato un escamotage per far arrivare, in qualche modo, i soldi ai commercialisti vicini al Carroccio.
Per i pm però l’immobile è stato comprato a un costo gonfiato. Infatti prima di venderlo alla Lombardia Film Commission, l’Immobiliare Andromeda aveva acquistato quello stesso edificio dalla Paloschi srl, società di cui era liquidatore Luca Sostegni, altro indagato in questa inchiesta. Sostegni è accusato di peculato e di estorsione: secondo i magistrati avrebbe chiesto denaro in cambio del silenzio su ciò che sapeva sulle operazioni immobiliari.
Intercettato a giugno del 2020, al telefono con Scillieri l’uomo “spiegava come non comprendesse la ragione per la quale Di Rubba e Manzoni preferissero per risparmiare ‘pochi soldi’, fare ‘scoperchiare il pentolone, che può fargli danni assurdi’”.
Sostegni stava scappando in Brasile quando mercoledì scorso è stato fermato dagli uomini della Finanza. In un primo interrogatorio ha ricostruito i suoi rapporti con Scillieri. Ma giovedì tornerà davanti ai magistrati.
Le email acquisite e la nomina di Di Rubba.
Intanto il lavoro degli inquirenti si concentra su ciò che è stato acquisito ieri in Regione Lombardia. Dagli atti emerge che Di Rubba il 16 novembre 2015 scrisse una email nella quale chiedeva alla Regione proprio un milione di euro e che il 21 dicembre dello stesso anno la Regione gli rispose che lo stanziamento era stato accordato. Tra le carte utili, anche quelle relative alla nomina nel 2014 di Di Rubba (è rimasto in carica nella Fondazione fino al giugno 2018).

martedì 17 settembre 2019

Operazione antimafia Octopus, la mafia gestiva i buttafuori nei locali notturni.



Cosa nostra imponeva i nomi dei vigilanti all'interno dei locali di Palermo e Provincia.


Nel corso dell’operazione antimafia sono state arrestate 11 persone accusate di estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Nel corso dell’operazione antimafia Octopus questa mattina a Palermo I carabinieri hanno arrestato 11 persone accusate a vario titolo di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Si tratta di persone legate al mondo della criminalità organizzata di Palermo e Provincia. 
Gli arresti sono stati disposti dalla dda di Palermo. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata emessa dal Gip di Palermo.
I carabinieri hanno scoperto un vasto giro di interessi e di estorsioni all’interno di alcuni locali notturni del Palermitano. La mafia a questi imponeva in particolare la gestione dei buttafuori che in molti casi dovevano essere quelli scelti da Cosa nostra. Gli indagati pretendevano inoltre un quantum economico ai danni dei locali.
L’imposizione avveniva con minacce e con il metodo mafioso.
Le intercettazioni hanno consentito di fare emergere numerose estorsioni nei confronti di almeno 5 locali notturni di Palermo e provincia ai quali veniva imposta, mediante violenze e minacce, l’assunzione dei “buttafuori”.

martedì 2 dicembre 2014

Alemanno indagato per mafia; a Roma sotto inchiesta consiglieri Pd e Fi. - Giovanna Trinchella

Alemanno indagato mafia, a Roma sotto inchiesta consiglieri Pd e Fi

Trentasette arresti nell'inchiesta del Ros. In manette Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana. Agli indagati gli inquirenti, coordinati da Giuseppe Pignatone, contestano, a vario titolo, anche estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio.

“È la teoria del mondo di mezzo compà. …. ci stanno . . . come si dice . . . i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo … e allora …. e allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano… come è possibile… che ne so… che un domani io posso stare a cena con Berlusconi”. Parola di Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana, numero uno dell’organizzazione criminale decapitata dagli uomini del Ros.
Un gruppo, chiamato Mafia Capitalecapace infiltrarsi e fare business nella gestione di centri di accoglienza degli immigrati e campi nomadi, finanziare cene e campagne elettorali, come quella dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, coinvolgere nella loro rete politici di destra e di sinistra. Come, oltre all’ex primo cittadine dell’Urbe indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso, il presidente dell’Assemblea Capitolina, Mirko Coratti e il consigliere regionale Eugenio Patanè, entrambi del Pd, e il consigliere comunale Luca Gramazio (Forza Italia) o anche sedurre l’assessore alla casa Daniele Ozzimo (Pd), assessore alla Casa, che si è dimesso dicendo: “Sono estraneo ai fatti ma per senso di responsabilità rimetto il mio mandato”. Stesso tono la dichiarazione di Alemanno: “Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della  magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti”.
Una immagine, quella di Roma dominata da criminali possono dire “comandiamo sempre noi“, che si svela con un’inchiesta, battezzata proprio Mondo di Mezzo e che ha portato in carcere 28 persone e ha fatto finire nel registro degli indagati il nome un centinaio di persone. Cui gli inquirenti, coordinati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, contestano a vario titolo, l’associazione a delinquere di stampo mafioso, anche estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati. 
“È una organizzazione mafiosa, usa il metodo mafioso” spiega il procuratore capo. Mafia Capitale è capace “di elaborare equilibri e sinergie”. Tanto che, cambiata la giunta dopo le elezioni comunali che hanno portato Ignazio Marino alla guida del Campidoglio, Carminati ordina a Salvatore Buzzi numero uno della cooperativa “29 giugno”, appartenente all’universo Legacoop: “Bisogna vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna vendersi come le puttane ades…adesso e allora mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi amico mio, eh… capisci”. Gli inquirenti, infatti, hanno documentato unsistema corruttivo per l’assegnazione di appalti nel settore ambientale e delle politiche sociali e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate.
“Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è –  prosegue Pignatone – non c’è una unica organizzazione mafiosa” capace di controllare l’intero territorio, quella “di cui stiamo parlando dimostra originarietà e originalità, proprio perché nasce nella capitale” e dimostra che “le mafie sono cambiate non ricorrono alla violenza e al controllo del territorio se non necessario per creare assoggettamento”.  E, dice il procuratore, “alcuni uomini vicini all’ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell’organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma Carminati e Buzzi erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni“.
Il giudice per le indagini preliminari ha invece rigettato la richiesta di misura cautelare nei confronti di Gennaro Mokbel e Salvatore Forlenza, che sono comunque indagati. Tra gli arrestati anche l’ex ad dell’Ente Eur, Riccardo Mancini. È in alcuni intercettazioni, tra Mancini e Carminati, che è venuto fuori il nome dell’ex primo cittadino già esponente di Alleanza Nazionale e ora Fratelli d’Itali. Ed è Carminati che, secondo gli inquirenti, “individua e recluta imprenditori… mantiene i rapporti con altri esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma nonché esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti”. I carabinieri hanno perquisito gli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio per acquisire documenti gli uffici della Presidenza dell’Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio. Contemporaneamente la Guardia di Finanza ha eseguito un decreto di sequestro di beni riconducibili agli indagati, emesso dal tribunale di Roma, per un valore di 200 milioni di euro.
In manette anche Riccardo Brugia (in passato arrestato per rapina e vicino agli ambienti del Nar), Roberto LacopoMatteo CalvioFabio Gaudenzi (con precedenti per rapina), Raffaele BracciCristiano GuarneraGiuseppe IettoAgostino Gaglianone, Salvatore BuzziFabrizio Franco TestaCarlo Pucci (ex dirigente Ente Eur), Franco Panzironi (ex amministratore delegato Ama), Sandro Coltellacci, Nadia CerritoGiovanni FisconClaudio CaldarelliCarlo Maria GuaranyEmanuela BugittiAlessandra GarronePaolo Di NinnoPierina Chiaravalle, Giuseppe MoglianiGiovanni LacopoClaudio Turella (ex responsabile Servizio giardini del comune), Emilio Gammuto, Giovanni De CarloLuca Odevaine (ex vice capo di gabinetto dell’ex sindaco di Roma Veltroni e capo della polizia provinciale). Il gip ha disposto gli arresti domiciliari per Patrizia CaracuzziEmanuela Salvatori, Sergio MenichelliFranco CancelliMarco PlacidiRaniero Lucci, Rossana CalistriMario Schina.

mercoledì 26 settembre 2012

Presunta estorsione di Dell’Utri a Berlusconi, l’inchiesta va a Milano.


Presunta estorsione di Dell’Utri a Berlusconi, l’inchiesta va a Milano


Il procuratore generale di Cassazione toglie alla Procura di Palermo il procedimento sui pagamenti dell'ex premier al suo braccio destro. Accolta la richiesta dai difensori Ghedini e Longo, basata sul fatto che i pagamenti oggetto dell'indagine sono avvenuti nel capoluogo lombardo o ad Arcore.

Il procuratore generale della Cassazione ha spostato a Milano la competenza dell’indagine sulla presunta estorsione di Marcello Dell’Utri ai danni di Silvio Berlusconi. Una ulteriore ‘sconfitta’ per la procura diPalermo che aveva rivendicato la titolarità dell’inchiesta.
La Procura generale della Suprema Corte, come confermano anche fonti della difesa, ha accolto l’istanza che, nelle scorse settimane, era stata avanzata dai legali di Berlusconi, gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo. Il Pg di Cassazione ha dunque ritenuto che la competenza territoriale sull’inchiesta fosse della Procura milanese, e non dei Pm di Palermo. Anche il procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso aveva espresso, nei giorni scorsi, il suo parere in tal senso.
Nell’istanza accolta, i legali dell’ex premier hanno sostenuto che i versamenti sono avvenuti ad Arcore, dove Berlusconi risiede, o a Milano. Dunque lì si sarebbe consumato il reato di estorsione, che in ogni caso Berlusconi e Dell’Utri hanno sempre negato
“Allo stato delle indagini tutti i bonifici risultano essere pervenuti sui conti correnti accesi da Dell’Utri presso banche di Milano, eccetto due”, scrive infatti la Procura generale della Cassazione. “Il richiamo da parte del pm della sentenza di condanna di Dell’Utri (per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) non appare rilevante ai fini di una eventuale competenza per connessione – scrive il magistrato – come rilevato dal procuratore nazionale non vi è coincidenza temporale tra le vicende, dal momento che la responsabilità penale di Dell’Utri è stata affermata fino al 1992 mentre i fatti per cui si procede sono tutti successivi. Inoltre”, continua il pg, “i due procedimenti si trovano in diverse fasi procedimentali, sicchénessuna connessione è ipotizzabile”.
Nessuna presa di posizione è arrivata dalla Procura di Palermo: “Confermo che c’è questa decisione e ne prendiamo atto. Ma non voglio commentarla”. C’e’ amarezza in procura? “Non dico nulla”.
Nei giorni scorsi, nell’ambito dello stesso filone, era finita nel registro degli indagati la moglie del senatore, Miranda Ratti, con l’accusa di riciclaggio.  Nell’ambito dell’inchiesta sono stati gia’ sentiti Silvio e Marina Berlusconi che hanno respinto lo scenario dell’accusa, ed e’ stata indagata la moglie del senatore, Miranda Ratti, per riciclaggio in quanto avrebbe trasferito i soldi a Santo Domingo.