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venerdì 20 luglio 2018

Trattativa Stato-mafia, i giudici: “Da Berlusconi soldi a Cosa nostra tramite Dell’Utri anche da premier e dopo le stragi”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa Stato-mafia, i giudici: “Da Berlusconi soldi a Cosa nostra tramite Dell’Utri anche da premier e dopo le stragi”

Nelle motivazioni della sentenza Trattativa vengono dettagliate le elargizioni di Silvio Berlusconi (già a Palazzo Chigi) ai mafiosi tramite il co-fondatore di Forza Italia: "È determinante rilevare che tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994". Non solo. Secondo i giudici, lo stalliere di Arcore - e rappresentante dei clan - Vittorio Mangano era informato in anteprima di novità legislative relative alla custodia cautelare direttamente dal fondatore di Publitalia "per provare il rispetto dell'impegno assunto con i mafiosi".

L’Italia ha avuto un presidente del consiglio che pagava Cosa nostra mentre sedeva a Palazzo Chigi. E non negli anni Cinquanta, ma almeno fino alla fine del 1994 quando la mafia aveva già mostrato il suo volto più feroce: aveva fatto a pezzi Giovanni FalconeFrancesca Morvillo, Paolo Borsellino, otto agenti di scorta, dieci civili, comprese due bambine. Quel presidente del consiglio si chiama Silvio Berlusconi ed elargiva denaro ai mafiosi sempre nello stesso modo: tramite il fido Marcello Dell’Utri. Ne sono sicuri i giudici della corte d’Assise di PalermoE lo scrivono nelle motivazioni della sentenza che ha condannato l’ex senatore di Forza Italia a dodici anni di carcere alla fine del processo sulla Trattativatra pezzi dello Stato e Cosa nostra.
L’ex parlamentare – recentemente scarcerato per motivi di salute – è stato condannato per violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Ha cioè trasmesso al primo governo della Seconda Repubblica la minaccia di Cosa nostra: la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Che in qualche modo cede. E inserisce una piccola leggina pro mafia in un decreto legge che non aveva visto nessuno. Ma della cui esistenza Vittorio Mangano fu informato da Marcello Dell’Utri. Che di quel governo non faceva parte.

“Berlusconi sapeva dei contatti tra Dell’Utri e Cosa nostra” – D’altra parte quell’esecutivo minacciato dai boss era presieduto da un uomo che i boss li paga da anni. Almeno fino al 1992, diceva la Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva Dell’Utri per concorso esterno. I giudici presieduti da Alfredo Montalto, però, la pensano diversamente. Ci sono “ragioni logico-fattuali che conducono a non dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano (ma, in altri casi, anche da Gaetano Cinà). Il fatto che Berlusconi fosse stato sempre messo a conoscenza di tali rapporti è, d’altra parte, incontestabilmente dimostrato dal ricordato esborso, da parte delle società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro, poi, effettivamente versate a  Cosa nostra. Dell’Utri, infatti, senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme recapitate ai mafiosi”, scrivono nelle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza depositate nel giorno dell’anniversario della strage di via d’Amelio.
“Da Berlusconi soldi a Cosa nostra fino al dicembre del 1994” – Il fatto che Berlusconi pagasse Cosa nostra, come detto, era noto ma fino ad oggi ritenuto provato solo fino al 1992, cioè prima dell’inizio delle stragi e a due anni dall’impegno politico dell’imprenditore. “È determinante rilevare che tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994 quando a Di Natale fu fatto annotare il relativo versamento di L. 250.000.000 nel libro mastro che in quel momento egli gestiva, perché ciò dimostra inconfutabilmente che ancora sino alla predetta data (dicembre 1994) Dell ‘Utri, che faceva da intermediario, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti con i mafiosi, attenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versare e a Cosa nostra”.

Il pentito: “Soldi dal serpente”. Cioè dal Biscione – I giudici si riferiscono a Giusto Di Natale, pentito della famiglia di Resuttana che ha raccontato di come Cosa nostra etichettasse con la parola “sirpiente” – cioè dal siciliano, serpente – il denaro ricevuto come “pizzo” dalle aziende dal Biscione e cioè da Berlusconi. “Una volta venne il Guastella (il killer Pino Guastella ndr) , non mi portò il denaro, ma mi disse di annotare 250 milioni di lire, dice: Scrivici u sirpiente, che queste sono le antenne televisive di Berlusconi che si trovano a Monte Pellegrino. Il serpente stava per il Biscione, insomma, volgarmente il Biscione che c’era nella pubblicità di Mediaset e invece di scrivere Biscione mi ha detto scrivi u sirpiente, in siciliano, per capire che si trattava delle antenne televisive”. A che periodo si riferisce Di Natale? “Siamo a fine anno, le grosse cifre entravano ogni volta a fine anno: ’94 siamo … nel fatto delle antenne televisive. Ogni gruppo di estorsioni, ogni estorsione aveva il suo referente diciamo”. E il referente di quell’estorsione è Vittorio Mangano.
“Dell’Utri parlava con Mangano parlava di legge” – Se Dell’Utri è la cinghia di trasmissionedella minaccia di Cosa nostra al governo Berlusconi, nel 1994 Mangano – lo stalliere di Arcore – rappresenta direttamente la volontà della Piovra. “Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui con il medesimo Mangano, così che non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di pressione che, come si detto, anche secondo la Corte di Cassazione, erano inevitabilmente insiti negli approcci di Vittorio Mangano e che, altrettanto inevitabilmente per la caratura criminale dei richiedenti, portavano seco l’implicita minaccia di ritorsioni, d’altra parte, già espressamente prospettata, come si è visto sopra, durante la precedente campagna elettorale”. Per i giudici è il passaggio fondamentale, cioè la prova che effettivamente il governo Berlusconi percepì la minaccia mafiosa.

Le leggi a favore dei boss raccontate “in anteprima” ai boss – Talmente tanto che – in almeno un’occasione – il primo esecutivo guidato da Forza Italia portò avanti iniziative legislative favorevoli a Cosa nostra. E Cosa nostra venne informata prima degli stessi ministri del governo Berlusconi. “Ci si intende riferire al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia(lo racconta il pentito Salvatore Cucuzza: “Per quanto riguardava il 416 bis, per quanto riguarda l’arresto sul 416 bis c ‘era stata una piccola modifica … “) senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazine da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. In pratica Mangano sapeva di modifiche di legge decise dal governo prima che ne fossero informati gli stessi ministri. Di che cosa si parla? “È stato effettivamente riscontrato che tra le pieghe nascoste del decreto 14 luglio 1994 n. 440, v’era anche una ‘piccola modifica‘ dell’art. 275 c.p.p. nella parte in cui stabiliva che per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. dovesse essere sempre applicata la misura della custodia cautelare in carcere salvo che non fossero acquisiti elementi tali da escludere la sussistenza delle esigenze cautelari. Si trattava, in sostanza, di quella presunzione di legge che, di fatto, imponeva sempre il carcere per gli indagati di mafia arrestati”. Tradotto: Mangano sapeva prima di molti ministri che il governo voleva alleggerire la norme antimafia e lo sapeva nonostante si trattasse di una norma “mai pubblicizzata e, anche per la sua tecnicalità, non ricavabile dalla lettura di giornali”.
“Leggi anticipate a Mangano per provare il rispetto degli impegni” – Cosa nostra sapeva di proposte di legge che non conosceva nessuno. E lo sapeva perché gliele raccontava Dell’Utri. “A ciò si aggiunga che quel decreto legge era stato deciso per intervenire su reati del tutto diversi da quelli di mafia (v. anche testimonianza Maroni, già riportata,a proposito della sua sorpresa quando gli fu fatta notare dal Procuratore Caselli la modifica concernente la comunicabilità delle iscrizioni nel registro degli indagati: “E io gli chiesi: come è possibile, che cosa c’entra la corruzione e la concussione, la custodia cautelare?”) e che, pertanto, non vi era ragione per la quale un soggetto estraneo al Governo, qual era Dell ‘Utri, fosse informato sino ai più minuti – e, si ripete, nascosti – dettagli di quel provvedimento idonei ad incidere anche sui reati di mafia”, sottolineano i giudici. E ancora: “Ora, il fatto che, invece, Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per “tranquillizzare” i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece”.

“B. destinatario finale” – Cosa vuol dire tutto questo? “Si ha definitiva conferma, pertanto, che anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”. Silvio Berlusconi, presidente del consiglio, già definito “utilizzatore finale” e da oggi anche destinatario finale della pressione di Cosa nostra. Pagata anche dopo le stragi. Dall’uomo che sedeva a Palazzo Chigi. È nata così la Seconda Repubblica italiana.
I soldi che Berlusconi elargiva a Cosa Nostra erano, in effetti, di Cosa nostra, L'impero economico che Berlusconi ha creato era il frutto della fideiussione ricevuta da Banca Rasini, la banca dei mafiosi che conservava e custodiva i soldi di Reina, Provenzano, Mangano e Calò. Praticamente, ne sono convinta, l'impero creato dal Berlusca era il riciclaggio del denaro sporco della mafia e Forza Italia è il partito voluto dalla mafia..

mercoledì 17 dicembre 2014

Protocollo Farfalla: 007, boss e segreti nei bracci speciali delle carceri. - Giuseppe Pipitone

Permessi premio e denaro contante <br>l’effetto Farfalla sui boss detenuti

La prima puntata dell’inchiesta sull’accordo segreto tra il Sisde di Mori e il Dap di Tinebra per monitorare i detenuti al 41 bis senza informare l’autorità giudiziaria. Pareva una leggenda ed invece tre mesi fa è saltato fuori l’appunto, oggi depositato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, con l’elenco di otto nomi di mafiosi disponibili a fornire notizie “sensibili” in cambio di “un idoneo compenso da definire”.


Un nome in codice preso in prestito da un romanzo francese, un appunto di sei pagine senza sigle e simboli, un elenco di boss stragisti detenuti da mettere sotto contratto come confidenti, informazioni provenienti dalle celle di massima sicurezza finite chissà dove e utilizzate non si sa in che modo. E’ la storia del patto top secret tra il Sisde di Mario Mori e il Dap di Gianni Tinebra, che decidono di monitorare le conversazioni tra i boss detenuti al 41 bis, a caccia di notizie ”sensibili” sugli orientamenti del gotha mafioso, senza informare l’autorità giudiziaria. Se fosse totalmente verificata, con tanto di bollo della Cassazione a renderla definitiva, quella sul Protocollo Farfalla sarebbe la storia di un’operazione d’intelligence border line, con gli agenti segreti che fanno scouting di confidenti tra i boss al 41 bis, ricavandone informazioni mentre la magistratura viene tagliata completamente fuori. E invece di verificato sul Protocollo Farfalla c’è molto poco, quasi niente: ci sono una serie di appunti, oggi agli atti del processo sulla Trattativa Stato mafia, qualche dichiarazione, e alcune ricostruzioni che definire inquietanti è poco.
Un nome in codice preso in prestito da un libro
Pezzi di un puzzle che incastrati tra loro compongono una storia di spie, di 007 penetrati nelle carceri di massima sicurezza senza lasciare traccia, di compensi elargiti a boss stragisti mentre sono detenuti al 41 bis. Un puzzle che comincia con un nome cifrato preso in prestito da un romanzo, Papillon, il libro ambientato nella prigione dell’Isola del Diavolo, nella Guayana francese. Protagonista del racconto, lo stesso autore, Henri Charriere, soprannominato Papillon per una farfalla tatuata sul torace. Ed è proprio prendendo spunto dalla letteratura che gli agenti del Sisde avrebbero deciso di definire “Farfalla” l’operazione d’intelligence messa in atto a partire dal 2003, quando a dirigere il servizio segreto civile è il generale Mario Mori, già fondatore del Ros, agente del Sid negli anni ’70, oggi imputato al processo sulla Trattativa Stato-mafia e in quello per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Nel 2003, il direttore del Dap, invece, è Gianni Tinebra, oggi procuratore generale di Catania, capo della procura di Caltanissetta che indagò sull’indagine di via D’Amelio prendendo per buona la testimonianza del falso pentito Vincenzo Scarantino, il piccolo spacciatore della Guadagna elevato al rango di boss stragista.
Sarebbero i contraenti del patto per tenere sotto controllo le carceri, e avere in diretta informazioni utili senza dover attendere le autorizzazioni della magistratura o riferirne i contenuti all’autorità giudiziaria. Tra loro c’è un appunto di sei pagine, nessuna firma, nessuna intestazione e solo la dicitura “riservato” stampata in cima al primo foglio: dentro ci sono i dettagli dell’operazione segreta, cioè la possibilità per gli 007 di gestire in via esclusiva i flussi d’informazione provenienti dal ventre molle delle carceri italiane. È fatto così il Protocollo Farfalla, oggi depositato al Processo Trattativa, in corso davanti la corte d’assise di Palermo. Ma non solo: perché oltre a quelle sei pagine c’è anche un elenco, i nomi di otto boss di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, detenuti in regime di 41 bis, che il Sisde nel giugno 2004 voleva mettere a libro paga.
Stragisti confidenti al 41 bisIn quell’elenco di nomi allegato al Protocollo, gli 007 comunicano quali detenuti hanno “pre-individuato” dopo averne testato la “disponibilità di massima” a “fornire informazioni” in cambio di “un idoneo compenso da definire”. Denaro quindi, proveniente dai fondi riservati dei Servizi da versare a soggetti esterni alle carceri, ma indicati dagli stessi boss carcerati. Tra i detenuti che nel maggio 2004 sono pronti a fare da confidenti ai servizi in cambio di soldi ci sono pezzi da Novanta come Fifetto Cannella, il boss di Brancaccio condannato all’ergastolo per la strage di Via d’Amelio,Vincenzo Boccafusca, il padrino del mandamento di Porta Nuova che ordinava omicidi al telefono mentre si trovava agli arresti domiciliari; Salvatore Rinella, capomafia di Trabia vicino al pentito Nino Giuffrè; più il catanese Giuseppe Maria Di Giacomo, autore di recente di alcune rivelazioni sulla reale identità di Faccia da Mostro, presunto killer che a cavallo tra apparati dell’intelligence e Cosa Nostra si muove sullo sfondo delle stragi del 1992.
In quei mesi del 2004 però i servizi vogliono assoldare anche boss di altre associazioni criminali. Ecco quindi che gli 007 indicano tra i possibili confidenti i camorristi Antonio Angelino e Massimo Clemente, più Angelo Antonio Pelle, esponente della ‘ndrangheta che qualche anno dopo riuscirà ad evadere dal carcere di Rebibbia. Quali siano le informazioni che Cannella fornisce agli agenti dei Sisde non è ad oggi dato sapere, come un mistero rimangono le modalità effettive con cui furono utilizzate in seguito quelle confidenze: cosa ne fanno gli agenti dell’intelligence dei racconti forniti dal boss di Brancaccio? Informazioni sicuramente interessanti dato che Cannella, che è un boss di primo livello, è inserito – secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori – nella cosiddetta SuperCosa, il gruppo riservato e segreto di uomini d’onore in seno a Cosa Nostra, creato all’inizio del 1991 da Totò Riina in persona. Dopo quell’appunto del giugno 2004, però, non c’è più traccia di ulteriori carteggi che certifichino le fasi successive dell’operazione Farfalla. E d’altra parte, fino a pochi mesi fa, l’esistenza stessa del Protocollo veniva messa in dubbio anche dagli addetti ai lavori: nonostante una copia dell’accordo tra il Sisde e il Dap fosse stata acquisita dalla procura di Roma già nel 2006: quella documentazione arriverà ai pm di Palermo, soltanto otto anni dopo.

Il caso Provenzano: “Spostatelo dal carcere di Terni”
Neppure Sebastiano Ardita, dirigente dell’ufficio detenuti del Dap tra il 2005 e il 2014 ha mai visto il Protocollo. L’attuale procuratore aggiunto di Messina, però, è testimone di alcuni fatti inconsueti mentre è dirigente dell’ufficio detenuti. Primo tra tutti, il tentativo di spostare Provenzano, subito dopo l’arresto, dal carcere di Terni al carcere di L’Aquila, dietro suggerimento di alcuni funzionari del Gom (il Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria). Perchè quella proposta di trasferimento? “Nel carcere abruzzese – ha detto il magistrato, testimoniando al processo di primo grado per la mancata cattura di Provenzano – era già detenuto un altro super boss, Piddu Madonia, per cui la scelta naturale era mettere Provenzano nel carcere di Terni, dove si erano recentemente fatti importanti investimenti a livello di sicurezza in previsione del trasferimento di Totò Riina. E dunque il trasferimento non si concretizzò, perchè comunque Terni offriva una sicurezza massima che non avrebbe consentito a Provenzano di entrare in contatto con nessun boss di primo livello”.
Poco tempo dopo però, sul quotidiano La Repubblica compare la notizia secondo la quale Giovanni Riina, secondogenito del capo dei capi, all’entrata di Provenzano nel carcere di Terni, avrebbe esclamato: “Questo sbirro qui l’hanno portato?”. “Fatto che – racconta sempre Ardita, che di questi fatti scrive nel libro Ricatto allo Stato – mi sorprese non poco dato che proprio in quei giorni ero andato in visita nel carcere di Terni e il direttore non mi aveva riferito nulla in proposito. Con una rapida chiamata ho subito verificato come quella notizia fosse destituita da ogni fondamento”. Nonostante lo scoop sui dissidi tra Provenzano e il figlio di Riina fosse falsa, iniziano delle continue pressioni sull’allora dirigente del Dap per spostare Provenzano da Terni. “Si formò un vero e proprio carteggio sulla mia scrivania con richieste di trasferimento di Provenzano. Iniziarono anche a fioccare gli esposti anonimi contro la mia persona. Provenzano però rimase a Terni ancora per un altro anno. Non c’era un reale motivo per spostarlo.”
In precedenza anche Massimo Ciancimino aveva raccontato ai magistrati dettagli sulla carcerazione di Provenzano. In particolare Ciancimino Junior riferisce che subito dopo l’arresto di Provenzano il signor Franco – ovvero il misterioso personaggio legato ai servizi che sarebbe stato il continuo contatto di Vito Ciancimino con apparati dello Stato – gli avrebbe rivelato l’episodio dello screzio tra Riina Junior e Provenzano suggerendogli di diffonderlo il più possibile. E sui giornali dunque la notizia arriva grazie al figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Alla fine però, il padrino corleonese viene effettivamente spostato, finendo nel carcere di Parma. Ed è nel penitenziario emiliano che Provenzano verrà poi ritrovato più volte ferito alla testa nella sua cella, dove non c’erano telecamere, che per un detenuto al 41 bis devono essere sempre attive. “Qui mi vogliono male”, sibilò Provenzano durante un incontro col figlio, quando ancora sembrava lucido, mentre oggi è in stato di coma farmacologico e la sua posizione è stata stralciata dal processo sulla trattativa. 

Permessi premio e denaro contante 
l’effetto Farfalla sui boss detenuti.


La seconda puntata della nostra inchiesta sull’accordo segreto tra il Sisde di Mori e il Dap di Tinebra che dal 2003 garantì la gestione ”riservata” dei flussi di informazioni provenienti dai detenuti al 41 bis, al di fuori del controllo della magistratura. Dal caso del boss Antonio Cutolo alla vicenda del pentito Sergio Flamia, tutti gli interrogativi dell’operazione di intelligence che oggi è al vaglio dei pm della trattativa.

Prima di essere acquisito dai pm di Palermo, prima di essere mostrato tre giorni fa in aula nel processo Trattativa all’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita, prima di essere oggetto d’inchieste giornalistiche, il Protocollo Farfalla era già finito agli atti di una procura, quella di Roma. Tra il 2006 e il 2007 l’ufficio inquirente capitolino prende visione dei documenti che fanno cenno al patto segreto tra il Sisde di Mario Mori e il Dap di Gianni Tinebra: e così appena due anni dopo la data riportata in quell’appunto riservato, il Protocollo arriva sui tavoli della procura di Roma, impegnata nelle indagini sulla gestione penitenziaria del boss camorrista Antonio Cutolo.
Farfalla di Rientro
Il caso Cutolo esplode nel 2005, quando il pm della Dda di Napoli Simona Di Monte, che conduce un’indagine sulla Camorra, registra la presenza del boss campano fuori dal carcere di Sulmona, dove doveva essere detenuto, essendo condannato all’ergastolo. “Ricevetti una telefonata dalla collega Di Monte: si era imbattuta in un camorrista, Antonio Cutolo che, nonostante dovesse essere detenuto, aveva partecipato ad una riunione fuori dal carcere”, ha raccontato giovedì scorso deponendo nel processo sulla Trattativa lo stesso Ardita, all’epoca direttore dell’Ufficio detenuti del Dap.  “Feci subito un controllo – continua Ardita – e mi accorsi che il direttore del carcere aveva declassificato la posizione di detenuto mafioso di Cutolo, che poteva addirittura vantare permessi d’uscita: ovviamente dopo il mio intervento, il boss fu subito classificato di nuovo come detenuto mafioso e gli fu applicato il regime di 41 bis”.
La procura di Napoli, a quel punto, apre un fascicolo sulla vicenda e interroga un ispettore della polizia penitenziaria, Alfredo Lapiccirella, e un dirigente amministrativo del Dap, Annarita Burrafatto: i due, però, subito dopo l’interrogatorio, avrebbero riferito i contenuti dei colloqui con i pm partenopei, coperti dal segreto istruttorio, ai loro diretti superiori.  A quel punto la procura di Roma apre un fascicolo ”parallelo”: nel 2009 i pm Erminio Amelio e Maria Monteleone avviano un’indagine che dopo due anni di approfondimenti si conclude con la richiesta e poi il rinvio a giudizio di Giacinto Siciliano, ex direttore del carcere di Sulmona, e di Salvatore Leopardi, capo dell’ufficio ispettivo del Dap. Cosa scoprono i pm della capitale? Amelio e Monteleone si fanno mandare le carte dai pm di Napoli e ricostruiscono come tra il 2005 e il 2006, Cutolo avesse manifestato l’intenzione di collaborare con la magistratura, raccontando anche diverse vicende inedite sulla sua cosca: Siciliano non avrebbe, però, avvertito l’autorità giudiziaria, limitandosi a girare quei verbali a Leopardi. Secondo l’accusa neanche Leopardi avrebbe avvertito la competente Procura di Napoli, riferendo invece i contenuti di quei verbali al colonnello Pasquale Angelosanto, in forza al Sisde: per questo motivo Leopardi e Siciliano sono finiti a processo per falso e omissione. Un processo in cui è stato invocato il segreto di Stato, e dove non verrà mai depositato il Protocollo Farfalla, nonostante fosse stato acquisito dalla procura di Roma dopo una perquisizione al Sisde.
Gli atti del Sisde che fanno riferimento all’operazione d’intelligence denominata Farfalla non vengono considerati rilevanti dagli inquirenti romani. 
Eppure quello che si verifica nel carcere di Sulmona ha caratteristiche molto simili a quanto previsto dal Protocollo: le informazioni che arrivano dai detenuti mafiosi vengono gestite in esclusiva dagli 007, senza che l’autorità giudiziaria ne fosse informata. In che modo quelle notizie provenienti dai boss siano poi state utilizzate dai servizi non è dato sapere.
Flamia, il picciotto confidente.
Un caso simile a quello di Cutolo si verifica qualche anno dopo a Palermo, al carcere Ucciardone, dove è detenuto Sergio Flamia, boss di Bagheria. Il picciotto di Cosa Nostra, durante la sua detenzione riceve diverse visite da parte di due persone che si presentano come avvocati: in realtà sono agenti dei servizi, dato che Flamia è un confidente dell’intelligence da diversi anni. Un raro caso di boss informatore, quello di Flamia, che prima di saltare il fosso e di collaborare coi magistrati, ha ammesso di aver avuto rapporti opachi con uomini dei servizi: forniva informazioni in cambio di denaro. Il “gancio” di Flamia nei servizi è un tale Enzo, che a volte si fa chiamare anche Roberto, e che i pm della procura di Palermo hanno già individuato, dopo aver messo a verbale il racconto del boss bagherese.
Sono costanti e proficui i rapporti di Flamia coi servizi: dopo aver soffiato agli 007 di un incontro tra boss di primo piano alle porte del comune in provincia di Palermo, dai fondi riservati dei servizi arrivarono al boss bagherese 160mila euro in contanti. Denaro consegnato a un emissario di Flamia, che in quel momento era detenuto, durante un incontro all’Hotel Zagarella: la stessa modalità che nel 2004 gli uomini del Sisde mettono nero su bianco nell’appunto al Protocollo, in cui spiegano di volere mettere a libro paga 8 boss detenuti al 41 bis, elargendo somme di denaro a soggetti esterni alle carceri indicati dagli stessi boss carcerati. Il rapporto di Flamia coi servizi però nasce prima del suo arresto: ai pm che indagano sulla Trattativa Stato mafia il boss ha raccontato che prima di essere formalmente affiliato a Cosa Nostra, di essere “punciuto” mentre un’immaginetta sacra veniva bruciata,  chiese il “permesso” agli 007 con cui era in contatto. E gli uomini dell’intelligence glielo accordarono: apparati dello Stato avrebbero dunque consigliato al boss di Bagheria, già considerato uomo di Cosa Nostra ma affiliato soltanto nel 2010, di entrare formalmente nell’organizzazione. E in seguito furono gli stessi agenti dei servizi a dare parere positivo al boss mafioso in merito alla sua intenzione di collaborare con la magistratura.
Ma c’è di più: nel 2008, infatti, Flamia sa in anticipo che sarebbe stato arrestato durante l’operazione Perseo. E sa anche che per un errore nella data di nascita riportata nel provvedimento di fermo, il suo arresto slitterà di qualche giorno: dal 16 al 19 dicembre 2008. A soffiargli quelle informazioni è sempre lo stesso Enzo, che poi si attiverà per far derubricare l’imputazione contestata a Flamia: da associazione mafiosa, il boss sarà accusato soltanto di assistenza agli associati. La vicenda Flamia è confluita nel fascicolo aperto dalla procura di Palermo sul Protocollo Farfalla: oltre all’identità dello 007 Enzo, i pm vogliono capire se le dichiarazioni fatte dal pentito che puntano a screditare Luigi Ilardo, principale fonte di prova del processo a Mario Mori per la mancata cattura di Provenzano, siano o meno arrivate su suggerimento degli stessi uomini dei servizi.
Rapporti border-line tra pezzi dello Stato e uomini di Cosa Nostra, notizie che dal ventre delle carceri di massima sicurezza arrivano sui tavoli degli 007 senza passare dall’autorità giudiziaria competente, denaro proveniente dai fondi riservati dei servizi finito sui conti correnti di familiari dei boss di Cosa Nostra: effetti diretti di quel Protocollo top secret siglato dieci anni fa, che per Rosi Bindi, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia non sarebbe più in vigore. Gli interrogativi da sciogliere nell’indagine sull’operazione Farfalla, però, rimangono ancora parecchi. (2-fine)

giovedì 10 gennaio 2013

Trattativa Stato-mafia, chiesti 11 rinvii a giudizio: “Istituzioni cercarono dialogo”. - Giuseppe Pipitone


Trattativa Stato-mafia, chiesti 11 rinvii a giudizio: “Istituzioni cercarono dialogo”


Gli ex ministri Mancino, accusato di falsa testimonianza, e Mannino hanno chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato, la posizione di Provenzano è stata stralciata per motivi di salute. Contestato l'attentato, con violenza o minaccia, a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, tutto aggravato dall'agevolazione di Cosa nostra.

Una ricostruzione lunga due udienze per chiedere il rinvio a giudizio di tutti gli 11 imputati della trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. È la richiesta che il sostituto procuratore Antonino Di Matteo ha avanzato al giudice Piergiorgio Morosini, che dall’ottobre scorso presiede l’udienza preliminare del patto sotterraneo siglato tra pezzi delle istituzioni e la mafia. Toccherà ora al gup decidere se accogliere le richieste dell’accusa. Sulla stessa vicenda è stata pubblicata anche la relazione conclusiva della commissione antimafia presieduta da Beppe Pisanu.
Il pm ha passato in rassegna tutti gli elementi raccolti nell’indagine condotta dalla procura di Palermo negli ultimi anni: dall’uccisione dell’europarlamentare Salvo Lima, primo atto di guerra di Cosa Nostra allo Stato, fino all’incarico di contattare Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri che l’ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano avrebbe ricevuto da Leoluca Bagarella. È a quel punto che, secondo il pm, si sarebbe siglato un nuovo patto tra la mafia e lo Stato. Il passaggio però non è piaciuto al boss corleonese, che ha infatti chiesto la parola per smentire di aver avuto contatti con elementi politici.
Insieme a Bagarella, sono imputati per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato anche i boss Totò Riina e Antonino Cinà, considerato il “postino” del papello, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, autore secondo i pm del primo input per aprire un contatto con Cosa Nostra, il senatore del Pdl Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato soltanto di falsa testimonianza dopo la sua deposizione al processo Mori-Obinu del febbraio scorso. Sia Mannino che Mancino hanno chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato.
Alla sbarra anche tre alti ufficiali dei carabinieri: i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. È invece imputato per calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro uno dei testimoni eccellenti dell’inchiesta: Massimo Ciancimino, “agganciato” da De Donno per organizzare i primi incontri tra il Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo. “Non pensavamo che Ciancimino arrivasse davvero a Riina” ha detto al fattoquotidiano.it lo stesso De Donno. Per i pm i colloqui tra i carabinieri e Vito Ciancimino sono il primo atto formale di “interlocuzione” tra le istituzioni e Cosa Nostra. Un dialogo sotterraneo che, nella ricostruzione della procura, dura dal 1992 fino al 1994, ed ha come oggetto una vera e propria negoziazione tra i pezzi delle istituzioni e la mafia.
Oggetto principale della trattativa sarebbe poi divenuto l’alleggerimento del 41 bis, obiettivo che si sarebbe realizzato nel novembre del 1993, quando l’allora guardasigilli Giovanni Conso non rinnovò oltre 300 provvedimenti di carcere duro a detenuti mafiosi. Ed è proprio per proseguire la trattativa che, secondo il pm, i carabinieri del Ros non arrestarono deliberatamente il boss Nitto Santapaola, “intercettato nella zona di Barcellona Pozzo di Gotto senza che ne venissero informati i magistrati”.
Un importante salvacondotto sarebbe poi stato assicurato al boss Bernardo Provenzano (per la posizione del quale nei giorni scorsi è stato disposto lo stralcio) localizzato nella zona di Mezzojuso nel 1995, e lasciato volontariamente libero dai militari. Il “ragioniere” di Cosa Nostra era in origine tra gli imputati della trattativa, ma il gup Morosini ha stralciato la sua posizione, dopo che i periti neuropsichiatrici hanno sancito la sua incapacità di presenziare alle udienze. Per il mancato arresto del padrino corleonese sono attualmente sotto processo Mori e Obinu: è per questo che Di Matteo ha chiesto d’inserire agli atti dell’inchiesta anche l’intero fascicolo del procedimento che vede i due carabinieri accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra.
Tra le decine di documenti dei faldoni che costituiscono l’inchiesta sulla trattativa, il pm ha prodotto anche una vignetta del disegnatore Giorgio Forattini. L’illustrazione, di poco successiva all’omicidio Lima, rappresenta l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti infilzato alle spalle da una lima. “Un’altra conferma – ha detto in aula Di Matteo – che l’omicidio Lima fu percepito come una minaccia al Governo allora in carica”. La chioma bianca dell’europarlamentare della Dc, rivolta nel sangue di Mondello è il prequel della trattativa Stato-mafia. “Una storia – ha detto sempre Di Matteo – nella quale la parte delle istituzioni che anche in nome di una inconfessabile ragion di Stato ha cercato e ottenuto il dialogo con la mafia”. Quel dialogo sotterraneo cercato da pezzi delle istituzioni avrebbe avuto come reazione “il convincimento negli uomini della mafia che le bombe pagano e determina la scelta della linea terroristica e un parziale cambiamento degli obiettivi da eliminare che non sono più i politici ma coloro i quali sono di ostacolo alla trattativa”. Alla fine della prima udienza anche il pentito Giovanni Brusca aveva chiesto di fare dichiarazioni spontanee. “La sinistra sapeva della trattativa – ha detto il collaboratore di giustizia – ma sono stato io il primo a dirlo: l’aveva detto già Riina in un processo e in quella sede aveva incluso nella Sinistra i comunisti”.