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venerdì 11 marzo 2022

Da Palermo a Campobello: il colpo per aiutare Messina Denaro. - Riccardo Lo Verso

 

Bottino da un milione di euro. Non tutti i responsabili sono stati individuati.

PALERMO – Un nuovo tassello investigativo su una rapina che qualche anno fa fece scalpore. Il bottino servì per finanziare la latitanza di Matteo Messina Denaro.

Nel novembre 2013 un commando armato fece irruzione nel deposito della Ag Trasporti di Campobello di Mazara.

Di quel commando potrebbe avere fatto parte anche Domenico Macaluso, 49 anni, il cui nome è emerso nell’inchiesta che ha portato all’arresto del capomafia di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, il “dottore”.

Macaluso è indagato per mafia: avrebbe fatto parte della famiglia di Roccella. Non è stata, però, emessa una misura cautelare nei suoi confronti. Se è vero, secondo il giudice, che Macaluso si sarebbe messo a disposizione di Guttadauro, non ci sono, però, elementi univoci da cui emerge la sua partecipazione all’associazione mafiosa.

Non fu una rapina qualunque quella del novembre 2013. Sia per l’obiettivo che per il destinatario del bottino: i soldi servirono per aiutare la famiglia di Matteo Messina Denaro.

L’azienda rapinata apparteneva a Giovanni Arduino, fratello del boss Giuseppe (ufficialmente faceva il portiere di albergo), uomo forte del mandamento di Brancaccio e condannato con sentenza definitiva. Qualche mese prima della rapina la Ag Trasporti era finita sotto sequestro.

Grazie all’aiuto di un basista il gruppo di rapinatori, che faceva capo a Francesco Guttadauro (figlio del cognato di Matteo Messina Denaro, Filippo Gittadauro, fratello di Giuseppe, il “dottore”) e Luca Bellomo (marito di Lorenza Guttadauro, altra figlia di Filippo Guttadauro). Tra gli arrestati per il colpo c’era anche Ruggero Battaglia.

Dal deposito sparirono 600 colli di merce e 17 mila euro in contanti. Ad entrare in azione fu un gruppo di otto persone, di cui alcune non sono mai state identificate. Indossavano le pettorine della polizia ed arrivarono a bordo di due macchine e di un furgone bruciati dopo la rapina. Dissero che cercavano un carico di droga, legarono con delle fascette una decina di dipendenti e lavorarono indisturbati.

Sono diversi i pentiti che hanno parlato della rapina. Per ultimo Salvatore Sollima di Bagheria. I palermitani non si tirarono indietro. Arrivò la richiesta di Battaglia: “Viremu di aiutare sti picciotti che hanno bisogno picchi hanno ad aiutare stu picciottu che ammancò da casa. Si riferiva a questa persona che è latitante da tanto tempo”.

C’è un particolare che bisogna rivalutare alla luce dei nuovi elementi investigativi. Una donna avrebbe avuto, per un periodo di tempo, un canale di comunicazione con Messina Denaro. Secondo gli investigatori, dovrebbe trattarsi di Maria Insalaco, la madre di Luca Bellomo. Solo che la donna è deceduta ad aprile 2019.

https://livesicilia.it/palermo-rapina-matteo-messina-denaro/?fbclid=IwAR3Jdq3UN-FRNeDOY1UPTsxNhYJxwrvMnzijKhGIhiCDnHI9K2xJXrW-D8o

mercoledì 11 agosto 2021

Assalto hacker alla piattaforma Poly Network: rubati 600 milioni in cripto asset. - Vittorio Carlini

 

I punti chiave


Una somma importante: circa 612 milioni di dollari. È la cifra che sarebbe stata rubata sulla piattaforma di finanza decentralizzata Poly Network. Si tratta di gran lunga del più grande furto in questo settore. L’autore? Degli hacker. O meglio, visto che nella cultura cibernetica gli hacker non hanno intenti malevoli, dei cracker. La notizia l’ha data la stessa società via twitter. E subito l’informazione, in un tam tam digitale, si è diffusa nella cripto sfera.

Cosa è Poly Network.

A essere colpita, per l’appunto, è stata Poly Network. Si domanderà: ma in cosa consiste questa piattaforma? In generale, e senza entrare in dettagli tecnici, Poly Network è un protocollo di DeFi (Dencentralized Finance) che consente di scambiare i gettoni virtuali (token) attraverso differenti blockchain.

Caro hacker, contattatici..

Come indicato nel messaggio dello stesso Poly Network su Twitter, indirizzato al “caro Hacker”, l’attacco ha coinvolto “decine di migliaia” di mebri della “crypto community” cui sono stati portati via le cryptocurrency. Per questo, in un approccio che solamente nel nuovo mondo degli asset digitali può concepirsi, la stessa piattaforma ha chiesto di essere contattata (dall’hacker) per risolvere il problema.

Caccia al ladro.

Al di là del messaggio di Poly Network, la società attiva di cyber sicurezza SlowMist (sempre via Twitter) ha affermato che l’email del “pirata” informatico è stata trovata. «È probabile - è l’indicazione - che si tratti un assalto lungamente ben preparato».

Troppi cripto asset lanciati da inesperti.

«In generale - tiene a precisare al Sole24ore Ferdinando Ametrano, fondatore di CheckSig -, al di là del caso in oggetto, simili situazioni si vengono a creare nelle situazioni, ormai troppe, in cui il codice dell’infrastruttura è scritto in maniera non efficiente». Cioè? «Si tratta di software spesso formalmente non verificati che rischiano di lasciare delle brecce dove il malintenzionato di turno può infilarsi». Un contesto, peraltro, agevolato dall’eccessivo «numero di cripto asset che vengono lanciati sulle piattaforme. Un mondo del “miraggio della ricchezza facile” dove troppe sono le persone che si “inventano” esperti, con il rischio che accada quello che è successo oggi». Al contrario un protocollo di struttura serio e verificato, «come quello del bitcoin - conclude Ametrano - dal 2008 ad oggi mai è stato violato».

IlSole24Ore

mercoledì 28 ottobre 2020

Veneto, il contagio sono i clan. - Filippomaria Pontani

 

Il mito produttivo - Anche in pieno lockdown le imprese sono riuscite a moltiplicarsi. E con esse il dominio della criminalità. Dall’edilizia alla ristorazione, dai rifiuti alle vongole. Nel placido regno del doge Zaia.

Il Veneto che produce, e non si ferma. Nel pieno del lockdown, tra marzo e maggio, su 2700 imprese nate in Veneto oltre un terzo aveva ai vertici persone con precedenti per usura, riciclaggio, frode fiscale o mafia.

Pochi mesi prima, il procuratore Bruno Cherchi aveva dichiarato che “esiste un sistema omertoso ormai diffuso nel mondo imprenditoriale veneto”, e che “il Veneto è un luogo di investimento dei proventi delle attività criminose”. Di “piena infiltrazione” per il Friuli-Venezia Giulia parlava nel 2019 il procuratore di Trieste Carlo Mastelloni. Sabato scorso sono stati messi i sigilli a diverse grosse aziende di logistica e di lavorazione del porfido nella valle dell’Adige, sospettate di inquinamento mafioso. Ma l’estate è stata anche più traumatica: il 3 giugno a Verona – provincia dove sin dal 2019 era acclarata la perniciosa presenza del clan Multari – l’operazione “Isola Scaligera” ha portato in manette l’ex presidente dell’azienda dei rifiuti, e indagato l’ex sindaco Flavio Tosi e altre decine di persone (15 i milioni confiscati) nell’àmbito dell’inchiesta su un sistema ramificato all’estero (Albania), guidato dalle ’ndrine ma gestito da un avvocato massone del Polesine. Il 15 luglio, poi, l’operazione “Taurus” ha visto 33 arresti e 100 avvisi di garanzia (e il sequestro di beni per 3 milioni di euro) per estorsione, usura, riciclaggio, fatture false, traffico di droga, furto, e associazione di stampo mafioso, tra Lazise, Sommacampagna e Villafranca: legami solidi con Gioia Tauro e con le famiglie calabresi, ma anche vistoso coinvolgimento di imprenditori e professionisti veronesi scesi a patti coi clan (salvo poi pentirsene) per il recupero crediti. E basta percorrere il territorio per rendersi conto che il business delle ecomafie non sembra perdere colpi nemmeno dopo inchieste giudiziarie a largo raggio come la famosa “Cassiopea”, peraltro finita nel 2011 con un’accorante prescrizione. Ne fanno fede i continui roghi di capannoni abbandonati e riempiti di rifiuti più o meno tossici: solo negli ultimi 12 mesi due incendi alla Futura srl di Montebello Vicentino e due alla Snua di Aviano (gli ultimi il 12 e 18 settembre), un altro il 18 maggio a Sandrigo, per non parlare dei 46 episodi registrati e documentati dal 2009 al 2016 tra Zevio, Boara Polesine, Motta di Livenza… insomma ai quattro angoli della regione.

Non è certo un caso che proprio nell’àmbito dei rifiuti gravitino i più grossi scandali scoppiati dal 2000 in poi, come quello della Ramm di Alessandro Rossato attiva tra Venezia e la Calabria (dove era in affari con la costa Alampi-Libri), quello del trevigiano Stefano Gavioli arrestato per la gestione dei rifiuti di Napoli e della Calabria (ma poi assolto da ogni addebito, e ora di nuovo in pista in quel di Teramo), quello del consulente della sottosegretaria leghista all’ambiente Fabrizio Ghedin che l’anno scorso cercava di corrompere Fanpage.it per tacitare una veemente inchiesta sulle ecomafie a Nord-est, o ancora quello dell’alto dirigente regionale Fabio Fior, condannato in Cassazione a 4 anni e da più parti indicato come referente della “cricca dei rifiuti” nei 15 anni di controllo decisionale sulle politiche ambientali del Veneto. A leggere il libro di Luana de Francisco e Ugo Dinello Crimini a Nord-Est (Laterza 2020) si ricava l’impressione che le società criminali più varie abbiano trovato tra Veneto e Friuli un terreno fertile e pronto a una sollecita connivenza. Spesso la propaganda leghista si concentra, con facili quanto ipocrite filippiche (chi si fa di coca? chi compra le finte borsette Gucci? chi paga le signorine in tangenziale? per chi lavorano gli operai-schiavi?), sulle attività tenute prevalentemente dagli stranieri: dal traffico di oggetti contraffatti in mano alla mafia cinese dello Zheijang a quello della droga che fa capo (per lo più) ai nigeriani, dalla prostituzione gestita dai clan albanesi e kosovari (pure attivi nella tratta di esseri umani sul confine orientale) alle pratiche di caporalato di bengalesi e albanesi nei cantieri navali di Porto Marghera e Monfalcone – ma i confini fra queste aree di competenza sono porosi, e non di rado generano sanguinosi conflitti tra le bande.

Tuttavia, oltre agli innegabili legami – non sempre pacifici – tra questi cartelli e le organizzazioni nostrane (che per lo più mirano oggi ad attività meno “sporche” e più redditizie), ciò che emerge in modo più preoccupante dal dossier di De Francisco e Dinello – come già dalle mirabili indagini di Gianni Bellonni – è l’allignare in diverse zone di una criminalità italiana stanziale capace di produrre focolai endemici, e di diffondere a largo raggio quel contagio sommerso dell’omertà e dell’illegalità (rare le denunce di operazioni sospette; rarissime quelle di capannoni occupati, pur certo non poco visibili), che parrebbe aver superato ormai il punto di non ritorno. Con tanto di colletti bianchi, commercialisti, mediatori autoctoni pronti a riciclare denaro, oggi come ieri, approfittando delle imprese in difficoltà. È balzato agli onori delle cronache nazionali il consolidato strapotere di una fazione del clan camorristico dei Casalesi nel litorale veneziano, dall’edilizia alla ristorazione, dal narcotraffico al voto di scambio alla distrazione dei fondi europei: il processo contro 26 imputati, tra i quali il boss di Eraclea, Luciano Donadio da Giugliano (amico di Sandokan: “Infórmati chi sono, ti sparo in bocca”, soleva dire per persuadere), è attualmente in corso nell’aula-bunker di Mestre, e perfino il teste-chiave nel dibattimento, l’ex ragioniere della banda, il veneto Christian Sgnaolin, dichiara di avere paura. Ma non è inutile ricordare che per anni il business dei lancioni turistici al Tronchetto di Venezia è stato in mano al boss dell’Acquasanta Vito Galatolo (custode designato dell’esplosivo destinato a Nino Di Matteo, e cugino del regista dell’attentato all’Addaura), che negli anni 2000 l’usura campana (la famigerata società Aspide, che ha dato il nome all’omonimo processo) teneva in scacco il Padovano, e che sin dagli anni 90 la mafia siciliana – poi largamente scalzata dalla ’ndrangheta – aveva messo le mani, per lo più tramite prestanome, sul turismo, sul settore agroalimentare e della ristorazione, perfino sulla stabulazione e la raccolta delle vongole. Tutti settori oggi in crisi, in attesa di ristori e rilanci.

Questa scalata delle organizzazioni criminali, se pure – come molti amano ripetere con fare autoassolutorio – ha avuto origine nei contatti tra criminalità locale e mafiosi spediti al soggiorno obbligato dagli anni 80 in poi (da ultimo, fino al 2017, il figlio di Totò Riina; ma tra Abano Terme e il Vicentino latitarono alcuni dei protagonisti della stagione stragista, da Piddu Madonia ai fratelli Graviano), di certo ha esplicato e radicato tutto il suo potere negli ultimi due decenni: né risulta che la questione – al di là dei consueti proclami – sia mai stata in cima ai programmi delle numerose giunte leghiste e forzitaliote succedutesi a Palazzo Ferro Fini. A tener desta l’attenzione sul tema, anzitutto a livello di informazione, è sempre stata l’opposizione: il LeU Piero Ruzzante, qualche volonteroso 5stelle (per esempio Patrizia Bartelle, che ha poi abbandonato il MoVimento), e soprattutto, storicamente, gli infaticabili consiglieri e deputati pd Alessandro Naccarato e Nicola Pellicani: quest’ultimo nel luglio scorso, dopo lo scoppio di “Taurus”, ha vanamente chiesto l’insediamento di una Commissione regionale d’inchiesta, proprio in previsione dei pericoli di ulteriori infiltrazioni dovute alla crisi economica post-pandemia (crisi di liquidità, soldi a pioggia e controlli allentati); l’Osservatorio per il Contrasto alla Criminalità della Regione ha invece allineato nel suo recente rapporto, accanto a un’interessante analisi storica del consigliere pd Bruno Pigozzo, anche le paginette sbrigative e un po’ sbagliate del senatore leghista Giovanni Fabris.

È in questa luce che può leggersi lo sgomento di chi vede oggi il trionfale 76% del governatore Zaia tradursi in un 41 (maggioranza) a 9 (opposizione) nel Consiglio regionale: tra quegli sparuti nove, senz’altro, vi saranno nuovi alfieri di questa imprescindibile battaglia sia nel Pd sia (la sola e combattiva Erika Baldin) nel M5S: ma non sarebbe male che, sia pur tardivamente, pensassero almeno a unire le forze.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/28/veneto-il-contagio-sono-i-clan/5982221/