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mercoledì 23 luglio 2014

Fede: “La storia di Berlusconi? Mafia, mafia, mafia. Sosteneva famiglia Mangano”. - Giuseppe PIpitone

Fede: "Storia di Berlusconi? Mafia, mafia" "Dell'Utri sa e 'mangia', ha 70 conti esteri" 

In una conversazione registrata di nascosto dal suo personal trainer, l'ex direttore del Tg4 parla dei rapporti tra il fondatore della Fininvest, Dell'Utri e Cosa nostra. E ai pm di Palermo racconta di un incontro durante il quale l'ex Cavaliere raccomandò al suo braccio destro, ora in carcere per concorso esterno, di "ricordarsi" della famiglia del mafioso all'epoca detenuto e sotto interrogatorio. ll giornalista: "Tutto falso, mie dichiarazioni manipolate".
Quando Marcello Dell’Utri veniva a Palermo doveva ricordarsi della famiglia di Vittorio Mangano, doveva ricordarsi di “sostenerla”. In che modo e perché dovesse sostenerla è un mistero. Ma per evitare che se ne dimenticasse, Silvio Berlusconi in persona, almeno in un’occasione, si è adoperato per rammentarglielo. A raccontarlo ai pubblici ministeri di Palermo non è un mafioso pentito, e non è nemmeno un collaboratore di giustizia. L’inedito episodio arriva invece dalla viva voce di un uomo che per oltre vent’anni è stato al fianco dell’ex premier: Emilio Fede.
L'ex direttore del Tg4 ha raccontato ai pm di un incontro tra Berlusconi e lo stesso Dell’Utri, appena arrivato a Milano dopo un soggiorno a Palermo. Ad Arcore, Fede si sta intrattenendo con l’ex premier, quando ecco che arriva Dell’Utri. “Mi alzai per allontanarmi” dice Fede interrogato da Antonino Di Matteo e Roberto Tartaglia nel maggio scorso. “Lo scambio di frasi è stato brevissimo” aggiunge. E poi spiega che Berlusconi, ancor prima di salutare l’ex senatore oggi detenuto, esordisce immediatamente con: “Hai novità? Mi raccomando ricordiamoci della sua famiglia, ricordiamoci di sostenerla”.
La famiglia da sostenere è quella di Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova, l’ex stalliere di Villa San Martino, l’uomo assunto dall’amico Marcello nel 1974 per garantire la protezione della famiglia Berlusconi. Ma sostenerla come? E perché? “Chiedono riferimenti su di te” dice Marcello all’amico Silvio, sotto gli occhi di Fede. Per i magistrati i riferimento è agli interrogatori in quel momento in corso, durante i quali a Mangano, che era detenuto, veniva chiesto appunto dei rapporti con l’ex presidente di Publitalia e con Berlusconi.
L’ex direttore del Tg4 non ha saputo collocare con certezza l’evento nel tempo: per Fede il rapido scambio di battute tra Dell’Utri e Berlusconi sarebbe di poco antecedente alla discesa in campo dell’ex cavaliere, nel 1994. Mangano però all’epoca era libero: finirà dentro soltanto dopo, ed è per questo che per i magistrati l’episodio è verosimilmente collocabile tra il 1995 e il 1996.
Dalle parti di Arcore quello è un periodo difficile : la Lega ha da poco fatto cadere il primo governo Berlusconi, Dell’Utri è finito indagato dalla procura di Palermo per concorso esterno a Cosa Nostra, mentre Mangano viene arrestato e sbattuto nel supercarcere di Pianosa in regime di 41 bis. È lì che i pm lo interrogano, che gli “chiedono riferimenti” su Berlusconi, sul periodo passato ad Arcore. La bocca del boss di Porta Nuova, però, resta cucita. Ed è per questo che anni dopo Marcello e Silvio lo eleggeranno al rango di loro “eroe” personale.
Perché se avesse parlato, Mangano di cose da raccontare ne avrebbe avute parecchie. Ricordi in bianco e nero, degli anni ’70, quando si trasferisce con la famiglia ad Arcore, dove ogni mattina accompagna a scuola i piccoli Marina e Piersilvio, che poi ogni pomeriggio giocano con sua figlia Cinzia, oggi detenuta a sua volta per mafia.
Ma non solo. Perché il fil rouge che unisce l’ex cavaliere al boss di Porta Nuova non si ferma agli anni ’70. Continua anche dopo. Continua per esempio il 26 settembre del 1993, quando Giovanni Brusca legge sull’Espresso che Dell’Utri sta creando un nuovo partito: il settimanale racconta anche del vecchio lavoro da fattore di Arcore di Mangano. Una storia che Brusca non conosce. Ma che fa comodo a Cosa Nostra, in quel momento precipitata in una situazione di grave difficoltà: Riina è in carcere, la trattativa a suon di bombe con lo Stato non ha portato i risultati sperati, mentre le condizioni carcerarie per i boss detenuti sono sempre più difficili. È così che Mangano torna a Milano nel novembre del 1993 e prende un appuntamento con Dell’Utri, come risulta dalle stesse agende dell’ex senatore.
Secondo Brusca a fare da cerniera tra Dell’Utri e Mangano sono le cooperative che gestiscono la pulizia degli uffici Fininvest: sono gestite da Antonino Currò e Natale Sartori, due messinesi amici di vecchia data del boss di Porta Nuova, che tra i loro dipendenti hanno assunto anche due delle tre figlie di Mangano. È un legame forte quello tra Sartori e Mangano: quando il boss di Porta Nuova viene arrestato, l’imprenditore messinese si precipita a Palermo. E dall’altra parte la conoscenza tra Sartori e Dell’Utri risale agli anni ’80. Sartori e Currò verranno poi processati e assolti per mafia. “Sono arrivate le arance” sarebbe, secondo Brusca, il messaggio in codice per comunicare ai piani alti di Fininvest che Mangano era a Milano, negli stessi mesi in cui secondo la procura di Palermo viene siglato il nuovo Patto Stato-mafia.
Passa un anno e Dell’Utri finisce indagato per mafia, mentre Mangano viene arrestato: è da quel momento, che Berlusconi chiede all’amico Marcello di ricordarsi della famiglia Mangano. Di sostenerla. Come e perché non è dato sapere. Rimane solo un frammento di conversazione, ascoltato da Fede e messo a verbale vent’anni dopo, quando ai pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia arriva la registrazione di una conversazione dalla procura di Monza. Un file realizzato con il telefonino da Gaetano Ferri, personal trainer di Fede, che nel luglio del 2012 registra una conversazione con l’ex direttore del Tg4, all’insaputa di quest’ultimo.
Nella registrazione all’esame degli inquirenti si sente Fede che spiega alcuni passaggi dei collegamenti tra Arcore, Dell’Utri e Cosa Nostra. In un brano pare fare riferimento all’incontro Berlusconi-Dell’Utri citato nella deposizione ai pm. “Mangano era in carcere. Mi ricordo che Berlusconi arrivando… ‘hai fatto?’…’sì sì..gli ho inviato un messaggio… gli ho detto a Mangano: sempre pronto per prendere un caffè’”. 
Spiega Fede a Ferri: “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano attraverso Marcello” spiega Fede al suo interlocutore. Che ribatte: “Però era tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Si, si era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che investiva” risponde Fede. Poi il giornalista si pone una domanda retorica con risposta annessa: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare”. Aggiunge Fede: “Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perche’ lui e’ l’unico che sa. Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell’Utri?”. Quindi il giornalista fornisce al suo personal trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico: “La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”.
“E’ tutto falso, l’ho già detto ai magistrati e ho denunciato quel truffatore per calunnia e minacce gravi”, replica Fede all’Ansa. “Lui ha manipolato le mie dichiarazioni”. In serata è intervenuto anche il legale di Marcello Dell’Utri, Giuseppe Di Peri: “In relazione alla conversazione tra Ferri e Fede, registrata dallo stesso Ferri, l’ex direttore del Tg4 chiarisce immediatamente ai pm, durante l’interrogatorio di maggio, lo spessore criminale del suo interlocutore, aduso a calunniare e a estorcere denaro”. Secondo il legale, “quel che risulta in buona sostanza dall’interrogatorio di Fede è che lo stesso abbia escluso in modo categorico di essere a conoscenza di comportamenti men che leciti da parte di Berlusconi e Dell’Utri o di sapere di conti esteri attribuiti a Dell’Utri”. E i conti all’estero di Dell’Utri? “Fede – ha spiegato il legale – ha precisato inoltre ai magistrati che la circostanza che Dell’Utri sarebbe intestatario di ben 70 conti esteri è frutto di una vera e propria manipolazione della conversazione effettuata dallo stesso Ferri”. “La registrazione – ha concluso – non è altro che un’ulteriore visibile tentativo di strumentalizzazione a fini utilitaristici”. 
La registrazione dovrà essere esaminata, ma esiste. Dal file audio emergono anche vicende più legate all’attualità: “A Samorì (Gianpiero Samorì, imprenditore modenese accreditato a un certo punto come delfino di Berlusconi, ndr) che voleva passare con Berlusconi io gli avevo dato una mano… poi è intervenuto Dell’Utri e gli faccio rivolgiti a Dell’Utri, ma stai attento perché Dell’Utri è un magna magna. Mi ha detto Samorì ‘cazzo se non avevi ragione… gli ho chiesto mettimi in lista e sai cosa mi ha chiesto: 10 milioni di euro’”.

giovedì 12 dicembre 2013

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”


Ci sono tutti i retroscena del patto tra Cosa nostra e le Istituzioni nella deposizione di Giovanni Brusca, l'ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d'assise di Palermo in trasferta all'aula bunker Milano. Dove non c'era per le minacce ricevute il pm Di Matteo.

Il papello con le richieste di Riina consegnato a Mancino e la strage di Capaci anticipata per scalzare Giulio Andreotti nella corsa al Quirinale. Dopo quel botto spaventoso, gli uomini di Cosa Nostra brindarono due volte. Ci sono tutti i retroscena della Trattativa Stato – mafia nella deposizione di Giovanni Brusca, l’ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d’assise di Palermo in trasferta all’aula bunker Milano.
“Riina diceva che ad Andreotti dovevamo rompere le corna, ostacolandolo, non facendolo diventare presidente della Repubblica. E ci siamo riusciti, anche anticipando la strage Falcone. Dopo il 23 maggio, Riina mi disse: con una fava abbiamo preso due piccioni” ha detto il pentito, nella prima delle tre udienze milanesi programmate per la sua deposizione. L’ex padrino di San Giuseppe Jato è diventato collaboratore di giustizia nel 2000, iniziando a raccontare dei rapporti di Cosa Nostra con la politica soltanto alcuni anni dopo. “Perché non raccontai subito dei rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri? Decisi di dire tutto quello che sapevo dopo aver incontrato Rita Borsellino che voleva sapere la verità sulla morte del fratello. A lei io diedi l’anima e da quel momento non mi interessò più di mafia, di giustizia, di niente” ha detto Brusca, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi.
Sui banchi dell’accusa svetta l’assenza del pm Nino Di Matteo: l’uomo che forse più di tutti conosce i vari rivoli del processo sul patto Stato – mafia è stato bersaglio continuo di pesanti minacce di morte da parte del boss Totò Riina, che proprio a Milano è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Opera. Il nome del boss corleonese è citato a più riprese da Brusca, che ha raccontato alla corte i retroscena del biennio stragista, prequel del nuovo patto Stato-mafia.
Tutto comincia nel 1991, quando Riina illustra ai suoi luogotenenti il piano di aggressione allo Stato. “Nel corso di una riunione, nel ’91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse: gli dobbiamo rompere le corna. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. La prima vittima della furia corleonese è Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del 1992 sul lungomare di Mondello. “La priorità degli omicidi la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: si è trattato di una vendetta con effetto politico, in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima” ha spiegato il boss di San Giuseppe Jato, che all’epoca svolse un ruolo fondamentale nell’intelligence di morte interna a Cosa Nostra. “Mannino doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”. Anche l’ ex ministro Calogero Mannino – così come lo stesso Brusca, Riina e altre otto persone tra boss mafiosi, politici e ufficiali dei carabinieri – è accusato di violenza a corpo politico dello Stato nel processo sulla trattativa, ma ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato.
Dopo i politici, Cosa Nostra decide di colpire Falcone, distruggendo nello stesso momento le residue ambizioni che Andreotti nutriva per il Quirinale. “Io nell’attentato di Giovanni Falcone, nel suo piano esecutivo, ci sono entrato per sbaglio” ha spiegato Brusca, che in Cosa Nostra si era già guadagnato l’appellativo di Verru, cioè il porco. “Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone – continua Brusca – Toto’ Riina mi disse: si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”. Anche l’ex vicepresidente del Csm è imputato nel processo ma per falsa testimonianza. Brusca ha anche raccontato che dopo l’omicidio di Falcone, Riina ipotizzò di eliminare anche Pietro Grasso: attentato che poi per motivi tecnici non si fece mai.
È però la strage di Capaci lo spartiacque che terrorizza l’intero Paese. Brusca ha raccontato come l’omicidio di Falcone fosse in origine stato progettato fuori dalla Sicilia, a Roma, dove da qualche tempo il magistrato era andato a dirigere gli affari penali del ministero della Giustizia. “Siccome chi doveva farlo stava perdendo tempo Riina si rivolse a me e mi diede quel compito: voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato, infatti mi disse di impiegare mille chili di esplosivo”. Una decisione, quella di ammazzare Falcone in Sicilia, che contrappone, forse per la prima volta, le due anime di Cosa Nostra: quella di Riina e quella di Provenzano. “Avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità.Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: io lo devo uccidere qua”.
Il 23 maggio del 1992 a guardare le tre Fiat Croma blindate che sfilano sull’autostrada c’è anche Brusca: ha in mano un telecomando, che aziona quando mancano meno di tre minuti alle 18, scatenando quello che i boss definirono l’Attentatuni, il grande attentato per assassinare il loro più acerrimo nemico.

giovedì 5 settembre 2013

Mafia, i giudici: “Dell’Utri mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa nostra”.

Marcello dell'Utri

Depositate le motivazioni della condanna in appello dell'ex senatore Pdl. "Condotta illecita andata avanti per un ventennio, nessun imbarazzo nei rapporti con i mafiosi". E il futuro premier "abbandonò il proposito di farsi proteggere con rimedi istituzionali". La Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza chiedendo di motivare meglio la colpevolezza per gli anni tra il 1977 e il 1992.

La condotta illecita del senatore Marcello Dell’Utri è “andata avanti nell’arco di un ventennio”, con una serie di comportamenti “tutt’altro che episodici, oltre che estremamente gravi e profondamente lesivi di interessi di rilevanza costituzionale”. Lo scrivono i giudici della terza sezione della corte d’appello di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, che hanno condannato l’ex senatore Pdl e braccio destro di Silvio Berlusconi a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Le motivazioni sono state depositate ieri. Dell’Utri è stato condannato in appello lo scorso 24 marzo, dopo l’annullamento della Corte di Cassazione con rinvio ad altra sezione d’appello. La corte conferma il ruolo di Dell’Utri come “mediatore” del “patto” tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra, concertizzatosi per esempio con l’arrivo ad Arcore del mafioso Vittorio Mangano in veste di “protettore” della famiglia Berlusconi. 
I giudici di appello ritengono provato il concorso esterno di Marcello Dell’Utri a Cosa nostra fino al 1992, mentre secondo la Cassazione la condanna era stata sufficientemente provata per le contestazioni fino al 1977 e non per quelle successive: “In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992)  ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese (Silvio Berlusconi, ndr) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione”. I giudici spiegano di aver sottoposto i fatti relativi agli anni più recenti “a nuova valutazione”, e di essere giunti alla conclusione che “è incontestabilmente emersa la permanenza del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa per tutto il periodo in esame e anche nel periodo in cui Dell’Utri era andato a lavorare da Rapisarda (l’imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, ndr) lasciando l’area imprenditoriale di Berlusconi e anche per il tempo successivo al 1992″. 
Quanto all’ex presidente del Consiglio, “a seguito della sentenza della cassazione era stato definitivamente accertato che Dell’Utri, BerlusconiCinàBontade e Teresi (questi ultimi tre boss mafiosi, ndr) avevano siglato un patto in base al quale l’imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione”. I giudici ricordano quindi Vittorio Mangano, lo “stalliere di Arcore”, assunto proprio su consiglio di Dell’Utri. “Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore”. Per la Corte, invece, “il rapporto tra i due non si è mai interrotto almeno fino al 1992 e ha subito delle forzate interruzioni solo per i periodi di detenzione di Mangano, affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova. La continuità della frequentazione, l’avere pranzato in diverse occasioni con lui sono circostanze che hanno consentito di escludere che i rapporti possano essere stati determinati da paura”. “Del resto – puntualizza il collegio -, Dell’Utri non ha mai dimostrato di temere i contatti con i boss mafiosi e di concludere accordi con loro”. Il futuro presidente del Consiglio, osserva la Corte, “abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso ma sfiorato) di farsi proteggere da rimedi istituzionali, è rientrato sotto l’ombrello di protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi ma all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”. 
Dell’Utri è “ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992″.  I giudici ricordano il “modo disinvolto” con il quale l’imputato “era ormai abituato a entrare in contatto con soggetti appartenenti ad ambienti criminali e mafiosi”. “La personalità dell’imputato – scrivono i giudici – appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo”. “In tutto il periodo di tempo oggetto della contestazione, cioè dal 1974 al 1992, ha con pervicacia ritenuto di agire in sinergia attiva con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti-Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione”. Dai “soggetti mafiosi” il politico “non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli avevano dato una possibilità di farlo”. Nel corso del ventennio preso in esame dall’inchiesta avviata negli anni Novanta dalla Procura di Palermo, l’uomo che è stato la mente organizzativa della nascita di Forza Italia “non ha mai provato nessun imbarazzo o indignazione nell’intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo”. 
Nelle motivazioni, la Corte d’appello di Palermo ha espresso un “giudizio di inattendibilità intrinseca del collaborante Gaetano Grado”, che aveva accusato Dell’Utri di aver fatto da tramite nel riciclaggio di denaro proveniente da un traffico di droga dalle cosche nell’attività di realizzazione di Milano 2, il primo grande intervento edilizio realizzato da Silvio Berlusconi. I fatti da lui enunciati “non possono considerarsi idonei a superare neppure la soglia di mero indizio”.