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venerdì 17 aprile 2015

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”. - Giuseppe Pipitone

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”

Sono alcune delle dichiarazioni rilasciate alla Corte d'Assise di Palermo da Carmelo D'Amico, l'ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l'ultimo super testimone dell'inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. I magistrati lo considerano un collaboratore altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano.

Il ministro dell’Interno Angelino Alfano? “Portato da Cosa nostra, ma poi gli ha voltato le spalle”. Forza Italia? “Nata per volere dei servizi segreti”. Silvio Berlusconi? “Una pedina nelle mani di Marcello Dell’Utri”. Il pm Nino Di Matteo? “Lo vogliono morto sia Cosa Nostra che i servizi segreti”. Parola di Carmelo D’Amico, l’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l’ultimo super testimone dell’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra.
È un collaboratore importante D’Amico, un pentito che i pm del pool Stato – mafia considerano altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano. “Rotolo mi disse che Matteo Messina Denaro non è il capo di Cosa nostra, perché è il capomandamento di Trapani: ma il capo di Cosa nostra non può essere un trapanese, deve essere palermitano”, è uno dei tanti passaggi della deposizione di D’Amico, ascoltato come testimone dalla corte d’Assise di Palermo che sta processando politici, boss mafiosi ed alti ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra.
Un racconto cominciato con un mea culpa: “Ho commesso almeno una trentina di omicidi, soprattutto per i catanesi dal 1992 in poi: a un ragazzo ho anche tagliato le mani”, ha confessato D’Amico, spiegando di aver deciso di collaborare con la magistratura “dopo la scomunica dei mafiosi di Papa Francesco, quelle parole mi hanno colpito moltissimo”. L’anatema del pontefice contro i boss è del 21 giugno 2014: da quel momento D’Amico inizia ad aprire il suo personalissimo libro dei ricordi, prima davanti ai pm della dda di Messina, e poi con i magistrati del pool palermitano.
È davanti ai pm Nino Di Matteo, Roberto TartagliaVittorio Teresi e Francesco Del Bene che D’Amico mette a verbale tutto quello che ha appreso sui rapporti tra Cosa Nostra e le Istituzioni. Un racconto pieno di rivelazioni inedite, replicato davanti alla Corte d’Assise, che coinvolge direttamente il ministro dell’Interno. “Angelino Alfano – ha spiegato D’Amico collegato in videoconferenza con l’aula bunker del carcere Ucciardone– è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”.
Ma non solo. Perché a godere dell’appoggio delle cosche sarebbe stato anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, già indagato per concorso esterno alla mafia e poi archiviato. “Cosa nostra ha votato anche Schifani, poi hanno voltato le spalle, e la mafia non ha votato più Forza Italia”. Per il collaboratore, poi, il partito di Silvio Berlusconi sarebbe nato perché sostenuto direttamente da Totò Riina e Bernardo Provenzano. “I boss votavano tutti Forza Italia, perché Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perché l’hanno voluta loro”. Poi però il patto tra politica e boss s’interrompe. “All’epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”.
D’Amico ha anche raccontato che a Barcellona Pozzo di Gotto era attiva una loggia massonica. “Ne facevano parte uomini d’onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico Nania (ex vice presidente del Senato col Pdl) : a questa apparteneva anche Dell’Utri”. La fonte dell’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto è Rotolo, il boss palermitano con il quale condivide tra il 2012 e il 2014 l’ora di socialità. Rotolo è un pezzo da novanta, ex fedelissimo di Totò Riina e poi di Bernardo Provenzano. “Mi raccontò che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”. Ma il boss di Pagliarelli avrebbe fatto a D’Amico anche confidenze sulla latitanza di Provenzano. “Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”.
Ed è sempre Rotolo che racconta a D’Amico il piano di morte per assassinare Di Matteo. “Rotolo ne parlava con Vincenzo Galatolo: all’inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all’altro la notizia dell’attentato”. Il racconto di D’Amico riscontra implicitamente le rivelazioni di Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, il boss dell’Acquasanta, che per primo ha svelato come a partire dal dicembre del 2012, Cosa Nostra avesse studiato nei dettagli un piano per assassinare il pm della Trattativa. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire – ha aggiunto D’Amico – Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”.
Anche Vito Galatolo ha raccontato che in un primo momento l’attentato contro il pm palermitano doveva essere fatto con 200 chili di tritolo, già acquistati dalla Calabria e arrivati a Palermo. Poi però si passò ad un piano di riserva, che prevedeva l’eliminazione del magistrato in un agguato a colpi di kalashnikov. Appena poche settimane fa l’allerta al palazzo di Giustizia è tornata ai massimi livelli, dato che uomini armati sarebbero stati localizzati nei pressi di un circolo tennistico sporadicamente frequentato dal pm. E se Galatolo aveva indicato in Messina Denaro il mandante dell’omicidio (“Perché Di Matteo si sta spingendo troppo oltre” aveva scritto il padrino di Castelvetrano ai boss di Palermo) per D’Amico l’ordine arrivava anche da altri ambienti.
“A volere la morte di Di Matteo erano sia Cosa Nostra che i Servizi perché stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”. E quando ad un certo punto l’attentato sembra essere entrato in fase d’impasse, Rotolo e Vincenzo Galatolo provano ad inviare D’Amico a Palermo. “Io – ha spiegato il pentito – dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”. Il vero chiodo fisso di D’Amico, però, sono i servizi. “Arrivano dappertutto ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffré non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”. Alla fine ecco anche una paradossale precisazione. “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.

mercoledì 23 luglio 2014

Fede: “La storia di Berlusconi? Mafia, mafia, mafia. Sosteneva famiglia Mangano”. - Giuseppe PIpitone

Fede: "Storia di Berlusconi? Mafia, mafia" "Dell'Utri sa e 'mangia', ha 70 conti esteri" 

In una conversazione registrata di nascosto dal suo personal trainer, l'ex direttore del Tg4 parla dei rapporti tra il fondatore della Fininvest, Dell'Utri e Cosa nostra. E ai pm di Palermo racconta di un incontro durante il quale l'ex Cavaliere raccomandò al suo braccio destro, ora in carcere per concorso esterno, di "ricordarsi" della famiglia del mafioso all'epoca detenuto e sotto interrogatorio. ll giornalista: "Tutto falso, mie dichiarazioni manipolate".
Quando Marcello Dell’Utri veniva a Palermo doveva ricordarsi della famiglia di Vittorio Mangano, doveva ricordarsi di “sostenerla”. In che modo e perché dovesse sostenerla è un mistero. Ma per evitare che se ne dimenticasse, Silvio Berlusconi in persona, almeno in un’occasione, si è adoperato per rammentarglielo. A raccontarlo ai pubblici ministeri di Palermo non è un mafioso pentito, e non è nemmeno un collaboratore di giustizia. L’inedito episodio arriva invece dalla viva voce di un uomo che per oltre vent’anni è stato al fianco dell’ex premier: Emilio Fede.
L'ex direttore del Tg4 ha raccontato ai pm di un incontro tra Berlusconi e lo stesso Dell’Utri, appena arrivato a Milano dopo un soggiorno a Palermo. Ad Arcore, Fede si sta intrattenendo con l’ex premier, quando ecco che arriva Dell’Utri. “Mi alzai per allontanarmi” dice Fede interrogato da Antonino Di Matteo e Roberto Tartaglia nel maggio scorso. “Lo scambio di frasi è stato brevissimo” aggiunge. E poi spiega che Berlusconi, ancor prima di salutare l’ex senatore oggi detenuto, esordisce immediatamente con: “Hai novità? Mi raccomando ricordiamoci della sua famiglia, ricordiamoci di sostenerla”.
La famiglia da sostenere è quella di Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova, l’ex stalliere di Villa San Martino, l’uomo assunto dall’amico Marcello nel 1974 per garantire la protezione della famiglia Berlusconi. Ma sostenerla come? E perché? “Chiedono riferimenti su di te” dice Marcello all’amico Silvio, sotto gli occhi di Fede. Per i magistrati i riferimento è agli interrogatori in quel momento in corso, durante i quali a Mangano, che era detenuto, veniva chiesto appunto dei rapporti con l’ex presidente di Publitalia e con Berlusconi.
L’ex direttore del Tg4 non ha saputo collocare con certezza l’evento nel tempo: per Fede il rapido scambio di battute tra Dell’Utri e Berlusconi sarebbe di poco antecedente alla discesa in campo dell’ex cavaliere, nel 1994. Mangano però all’epoca era libero: finirà dentro soltanto dopo, ed è per questo che per i magistrati l’episodio è verosimilmente collocabile tra il 1995 e il 1996.
Dalle parti di Arcore quello è un periodo difficile : la Lega ha da poco fatto cadere il primo governo Berlusconi, Dell’Utri è finito indagato dalla procura di Palermo per concorso esterno a Cosa Nostra, mentre Mangano viene arrestato e sbattuto nel supercarcere di Pianosa in regime di 41 bis. È lì che i pm lo interrogano, che gli “chiedono riferimenti” su Berlusconi, sul periodo passato ad Arcore. La bocca del boss di Porta Nuova, però, resta cucita. Ed è per questo che anni dopo Marcello e Silvio lo eleggeranno al rango di loro “eroe” personale.
Perché se avesse parlato, Mangano di cose da raccontare ne avrebbe avute parecchie. Ricordi in bianco e nero, degli anni ’70, quando si trasferisce con la famiglia ad Arcore, dove ogni mattina accompagna a scuola i piccoli Marina e Piersilvio, che poi ogni pomeriggio giocano con sua figlia Cinzia, oggi detenuta a sua volta per mafia.
Ma non solo. Perché il fil rouge che unisce l’ex cavaliere al boss di Porta Nuova non si ferma agli anni ’70. Continua anche dopo. Continua per esempio il 26 settembre del 1993, quando Giovanni Brusca legge sull’Espresso che Dell’Utri sta creando un nuovo partito: il settimanale racconta anche del vecchio lavoro da fattore di Arcore di Mangano. Una storia che Brusca non conosce. Ma che fa comodo a Cosa Nostra, in quel momento precipitata in una situazione di grave difficoltà: Riina è in carcere, la trattativa a suon di bombe con lo Stato non ha portato i risultati sperati, mentre le condizioni carcerarie per i boss detenuti sono sempre più difficili. È così che Mangano torna a Milano nel novembre del 1993 e prende un appuntamento con Dell’Utri, come risulta dalle stesse agende dell’ex senatore.
Secondo Brusca a fare da cerniera tra Dell’Utri e Mangano sono le cooperative che gestiscono la pulizia degli uffici Fininvest: sono gestite da Antonino Currò e Natale Sartori, due messinesi amici di vecchia data del boss di Porta Nuova, che tra i loro dipendenti hanno assunto anche due delle tre figlie di Mangano. È un legame forte quello tra Sartori e Mangano: quando il boss di Porta Nuova viene arrestato, l’imprenditore messinese si precipita a Palermo. E dall’altra parte la conoscenza tra Sartori e Dell’Utri risale agli anni ’80. Sartori e Currò verranno poi processati e assolti per mafia. “Sono arrivate le arance” sarebbe, secondo Brusca, il messaggio in codice per comunicare ai piani alti di Fininvest che Mangano era a Milano, negli stessi mesi in cui secondo la procura di Palermo viene siglato il nuovo Patto Stato-mafia.
Passa un anno e Dell’Utri finisce indagato per mafia, mentre Mangano viene arrestato: è da quel momento, che Berlusconi chiede all’amico Marcello di ricordarsi della famiglia Mangano. Di sostenerla. Come e perché non è dato sapere. Rimane solo un frammento di conversazione, ascoltato da Fede e messo a verbale vent’anni dopo, quando ai pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia arriva la registrazione di una conversazione dalla procura di Monza. Un file realizzato con il telefonino da Gaetano Ferri, personal trainer di Fede, che nel luglio del 2012 registra una conversazione con l’ex direttore del Tg4, all’insaputa di quest’ultimo.
Nella registrazione all’esame degli inquirenti si sente Fede che spiega alcuni passaggi dei collegamenti tra Arcore, Dell’Utri e Cosa Nostra. In un brano pare fare riferimento all’incontro Berlusconi-Dell’Utri citato nella deposizione ai pm. “Mangano era in carcere. Mi ricordo che Berlusconi arrivando… ‘hai fatto?’…’sì sì..gli ho inviato un messaggio… gli ho detto a Mangano: sempre pronto per prendere un caffè’”. 
Spiega Fede a Ferri: “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano attraverso Marcello” spiega Fede al suo interlocutore. Che ribatte: “Però era tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Si, si era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che investiva” risponde Fede. Poi il giornalista si pone una domanda retorica con risposta annessa: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare”. Aggiunge Fede: “Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perche’ lui e’ l’unico che sa. Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell’Utri?”. Quindi il giornalista fornisce al suo personal trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico: “La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”.
“E’ tutto falso, l’ho già detto ai magistrati e ho denunciato quel truffatore per calunnia e minacce gravi”, replica Fede all’Ansa. “Lui ha manipolato le mie dichiarazioni”. In serata è intervenuto anche il legale di Marcello Dell’Utri, Giuseppe Di Peri: “In relazione alla conversazione tra Ferri e Fede, registrata dallo stesso Ferri, l’ex direttore del Tg4 chiarisce immediatamente ai pm, durante l’interrogatorio di maggio, lo spessore criminale del suo interlocutore, aduso a calunniare e a estorcere denaro”. Secondo il legale, “quel che risulta in buona sostanza dall’interrogatorio di Fede è che lo stesso abbia escluso in modo categorico di essere a conoscenza di comportamenti men che leciti da parte di Berlusconi e Dell’Utri o di sapere di conti esteri attribuiti a Dell’Utri”. E i conti all’estero di Dell’Utri? “Fede – ha spiegato il legale – ha precisato inoltre ai magistrati che la circostanza che Dell’Utri sarebbe intestatario di ben 70 conti esteri è frutto di una vera e propria manipolazione della conversazione effettuata dallo stesso Ferri”. “La registrazione – ha concluso – non è altro che un’ulteriore visibile tentativo di strumentalizzazione a fini utilitaristici”. 
La registrazione dovrà essere esaminata, ma esiste. Dal file audio emergono anche vicende più legate all’attualità: “A Samorì (Gianpiero Samorì, imprenditore modenese accreditato a un certo punto come delfino di Berlusconi, ndr) che voleva passare con Berlusconi io gli avevo dato una mano… poi è intervenuto Dell’Utri e gli faccio rivolgiti a Dell’Utri, ma stai attento perché Dell’Utri è un magna magna. Mi ha detto Samorì ‘cazzo se non avevi ragione… gli ho chiesto mettimi in lista e sai cosa mi ha chiesto: 10 milioni di euro’”.

giovedì 12 dicembre 2013

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”


Ci sono tutti i retroscena del patto tra Cosa nostra e le Istituzioni nella deposizione di Giovanni Brusca, l'ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d'assise di Palermo in trasferta all'aula bunker Milano. Dove non c'era per le minacce ricevute il pm Di Matteo.

Il papello con le richieste di Riina consegnato a Mancino e la strage di Capaci anticipata per scalzare Giulio Andreotti nella corsa al Quirinale. Dopo quel botto spaventoso, gli uomini di Cosa Nostra brindarono due volte. Ci sono tutti i retroscena della Trattativa Stato – mafia nella deposizione di Giovanni Brusca, l’ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d’assise di Palermo in trasferta all’aula bunker Milano.
“Riina diceva che ad Andreotti dovevamo rompere le corna, ostacolandolo, non facendolo diventare presidente della Repubblica. E ci siamo riusciti, anche anticipando la strage Falcone. Dopo il 23 maggio, Riina mi disse: con una fava abbiamo preso due piccioni” ha detto il pentito, nella prima delle tre udienze milanesi programmate per la sua deposizione. L’ex padrino di San Giuseppe Jato è diventato collaboratore di giustizia nel 2000, iniziando a raccontare dei rapporti di Cosa Nostra con la politica soltanto alcuni anni dopo. “Perché non raccontai subito dei rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri? Decisi di dire tutto quello che sapevo dopo aver incontrato Rita Borsellino che voleva sapere la verità sulla morte del fratello. A lei io diedi l’anima e da quel momento non mi interessò più di mafia, di giustizia, di niente” ha detto Brusca, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi.
Sui banchi dell’accusa svetta l’assenza del pm Nino Di Matteo: l’uomo che forse più di tutti conosce i vari rivoli del processo sul patto Stato – mafia è stato bersaglio continuo di pesanti minacce di morte da parte del boss Totò Riina, che proprio a Milano è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Opera. Il nome del boss corleonese è citato a più riprese da Brusca, che ha raccontato alla corte i retroscena del biennio stragista, prequel del nuovo patto Stato-mafia.
Tutto comincia nel 1991, quando Riina illustra ai suoi luogotenenti il piano di aggressione allo Stato. “Nel corso di una riunione, nel ’91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse: gli dobbiamo rompere le corna. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. La prima vittima della furia corleonese è Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del 1992 sul lungomare di Mondello. “La priorità degli omicidi la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: si è trattato di una vendetta con effetto politico, in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima” ha spiegato il boss di San Giuseppe Jato, che all’epoca svolse un ruolo fondamentale nell’intelligence di morte interna a Cosa Nostra. “Mannino doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”. Anche l’ ex ministro Calogero Mannino – così come lo stesso Brusca, Riina e altre otto persone tra boss mafiosi, politici e ufficiali dei carabinieri – è accusato di violenza a corpo politico dello Stato nel processo sulla trattativa, ma ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato.
Dopo i politici, Cosa Nostra decide di colpire Falcone, distruggendo nello stesso momento le residue ambizioni che Andreotti nutriva per il Quirinale. “Io nell’attentato di Giovanni Falcone, nel suo piano esecutivo, ci sono entrato per sbaglio” ha spiegato Brusca, che in Cosa Nostra si era già guadagnato l’appellativo di Verru, cioè il porco. “Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone – continua Brusca – Toto’ Riina mi disse: si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”. Anche l’ex vicepresidente del Csm è imputato nel processo ma per falsa testimonianza. Brusca ha anche raccontato che dopo l’omicidio di Falcone, Riina ipotizzò di eliminare anche Pietro Grasso: attentato che poi per motivi tecnici non si fece mai.
È però la strage di Capaci lo spartiacque che terrorizza l’intero Paese. Brusca ha raccontato come l’omicidio di Falcone fosse in origine stato progettato fuori dalla Sicilia, a Roma, dove da qualche tempo il magistrato era andato a dirigere gli affari penali del ministero della Giustizia. “Siccome chi doveva farlo stava perdendo tempo Riina si rivolse a me e mi diede quel compito: voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato, infatti mi disse di impiegare mille chili di esplosivo”. Una decisione, quella di ammazzare Falcone in Sicilia, che contrappone, forse per la prima volta, le due anime di Cosa Nostra: quella di Riina e quella di Provenzano. “Avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità.Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: io lo devo uccidere qua”.
Il 23 maggio del 1992 a guardare le tre Fiat Croma blindate che sfilano sull’autostrada c’è anche Brusca: ha in mano un telecomando, che aziona quando mancano meno di tre minuti alle 18, scatenando quello che i boss definirono l’Attentatuni, il grande attentato per assassinare il loro più acerrimo nemico.

giovedì 5 settembre 2013

Mafia, i giudici: “Dell’Utri mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa nostra”.

Marcello dell'Utri

Depositate le motivazioni della condanna in appello dell'ex senatore Pdl. "Condotta illecita andata avanti per un ventennio, nessun imbarazzo nei rapporti con i mafiosi". E il futuro premier "abbandonò il proposito di farsi proteggere con rimedi istituzionali". La Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza chiedendo di motivare meglio la colpevolezza per gli anni tra il 1977 e il 1992.

La condotta illecita del senatore Marcello Dell’Utri è “andata avanti nell’arco di un ventennio”, con una serie di comportamenti “tutt’altro che episodici, oltre che estremamente gravi e profondamente lesivi di interessi di rilevanza costituzionale”. Lo scrivono i giudici della terza sezione della corte d’appello di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, che hanno condannato l’ex senatore Pdl e braccio destro di Silvio Berlusconi a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Le motivazioni sono state depositate ieri. Dell’Utri è stato condannato in appello lo scorso 24 marzo, dopo l’annullamento della Corte di Cassazione con rinvio ad altra sezione d’appello. La corte conferma il ruolo di Dell’Utri come “mediatore” del “patto” tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra, concertizzatosi per esempio con l’arrivo ad Arcore del mafioso Vittorio Mangano in veste di “protettore” della famiglia Berlusconi. 
I giudici di appello ritengono provato il concorso esterno di Marcello Dell’Utri a Cosa nostra fino al 1992, mentre secondo la Cassazione la condanna era stata sufficientemente provata per le contestazioni fino al 1977 e non per quelle successive: “In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992)  ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese (Silvio Berlusconi, ndr) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione”. I giudici spiegano di aver sottoposto i fatti relativi agli anni più recenti “a nuova valutazione”, e di essere giunti alla conclusione che “è incontestabilmente emersa la permanenza del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa per tutto il periodo in esame e anche nel periodo in cui Dell’Utri era andato a lavorare da Rapisarda (l’imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, ndr) lasciando l’area imprenditoriale di Berlusconi e anche per il tempo successivo al 1992″. 
Quanto all’ex presidente del Consiglio, “a seguito della sentenza della cassazione era stato definitivamente accertato che Dell’Utri, BerlusconiCinàBontade e Teresi (questi ultimi tre boss mafiosi, ndr) avevano siglato un patto in base al quale l’imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione”. I giudici ricordano quindi Vittorio Mangano, lo “stalliere di Arcore”, assunto proprio su consiglio di Dell’Utri. “Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore”. Per la Corte, invece, “il rapporto tra i due non si è mai interrotto almeno fino al 1992 e ha subito delle forzate interruzioni solo per i periodi di detenzione di Mangano, affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova. La continuità della frequentazione, l’avere pranzato in diverse occasioni con lui sono circostanze che hanno consentito di escludere che i rapporti possano essere stati determinati da paura”. “Del resto – puntualizza il collegio -, Dell’Utri non ha mai dimostrato di temere i contatti con i boss mafiosi e di concludere accordi con loro”. Il futuro presidente del Consiglio, osserva la Corte, “abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso ma sfiorato) di farsi proteggere da rimedi istituzionali, è rientrato sotto l’ombrello di protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi ma all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”. 
Dell’Utri è “ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992″.  I giudici ricordano il “modo disinvolto” con il quale l’imputato “era ormai abituato a entrare in contatto con soggetti appartenenti ad ambienti criminali e mafiosi”. “La personalità dell’imputato – scrivono i giudici – appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo”. “In tutto il periodo di tempo oggetto della contestazione, cioè dal 1974 al 1992, ha con pervicacia ritenuto di agire in sinergia attiva con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti-Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione”. Dai “soggetti mafiosi” il politico “non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli avevano dato una possibilità di farlo”. Nel corso del ventennio preso in esame dall’inchiesta avviata negli anni Novanta dalla Procura di Palermo, l’uomo che è stato la mente organizzativa della nascita di Forza Italia “non ha mai provato nessun imbarazzo o indignazione nell’intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo”. 
Nelle motivazioni, la Corte d’appello di Palermo ha espresso un “giudizio di inattendibilità intrinseca del collaborante Gaetano Grado”, che aveva accusato Dell’Utri di aver fatto da tramite nel riciclaggio di denaro proveniente da un traffico di droga dalle cosche nell’attività di realizzazione di Milano 2, il primo grande intervento edilizio realizzato da Silvio Berlusconi. I fatti da lui enunciati “non possono considerarsi idonei a superare neppure la soglia di mero indizio”. 

martedì 21 maggio 2013

Mafia, testo Pdl al Senato: “Dimezzare la pena per il concorso esterno”.


Alfano e Caliendo

Tra i casi "celebri" nei quali viene contestato il concorso esterno ci sono tra gli altri quelli di Marcello Dell'Utri e Nicola Cosentino, l'ex assessore regionale della Lombardia Domenico Zambetti, l'ex presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, l'ex sottosegretario Antonio D'Alì.

Condanna dimezzata per concorso esterno in associazione mafiosa. Niente carcere e intercettazioni per chi svolge attività sotterranea di supporto ai componenti dell’associazione mafiosa. Si dovrà dimostrare che c’è un profitto. Lo prevede il testo Pdl appena assegnato in commissione Giustizia del Senato, relatore Giacomo Caliendo.
Tra i casi “celebri” nei quali viene contestato il concorso esterno ci sono tra gli altri quelli dell’ex senatore Pdl e Marcello Dell’Utri e dell’ex deputato Pdl Nicola Cosentinol’ex assessore regionale della Lombardia Domenico Zambettil’ex presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardol’ex sottosegretario Antonio D’Alì. Come noto per concorso esterno è stato condannato in via definitiva l’ex presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro. Tuttavia in questo caso, a differenza degli altri, la legge non avrebbe effetto.
Mentre nel caso del politico tra i fondatori di Forza Italia e amico di Silvio Berlusconi, che attende il verdetto definitivo della Cassazione, avrebbe l’effetto di evitargli la galera in caso di condanna definitiva. Dell’Utri è stato condannato a 7 anni lo scorso 23 marzo dopo che la Corte di Cassazione, nel marzo 2012, aveva annullato il precedente giudizio d’appello, che si era concluso con la medesima condanna a sette anni. I giudici, però, aveva assolto Dell’Utri dai reati a lui contestati dal ’92 in poi. Nelle motivazioni i supremi giudici aveva sottolineato che il reato di concorso esterno a Cosa nostra era stato commesso certamente “fino al 1977″, mentre non lo aveva ritenuto provato per gli anni successivi.
Attualmente il concorso esterno in associazione mafiosa è punito con il carcere fino a 12 anni. Ma sinora non si trattava di una norma ‘tipizzata’ nell’ ordinamento. Lo diventerebbe con il progetto di legge da oggi all’esame della commissione Giustizia, che porta la firma anche del senatore del Pdl Guido Compagna. Nel testo, infatti, si prevede l’introduzione di due nuovi articoli nel codice penale: il ’379-ter’ e il 379-quater’. Il primo (“Favoreggiamento di associazioni di tipo mafioso”) prevede che chiunque, fuori dei casi di partecipazione alle associazioni di cui all’articolo 416-bis, agevoli deliberatamente la sopravvivenza, il consolidamento o l’espansione di un’associazione di tipo mafioso, anche straniera, è punito con lareclusione da uno a 5 anni. Il secondo (“Assistenza agli associati”) stabilisce che chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dia rifugio o fornisca vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipino a un’associazione di tipo mafioso, anche straniera, al fine di trarne profitto, è punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni. La pena è aumentata se l’assistenza è prestata continuativamente. L’articolo 418 del codice penale, che disciplina l’assistenza agli associati, verrebbe abrogato.
Se queste norme venissero introdotte nell’ordinamento le conseguenze sarebbero varie e tutte di una certa rilevanza visto che avrebbero un riflesso anche sui giudizi in corso grazie al principio del ‘favor rei’(se la legge varia in modo favorevole all’imputato o condannato non in via definitiva essa è applicabile anche in via retroattiva, ndr): prima di tutto il concorso esterno verrebbe derubricato alla categoria ‘favoreggiamento’ e questo comporta di per sé una riduzione della pena che passerebbe infatti da un massimo di 12 anni a un massimo di 5 (cioè da 1 ai 5 anni). Il che significa che ci sarebbe uno stop alle intercettazioni visto che gli ascolti vengono consentiti in caso di reati per i quali sono previste condanne superiori ai 5 anni. Poi, per chi ‘supporta’ i componenti dell’associazione mafiosa, la pena fissata nel ddl va dai 3 mesi a 3 anni. E questo comporterà che non scatterà la custodia cautelare in carcere: il tetto perchè scatti, infatti, è di 4 anni. In più, perché si possa condannare il ‘sostenitore’ o l“assistente esterno all’associazione mafiosa, si dovrà dimostrare che dalla sua azione si ricavi un profitto”. 

giovedì 16 maggio 2013

Legge Bavaglio, le intercettazioni sulla P3 che non vogliono farvi leggere.


Intercettazioni


Nel giorno in cui Costa (Pdl) ha ripresentato il testo Alfano sulle intercettazioni telefoniche, alla Camera è arrivata la richiesta di autorizzazione all'ascolto delle telefonate di Verdini, Dell'Utri e Cosentino nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P3.

Nel giorno in cui Enrico Costa (Pdl) ha riproposto il testo Alfano (la cosiddetta Legge Bavaglio e contro le intercettazioni), alla Camera è arrivata alla Giunta la richiesta di autorizzazione all’ascolto delle telefonate di Denis VerdiniMarcello Dell’Utri e Nicola Cosentino sulla cosiddetta “P3″. Telefonate che, se dovesse passare il ddl Alfano, non avreste mai potuto leggere. 
Enrico Costa, tuttavia, ieri ha escluso che ci sia un “legame politico” tra la riproposizione del disegno di legge e la richiesta di autorizzazione all’ascolto delle intercettazioni dei tre esponenti di spicco del Pdl : “Ho semplicemente riproposto – insiste Costa – i testi delle più significative proposte legge presentate dal Pdl nella scorsa legislatura. Tra queste c’è il testo Alfano sulle intercettazioni e il provvedimento sulla messa alla prova e la detenzione domiciliare”. La vicenda che coinvolge Verdini, Cosentino e Dell’Utri è quella del processo sulla cosiddetta “P3“. La richiesta di utilizzare le intercettazioni è partita dal gip di Roma Elvira Tamburello e trasmessa a Montecitorio perché i tre esponenti del Pdl erano parlamentari all’epoca dei fatti. Dell’Utri era senatore, Cosentino e Verdini, invece deputati. Attualmente, però, solo Verdini è parlamentare ed è stato eletto al Senato. Il cofondatore di Forza Italia e l’ex coordinatore campano del Pdl, invece, non sono stati ricandidati, non siedono più in Parlamento e sono a rischio galera.
Influenzare la Corte Costituzionale sul giudizio sul ‘Lodo Alfano’, intervenire sul Consiglio superiore della Magistratura per indirizzare l’assegnazione di incarichi direttivi, fare pressione sulla Corte di Cassazione per risolvere in una certa maniera il cosiddetto ‘Lodo Mondadori’. E poi il tentativo di screditare il candidato Stefano Caldoro al governo della Campania ma anche l’intervento a Milano in favore dell’accoglimento di un ricorso riguardante la lista ‘Pro Lombardia’ di Roberto Formigoni. Sono note la manovre che i membri della cossidetta P3 aveva architettato per infiltrarsi nelle istituzioni e inquinarle. Ecco il documento e le conversazioni.

giovedì 10 gennaio 2013

Trattativa Stato-mafia, chiesti 11 rinvii a giudizio: “Istituzioni cercarono dialogo”. - Giuseppe Pipitone


Trattativa Stato-mafia, chiesti 11 rinvii a giudizio: “Istituzioni cercarono dialogo”


Gli ex ministri Mancino, accusato di falsa testimonianza, e Mannino hanno chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato, la posizione di Provenzano è stata stralciata per motivi di salute. Contestato l'attentato, con violenza o minaccia, a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, tutto aggravato dall'agevolazione di Cosa nostra.

Una ricostruzione lunga due udienze per chiedere il rinvio a giudizio di tutti gli 11 imputati della trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. È la richiesta che il sostituto procuratore Antonino Di Matteo ha avanzato al giudice Piergiorgio Morosini, che dall’ottobre scorso presiede l’udienza preliminare del patto sotterraneo siglato tra pezzi delle istituzioni e la mafia. Toccherà ora al gup decidere se accogliere le richieste dell’accusa. Sulla stessa vicenda è stata pubblicata anche la relazione conclusiva della commissione antimafia presieduta da Beppe Pisanu.
Il pm ha passato in rassegna tutti gli elementi raccolti nell’indagine condotta dalla procura di Palermo negli ultimi anni: dall’uccisione dell’europarlamentare Salvo Lima, primo atto di guerra di Cosa Nostra allo Stato, fino all’incarico di contattare Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri che l’ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano avrebbe ricevuto da Leoluca Bagarella. È a quel punto che, secondo il pm, si sarebbe siglato un nuovo patto tra la mafia e lo Stato. Il passaggio però non è piaciuto al boss corleonese, che ha infatti chiesto la parola per smentire di aver avuto contatti con elementi politici.
Insieme a Bagarella, sono imputati per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato anche i boss Totò Riina e Antonino Cinà, considerato il “postino” del papello, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, autore secondo i pm del primo input per aprire un contatto con Cosa Nostra, il senatore del Pdl Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato soltanto di falsa testimonianza dopo la sua deposizione al processo Mori-Obinu del febbraio scorso. Sia Mannino che Mancino hanno chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato.
Alla sbarra anche tre alti ufficiali dei carabinieri: i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. È invece imputato per calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro uno dei testimoni eccellenti dell’inchiesta: Massimo Ciancimino, “agganciato” da De Donno per organizzare i primi incontri tra il Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo. “Non pensavamo che Ciancimino arrivasse davvero a Riina” ha detto al fattoquotidiano.it lo stesso De Donno. Per i pm i colloqui tra i carabinieri e Vito Ciancimino sono il primo atto formale di “interlocuzione” tra le istituzioni e Cosa Nostra. Un dialogo sotterraneo che, nella ricostruzione della procura, dura dal 1992 fino al 1994, ed ha come oggetto una vera e propria negoziazione tra i pezzi delle istituzioni e la mafia.
Oggetto principale della trattativa sarebbe poi divenuto l’alleggerimento del 41 bis, obiettivo che si sarebbe realizzato nel novembre del 1993, quando l’allora guardasigilli Giovanni Conso non rinnovò oltre 300 provvedimenti di carcere duro a detenuti mafiosi. Ed è proprio per proseguire la trattativa che, secondo il pm, i carabinieri del Ros non arrestarono deliberatamente il boss Nitto Santapaola, “intercettato nella zona di Barcellona Pozzo di Gotto senza che ne venissero informati i magistrati”.
Un importante salvacondotto sarebbe poi stato assicurato al boss Bernardo Provenzano (per la posizione del quale nei giorni scorsi è stato disposto lo stralcio) localizzato nella zona di Mezzojuso nel 1995, e lasciato volontariamente libero dai militari. Il “ragioniere” di Cosa Nostra era in origine tra gli imputati della trattativa, ma il gup Morosini ha stralciato la sua posizione, dopo che i periti neuropsichiatrici hanno sancito la sua incapacità di presenziare alle udienze. Per il mancato arresto del padrino corleonese sono attualmente sotto processo Mori e Obinu: è per questo che Di Matteo ha chiesto d’inserire agli atti dell’inchiesta anche l’intero fascicolo del procedimento che vede i due carabinieri accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra.
Tra le decine di documenti dei faldoni che costituiscono l’inchiesta sulla trattativa, il pm ha prodotto anche una vignetta del disegnatore Giorgio Forattini. L’illustrazione, di poco successiva all’omicidio Lima, rappresenta l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti infilzato alle spalle da una lima. “Un’altra conferma – ha detto in aula Di Matteo – che l’omicidio Lima fu percepito come una minaccia al Governo allora in carica”. La chioma bianca dell’europarlamentare della Dc, rivolta nel sangue di Mondello è il prequel della trattativa Stato-mafia. “Una storia – ha detto sempre Di Matteo – nella quale la parte delle istituzioni che anche in nome di una inconfessabile ragion di Stato ha cercato e ottenuto il dialogo con la mafia”. Quel dialogo sotterraneo cercato da pezzi delle istituzioni avrebbe avuto come reazione “il convincimento negli uomini della mafia che le bombe pagano e determina la scelta della linea terroristica e un parziale cambiamento degli obiettivi da eliminare che non sono più i politici ma coloro i quali sono di ostacolo alla trattativa”. Alla fine della prima udienza anche il pentito Giovanni Brusca aveva chiesto di fare dichiarazioni spontanee. “La sinistra sapeva della trattativa – ha detto il collaboratore di giustizia – ma sono stato io il primo a dirlo: l’aveva detto già Riina in un processo e in quella sede aveva incluso nella Sinistra i comunisti”.

giovedì 27 dicembre 2012

Elezioni, nel Pdl spunta la Lega Sud per “salvare” Cosentino e Dell’Utri. - Giuseppe Pipitone


Marcello Dell'Utri


L'ipotesi di creare una "scatola" elettorale per gli impresentabili gravati da seri guai giudiziari è confermata da fonti interne al partito, anche se arrivano le smentite ufficiali. L'operazione ruoterebbe intorno a Gianfranco Miccichè, leader di Grande Sud in Sicilia rimasto legato a Berlusconi. Il senatore a ilfattoquotidiano.it: "Buona idea, io mi candido comunque per legittima difesa".

“Non sarebbe una cosa negativa: ce pinsari (ci devo pensare n.d.a.)”. Così Marcello Dell’Utri commenta da Santo Domingo a ilfattoquotidiano.it la carta a sorpresa che Silvio Berlusconi potrebbe estrarre dalla manica per le prossime elezioni politiche. Ovvero un’unica grande Lega del Sud, guidata da due politici già noti alle procure di mezza Italia, per recuperare consensi e frenare lo spappolamento del Pdl nel meridione. Alla guida della costola meridionale del Pdl, Berlusconi piazzerebbe due fedelissimi con un curriculum giudiziario di tutto rispetto: lo stesso Dell’Utri, già condannato in primo e secondo grado per concorso esterno alla mafia e considerato dalla procura di Palermo “l’uomo cerniera” che condusse a Berlusconi “le richieste di Cosa Nostra” nel 1994, è l’uomo che condurrebbe l’operazione in Sicilia, mentre l’ex sottosegretario considerato vicino agli ambienti della Camorra Nicola Cosentino guiderebbe il partito indipendentista di matrice berlusconiana nella sua Campania. Un’indiscrezione lanciata oggi da La Stampa e confermata a ilfattoquotidiano.it dai vertici romani del Pdl. 
“Io mi candido certamente al Senato per legittima difesa, per difendermi da queste operazioni che ora si sono viste essere di natura politica”, spiega Dell’Utri. “Certo quest’ipotesi che mi prospettate è tutta da pensare, io stesso ci dovrei pensare, ma è tutt’altro che negativa”.
Un’operazione, quella della Lega del Sud, che nascerebbe sulla strada già tracciata da Gianfranco Miccichè, l’ex luogotenente di Berlusconi in Sicilia, che da qualche tempo ha deciso di “mettersi in proprio”. Solo a pomeriggio inoltrato Miccichè si è preoccupato di smentire l’indiscrezione: ”Non sono a conoscenza di progetti simili. Smentisco pertanto le indiscrezioni pubblicate oggi da ‘La Stampa’”. Ma che l’ipotesi sia almeno allo studio trova conferme non ufficiale nel partito. 
 Già nel 2009 Gianfranco Miccichè, ex manager di Publitalia, aveva dato vita al Pdl Sicilia, una fronda interna al “partito del predellino”, nata per continuare ad appoggiare l’allora governatore Raffaele Lombardo. L’operazione fallì in meno di un anno e i rapporti tra Miccichè e dirigenti meridionali del Pdl si deteriorarono definitivamente. Nacque così Forza del Sud, poi diventata Grande Sud, il secondo partito indipendentista siciliano, che in poco tempo riuscì a sottrarre consensi al Pdl. Tra Berlusconi e Miccichè i rapporti rimasero però ottimi, tanto che per le ultime elezioni regionali in Sicilia l’ex presidente del consiglio avrebbe voluto proprio il suo ex delfino come candidato governatore di tutto il centrodestra. Il segretario del Pdl Angelino Alfano, però, si mise di traverso e alla fine Miccichè dovette correre da solo, contro lo stesso partito di B.
I contatti tra Arcore e il leader di Grande Sud però sono continuati, garantiti da un trait d’union d’eccezione: lo stesso Dell’Utri, al quale molti accreditano il ruolo di eminenza grigia di Grande Sud, la stessa posizione occupata nei primi anni ’90 quando fu tra gli inventori di Forza Italia. Fraterno amico di Miccichè, che gli affiderebbe “le chiavi di casa e i miei figli”, sarebbe stato Dell’Utri a fornire i consigli strategici necessari a creare Grande Sud, costola del Pdl siciliano con una robusta iniezione di indipendentismo. Una ricetta che fino adesso ha funzionato, garantendo al partito di Miccichè una forte presenza nei quartieri popolari palermitani. Ed è proprio in vista delle elezioni politiche che Berlusconi non si è mai opposto alle strategie di Miccichè, che finora gli ha solo sottratto voti in turni elettorali importanti come le amministrative di maggio e le ultime elezioni regionali in Sicilia.
L’idea adesso sarebbe quella di confederare il partito di Miccichè, con un movimento che in Campania sarebbe appunto guidato da Nicola Cosentino: una sorta di Lega  del Sud, costola del Pdl, per recuperare terreno nei confronti del Pd, cominciando proprio dai quartieri popolari, dove Grande Sud ha finora dimostrato di essere molto presente.
L’idea di una lega meridionale non è però esattamente originale. Nei primi anni ’90 il boss Leoluca Bagarella spinse per la creazione di Sicilia Libera, un partito di forte spinta indipendentista che avrebbe dovuto incarnare gli interessi di Cosa Nostra. Nel 2001, nella richiesta di archiviazione dell’indagine sui “Sistemi Criminali”, la procura di Palermo scriveva che “nei primi anni ’90 i nuovi soggetti politici, consistenti in varie leghe meridionali da aggregarsi poi in un’unica Lega meridionale avrebbero dovuto agire in sinergia con la Lega Nord, movimento allora emergente e in grande crescita, che perseguiva da anni un autonomo progetto politico accentuatosi in quella fase storica in direzione del secessionismo di alcune regioni del settentrione.  La creazione di uno Stato autonomo nel Sud con prerogative di sovranità avrebbe consentito di monopolizzare la gestione politica degli interessi economici leciti e illeciti, trasformando questa parte del paese in una sorta di zona franca, governata da soggetti espressione del sistema criminale”.