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giovedì 12 dicembre 2013

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”


Ci sono tutti i retroscena del patto tra Cosa nostra e le Istituzioni nella deposizione di Giovanni Brusca, l'ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d'assise di Palermo in trasferta all'aula bunker Milano. Dove non c'era per le minacce ricevute il pm Di Matteo.

Il papello con le richieste di Riina consegnato a Mancino e la strage di Capaci anticipata per scalzare Giulio Andreotti nella corsa al Quirinale. Dopo quel botto spaventoso, gli uomini di Cosa Nostra brindarono due volte. Ci sono tutti i retroscena della Trattativa Stato – mafia nella deposizione di Giovanni Brusca, l’ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d’assise di Palermo in trasferta all’aula bunker Milano.
“Riina diceva che ad Andreotti dovevamo rompere le corna, ostacolandolo, non facendolo diventare presidente della Repubblica. E ci siamo riusciti, anche anticipando la strage Falcone. Dopo il 23 maggio, Riina mi disse: con una fava abbiamo preso due piccioni” ha detto il pentito, nella prima delle tre udienze milanesi programmate per la sua deposizione. L’ex padrino di San Giuseppe Jato è diventato collaboratore di giustizia nel 2000, iniziando a raccontare dei rapporti di Cosa Nostra con la politica soltanto alcuni anni dopo. “Perché non raccontai subito dei rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri? Decisi di dire tutto quello che sapevo dopo aver incontrato Rita Borsellino che voleva sapere la verità sulla morte del fratello. A lei io diedi l’anima e da quel momento non mi interessò più di mafia, di giustizia, di niente” ha detto Brusca, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi.
Sui banchi dell’accusa svetta l’assenza del pm Nino Di Matteo: l’uomo che forse più di tutti conosce i vari rivoli del processo sul patto Stato – mafia è stato bersaglio continuo di pesanti minacce di morte da parte del boss Totò Riina, che proprio a Milano è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Opera. Il nome del boss corleonese è citato a più riprese da Brusca, che ha raccontato alla corte i retroscena del biennio stragista, prequel del nuovo patto Stato-mafia.
Tutto comincia nel 1991, quando Riina illustra ai suoi luogotenenti il piano di aggressione allo Stato. “Nel corso di una riunione, nel ’91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse: gli dobbiamo rompere le corna. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. La prima vittima della furia corleonese è Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del 1992 sul lungomare di Mondello. “La priorità degli omicidi la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: si è trattato di una vendetta con effetto politico, in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima” ha spiegato il boss di San Giuseppe Jato, che all’epoca svolse un ruolo fondamentale nell’intelligence di morte interna a Cosa Nostra. “Mannino doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”. Anche l’ ex ministro Calogero Mannino – così come lo stesso Brusca, Riina e altre otto persone tra boss mafiosi, politici e ufficiali dei carabinieri – è accusato di violenza a corpo politico dello Stato nel processo sulla trattativa, ma ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato.
Dopo i politici, Cosa Nostra decide di colpire Falcone, distruggendo nello stesso momento le residue ambizioni che Andreotti nutriva per il Quirinale. “Io nell’attentato di Giovanni Falcone, nel suo piano esecutivo, ci sono entrato per sbaglio” ha spiegato Brusca, che in Cosa Nostra si era già guadagnato l’appellativo di Verru, cioè il porco. “Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone – continua Brusca – Toto’ Riina mi disse: si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”. Anche l’ex vicepresidente del Csm è imputato nel processo ma per falsa testimonianza. Brusca ha anche raccontato che dopo l’omicidio di Falcone, Riina ipotizzò di eliminare anche Pietro Grasso: attentato che poi per motivi tecnici non si fece mai.
È però la strage di Capaci lo spartiacque che terrorizza l’intero Paese. Brusca ha raccontato come l’omicidio di Falcone fosse in origine stato progettato fuori dalla Sicilia, a Roma, dove da qualche tempo il magistrato era andato a dirigere gli affari penali del ministero della Giustizia. “Siccome chi doveva farlo stava perdendo tempo Riina si rivolse a me e mi diede quel compito: voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato, infatti mi disse di impiegare mille chili di esplosivo”. Una decisione, quella di ammazzare Falcone in Sicilia, che contrappone, forse per la prima volta, le due anime di Cosa Nostra: quella di Riina e quella di Provenzano. “Avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità.Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: io lo devo uccidere qua”.
Il 23 maggio del 1992 a guardare le tre Fiat Croma blindate che sfilano sull’autostrada c’è anche Brusca: ha in mano un telecomando, che aziona quando mancano meno di tre minuti alle 18, scatenando quello che i boss definirono l’Attentatuni, il grande attentato per assassinare il loro più acerrimo nemico.

mercoledì 29 maggio 2013

Pdl, Bisignani: “Schifani e Alfano giuda che volevano liberarsi di Berlusconi”.

Pdl, Bisignani: “Schifani e Alfano giuda che volevano liberarsi di Berlusconi”


Le rivelazioni del faccendiere nel libro "L'uomo che sussurra ai potenti" secondo il quale molti nel centrodestra erano pronti a mollare il Cavaliere che dal canto suo ha corteggiato in tutti i modi Renzi. Le stragi di Palermo? "Ideate tra Mosca e Roma". E poi i legami tra Grillo e la Cia.

Berlusconi ha corteggiato in tutti i modi Matteo Renzi. Il Cavaliere ha rischiato di essere tradito dai suoi, compreso Renato SchifaniAlfano voleva mollare il leader Pdl. Le stragi che hanno ucciso Falcone eBorsellino sono state ideate tra Mosca e Roma. Poi i rapporti tra Grillo e i servizi segreti americani. Sono alcune delle verità di Luigi Bisignani nel libro-intervista realizzato con il giornalista Paolo Madron, “L’uomo che sussurra ai potenti” (edito da Chiarelettere, in vendita dal 30 maggio). Come dice il sottotitolo del libro il faccendiere, quello che Berlusconi definì “l’uomo più potente d’Italia”, racconta di “trent’anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate”. Bisignani è stato condannato in via definitiva a 2 anni e mezzo per l’inchiesta Enimont e ha patteggiato una pena di un anno e 7 mesi per il processo P4. 
I presunti traditori di Berlusconi e la corte a Renzi
Innanzitutto i presunti tradimenti (o tentativi di tradimento) all’interno del centrodestra. “Più che di tradimento vero e proprio – precisa Bisignani – parlerei di piccoli uomini creati da Berlusconi dal nulla e improvvisamente convinti di essere diventati superuomini”. Il faccendiere e ex giornalista parla di “molti Giuda”. “Il primo che mi viene in mente – continua – è Renato Schifani, avvocato di provincia di Palermo, ex presidente del Senato. Con Angelino Alfano, altro siciliano, lavoravano alla costruzione di una nuova alleanza senza Berlusconi”. Nella ricostruzione sui presunti complotti contro Berlusconi all’interno del Pdl, Bisignani assicura che tra chi tramava c’erano “in primis alcuni di An: GasparriLa RussaMantovano eAugello. Certamente non Altero Matteoli che è rimasto sempre leale”. “E tra le donne – aggiunge – la favorita di Angelino, Beatrice Lorenzin, premiata con il ministero della salute”. 
Quanto ad Alfano, in particolare, una volta insediato il governo Monti, si mosse per cercare alleanze per abbandonare Berlusconi. “Finché il governo Berlusconi stava in piedi, seppur con una maggioranza risicata, Alfano non si mosse. Cominciò a farlo non appena insediato l’esecutivo Monti, nel momento in cui per Berlusconi iniziava la fase più aspra di un calvario politico giudiziario che sembra non finire mai”. Secondo Bisignani, Alfano cercò la sponda di Casini “il quale in realtà lo ha sempre illuso. E non interrompendo mai un filo sotterraneo con Enrico Letta, all’epoca vicesegretario del Pd”. Il faccendiere ha poi aggiunto che “la sua corte cercò di costruirsela incontrando parlamentari nella casa ai Parioli che Salvatore Ligresti gli aveva fatto avere in affitto. E in più stringendo un asse con Roberto Maroni, che da ex potente ministro dell’Interno, dopo aver fatto fuori Umberto Bossi, preconizzava la morte civile del Cavaliere e l’investitura di Alfano come nuovo leader”.
A Bisignani arriva la risposta secca di Schifani: “Io mi occupo di politica e non di malaffare – dichiara a Porta a Porta – e non ho mai avuto il piacere di incontrare questo faccendiere, e la non veridicità delle sue parole è dimostrata dal fatto che io sono capogruppo del Pdl al Senato e Alfano è vicepremier”. 
Ma Berlusconi, secondo Bisignani, guardava altrove. Aveva già un’altra carta da giocare: Matteo Renzi. “Berlusconi lo ha corteggiato in tutti i modi” spiega nell’intervista. “Nei sondaggi riservati – prosegue – Renzi volava, tanto che Berlusconi non si sarebbe mai ributtato nella mischia. Solo Bersani fece finta di non accorgersene, mobilitando tutto l’apparato del partito per batterlo alle primarie. E scavandosi così la fossa”.
“Alfano? Pensava a costruirsi il monumento”
Il tentativo di “eliminare” politicamente Berlusconi partì proprio quando il Cavaliere fece diventare Alfano segretario politico del partito. Ma “una volta incoronato, nell’estate del 2011, contro il parere di tanti – spiega Bisignani nel libro – Alfano ha pensato soprattutto a costruire un monumento a se stesso”. Secondo quanto racconta il faccendiere l’ex ministro della Giusizia “se ne stava chiuso nel suo ufficio bunker in via dell’Umiltà, dove per chiunque era impossibile entrare. Passava più tempo con i giornalisti, su Facebook e Twitter che con i parlamentari e con la base del partito e gli esponenti del mondo imprenditoriale, bancario e culturale che pure avevano desiderio di conoscerlo. Inoltre Alfano ha una vera mania per i giochini sul cellulare, cui non rinuncia nemmeno durante le riunioni. E poi ha la debolezza di consultare sempre l’oroscopo e di regolare le giornate in base a quel che c’è scritto…”. E sui parlamentari del Pdl che definisce “Giuda” perché complottavano contro Berlusconi afferma: “Si montavano a vicenda, senza capire che, quando è ferito, Berlusconi dà il meglio di sé”.
“Monsignor Fisichella lavorava a un dopo Berlusconi”
In molti, insomma, secondo Bisignani, lavoravano a un dopo Berlusconi. Tra questi monsignor Rino Fisichella, a lungo rettore della Pontificia Università Lateranense e attualmente presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. “Con Alfano e il fidatissimo Maurizio Lupi lavorava sodo al dopo Berlusconi anche l’arcivescovo Rino Fisichella” sostiene Bisignani. “Alcuni incontri riservati con Casini e Lorenzo Cesa – ricorda – si svolsero proprio Oltretevere, in un ufficio nella disponibilità di Fisichella, il quale era molto amareggiato per non essere stato fatto cardinale da Joseph Ratzinger”.
“Falcone, Andreotti pensava che c’entrasse il Kgb”
Poi un po’ di sguardi verso il passato. Prima tappa, le stragi del 1992. Giulio Andreotti, ha sempre avuto un convincimento e cioè che i motivi delle stragi di mafia in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino “non si dovessero cercare a Palermo, ma fra Mosca e Roma”. Il sette volte presidente del Consiglio, secondo Bisignani, era convinto che Falcone sarebbe stato eliminato “perché collaborava a una spinosa indagine della magistratura russa sui finanziamenti del Kgb al Partito comunista”. Bisignani ricorda anche che Falcone avrebbe dovuto incontrare, due giorni dopo la strage, il procuratore penale di Mosca Valentin Stepankov: “Andreotti era certo che da lì bisognasse partire per capire meglio la strage, e su questo concordava anche Francesco Cossiga. Il quale era al corrente dell’iniziativa di Falcone”. Secondo il faccendiere “la sinistra ha sempre taciuto ma ora “credo che dovrà fare i conti con Piero Grasso, per anni capo della procura antimafia, ora presidente del Senato”. Dovrà fare i conti con lui “per la sua onestà intellettuale e perché, tra i primi atti, ha chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle stragi”. 
“Tangentopoli? Tutti, da Agnelli a De Benedetti, tentarono di bloccare i pm”Poi la vicenda Tangentopoli: “I protagonisti sotto assedio” del capitalismo italiano, “tutti indistintamente, da Agnelli a De Benedetti, cercarono disperatamente di bloccare il pool dei giudici di Milano”. La “fortezza” in cui si arroccò il capitalismo per respingere l’offensiva giudiziaria contro il sistema delle tangenti fu Mediobanca. “Fu lì – racconta Bisignani – che si tenne una riunione riservata presieduta da Enrico Cuccia, il custode di tutti i segreti. Vi presero parte, oltre all’avvocato Agnelli e a Cesare RomitiLeopoldo Pirelli accompagnato da Marco Tronchetti ProveraCarlo De Benedetti, Giampiero PesentiCarlo Sama per il Gruppo Ferruzzi e ovviamente l’amministratore delegato dell’istituto,Vincenzo Maranghi”.
Proprio Maranghi, dopo una perquisizione della polizia giudiziaria a Piazzetta Cuccia, organizzo nella notte “un pulmino che portò via tutte quelle carte dal contenuto inquietante” che non erano state scoperte. Agli investigatori era infatti sfuggita una parete mobile “celata dietro una libreria in una delle sale del piano nobile dell’istituto – dove si custodivano altri segreti”. Secondo Bisignani, “tutta la storia di Mediobanca è fitta di episodi simili” a quello sul “pulmino” di Maranghi, come il caso dei fondi neri scoperti nella Spafid, la fiduciaria di Mediobanca che “custodiva la contabilità ufficiale e parallela dei grandi gruppi”, fino alle “carte segrete su Gemina” rinvenute in “una botola” dalla Guardia di Finanza.
Tornando alla riunione “anti-pool” in Mediobanca “fu unanimemente decisa la totale chiusura a ogni possibile collaborazione con la Procura di Milano” nonché la “perentoria denuncia dei metodi che stavano destabilizzando il paese e la sua economia”. Cuccia incaricò Romiti di “coordinare ogni iniziativa” e ordinò “a quegli imprenditori che avevano interessi nell’editoria” di supportare la linea “senza tentennamenti”. Il fronte però si sfaldò presto un po’ perché i tg di Berlusconi, che “all’epoca non faceva parte del giro di Mediobanca”, cavalcarono l’onda di Mani Pulite ma soprattutto perché le delle ammissioni di un dirigente Fiat “fecero cambiare radicalmente la strategia decisa” facendo scattare il “tana libera tutti”.
Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm
Un altro retroscena riguarda Cossiga, il “presidente picconatore”. Nel novembre del 1991 l’allora presidente della Repubblica fece intervenire i carabinieri davanti al Csm, rivela Bisignani. “Non fidandosi in quel momento – racconta Bisignani – nonostante fossero suoi amici, dei ministri della Difesa Virginio Rognoni e dell’Interno Vincenzo Scotti, chiamò personalmente al telefono il comandante della legione dei carabinieri di Roma, il colonnello Antonio Ragusa, perché si preparasse a fare irruzione al Csm in piazza Indipendenza”. “In quella riunione – spiega Bisignani – il Csm doveva occuparsi dei rapporti tra i capi degli uffici giudiziari e i loro sostituti. Una materia che, secondo Cossiga, non era di sua pertinenza”. Secondo il racconto di Bisignani, Ragusa mise in stato d’allerta la vicina caserma: “I carabinieri rimasero al loro posto. Ma Ragusa che era in contatto telefonico diretto con Cossiga, entrò da solo negli uffici di piazza Indipendenza e convinse il vicepresidente Giovanni Galloni a togliere dall’ordine del giorno l’argomento incriminato”.
I rapporti tra i servizi segreti Usa e Beppe GrilloI rapporti dei servizi segreti degli Stati Uniti con Beppe Grillo sono il tema di un capitolo del libro intervista a Bisignani. Oltre a raccontare una vicenda già conosciuta come il pranzo tra Beppe Grillo e alcuni agenti e diplomatici americani e il dispaccio dell’ex ambasciatore Ronald Spogli, aggiunge: “Avendo avuto anch’io il dispaccio in mano, c’è qualcosa che andrebbe approfondito” in quanto sono stati occultati “chirurgicamente quasi tutti i destinatari sensibili” tra cui oltre alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e alla Cia “c’è da scommetterci ci fosse il Dipartimento dell’energia e la National Secuity Agency, che si occupa soprattutto di terrorismo informatico”. “Agli americani – spiega Bisignani – è noto il rapporto strettissimo che Grillo ha con due loro vecchie conoscenze. Franco Maranzana, un geologo controcorrente di 78 anni, considerato il suo più grande suggeritore su tematiche energetiche e ambientali non politically correct, in contrasto così con la linea ecologica che viene attribuita al movimento. E soprattutto Umberto Rapetto, un ex colonnello della Guardia di finanza”.
Secondo Bisignani l’incontro con Grillo dovrebbe essere avvenuto nel marzo del 2008 in quanto il rapporto dell’ambasciatore Spogli dal titolo “Nessuna speranza. Un’ossessione per la corruzione” reca la data del 7 marzo 2008. Con ogni probabilità, secondo Bisignani, quel documento è finito nelle mani del presidente Obama. Quindi fornisce le conclusioni del rapporto sulle idee di Grillo: “La sua miscela fatta di spumeggiante umorismo, supportata da dati statistici e ricerche, fa di lui un credibile interlocutore per capire dal di fuori il sistema politico italiano”. Inoltre, racconta che dopo le elezioni del febbraio scorso una delegazione di grillini “capeggiata dai due capigruppo in parlamento, Vito Crimi e Roberta Lombardi, è andata a omaggiare l’ambasciatore David Thorne. Lo stesso che, parlando agli studenti, ha pubblicamente lodato il nuovo movimento come motore necessario per le riforme di cui ha bisogno l’Italia”.
“Il Pdl voleva far cadere Monti subito, fu Letta a arrabbiarsi e a scongiurare la crisi”
La crisi del governo Monti poteva arrivare molto prima e non a fine dicembre. “Dopo pochi mesi di governo – riferisce Bisignani – mezzo Pdl voleva far cadere Monti. Ma fu proprio Letta, con voce alterata, a convincere tutti che lo spread sarebbe schizzato alle stelle e che la colpa sarebbe ricaduta tutta sul Cavaliere che a quel governo aveva appena dato appoggio”. Sul ruolo di Gianni Letta, Bisignani ricorda anche che quando Berlusconi e Fini fecero saltare l’accordo sulla Bicamerale, “fece sapere a D’Alema che il Cavaliere aveva commesso un errore”. “Allo stesso modo – ricorda – nel febbraio del 1996 dissentì dal no di Berlusconi a un governo guidato da Antonio Maccanicogrand commis di Stato che avrebbe aperto le porte a una collaborazione tra Forza Italia e la sinistra. La bocciatura di Maccanico segnò la successiva vittoria elettorale dell’Ulivo di Romano Prodi”.
“Scalfari ad ogni scoop mi regalava champagne”
Spazio anche ai ricordi personali nei rapporti con i personaggi più influenti della stampa italiana. Nel libro sono descritti i rapporti con i direttori dei giornali più importanti. Di Eugenio Scalfari ricorda di avergli offerto diverse notizie quando era capo ufficio stampa del ministero del Tesoro Gaetano Stammati. “Ogni volta che lo aiutavo a fare uno scoop – ricorda – mi mandava una bottiglia di champagne. Credo che fosse altrettanto con un’altra sua fonte, Luigi Zanda, portavoce di Francesco Cossiga, al Viminale e poi alla presidenza del consiglio, con il quale credo abbia conservato una forte amicizia”. Sul direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli invece dice: “Sempre compassato, dotato di una camaleontica capacità di infilarsi tra le pieghe del tuo discorso e di una grande dialettica, non sufficiente però a nascondere il fatto di non aver quasi mai un’opinione troppo discorde da quella dell’interlocutore: democristiano con i democristiani, giustizialista con i giustizialisti, statalista o liberista a seconda di chi ha davanti”. Bisignani racconta inoltre di aver favorito i suoi rapporti con Geronzi ma non con D’Alema “visto che i due si detestavano cordialmente”. “E durante il governo Berlusconi – ricorda – i motivi di contatto sono stati molteplici”.
Papa Francesco e la riforma dello Ior
In un passaggio del libro Bisignani parla anche delle mosse future di papa Francesco per trasformare lo Ior: “Secondo alcune autorevoli indiscrezioni lo riformerà trasformandolo in una vera banca della solidarietà al servizio dell’evangelizzazione. Uno strumento di aiuto per le chiese povere e per le missioni sparse nel mondo. I centri missionari saranno uno dei punti fondamentali di papa Francesco, secondo la miglior tradizione dei gesuiti”. Secondo Bisignani, la riforma dello Ior avverrà attraverso la riclassificazione di tutti i conti e saranno “autorizzati solo quelli che fanno capo ufficialmente a congregazioni e ordini religiosi. Nessuno potrà più gestire fondi, depositi e titoli se non nell’esclusivo interesse di enti religiosi”. Bisignani ha quindi spiegato che “la Curia conosce bene le sue intenzioni”. “Non fu un caso – ha aggiunto – se nel conclave precedente, per scampare il pericolo della sua salita al soglio pontificio come voleva il suo grande elettore di allora, Carlo Maria Martini, gesuita come lui, gli fu preferito Ratzinger. Meglio conosciuto nei palazzi apostolici e quindi considerato più malleabile”.
Cairo editore di La7? “Facilita future alleanze”Telecom ha venduto La7 a Urbano Cairo, preferendolo al fondo Clessidra, perché “si dice nell’ambiente che si è scelto il contendente finanziariamente più debole così da facilitare una possibile futura alleanza con Diego Della Valle o con De Benedetti, a seconda di come butterà la politica”. In particolare sull’interesse di De Benedetti per La7, Bisignani sostiene che l’Ingegnere sarebbe stato disponibile all’acquisto “però solo con un’adeguata dote, quella che poi il consiglio Telecom ha concesso proprio a Cairo e non a lui, secondo me facendolo irritare. Vedrà che alla fine rientrerà nella partita”. Infine “ad accelerare la vendita de La7 – racconta – ha contribuito anche lo studio legale Erede con una lettera che nelle ore che precedettero il consiglio d’amministrazione decisivo”. Del legale Bisignani ricorda che “ha assistito Cairo nell’operazione e ha ottimi rapporti con De Benedetti”.