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mercoledì 26 gennaio 2022

Michele Ainis: “Se Draghi va al Quirinale si rischia un cortocircuito”. - Silvia Truzzi

 

IL COSTITUZIONALISTA - “Nel vuoto delle norme, il premier non dovrebbe scegliersi il successore”.

C’è la politica. E poi ci sono le regole, dentro cui la politica si dovrebbe muovere, anche se pare che il perimetro delle manovre sia più quello delle eccezioni. I partiti sembrano arresi agli scatoloni del presidente Mattarella, e dunque si ragiona – al di là delle rose più o meno sfiorite – attorno al nome di Mario Draghi. Ipotesi che pone problemi di “igiene costituzionale”. Su Repubblica Michele Ainis, costituzionalista di Roma Tre, ne ha analizzato uno, che riguarda la successione a Palazzo Chigi.

Professore, secondo una legge del 1988, in caso di impedimento temporaneo del presidente del Consiglio la supplenza spetta, in mancanza di diversa disposizione da parte del premier, al ministro più anziano. È il momento di Brunetta? O deciderà Draghi?

La stanza dei bottoni deve sempre avere una guida. La legge disciplina l’impedimento temporaneo, ma se Draghi si dimette perché eletto – non può assumere entrambe le cariche contemporaneamente – sarebbe un impedimento definitivo. Possiamo applicare per analogia la regola che lei ha citato. Ma qui tutto non torna. Per ragioni sistemiche: il presidente del Consiglio non può revocare i ministri e quindi non può nemmeno designare il suo successore come premier. Si introduce un elemento di personalizzazione del potere che ci fa rimbalzare all’antica Roma, quando l’imperatore sceglieva il suo successore. C’è una lacuna enorme.

Le consultazioni le farebbe Mattarella?

Anche qui c’è un problema. La Costituzione prevede l’ipotesi di proroga o supplenza del presidente della Repubblica. La proroga è prevista nel caso in cui le Camere siano sciolte e la supplenza in caso di impedimento temporaneo o permanente. Io penso che sia preferibile la proroga, perché non vedo l’impedimento personale del presidente.

Però anche la proroga è tipizzata: si può estendere per analogia?

È vero. In ogni caso, le consultazioni le farà il nuovo presidente della Repubblica: sarebbe, da parte di Mattarella, uno sgarbo costituzionale sottrarre al suo successore il potere di dirimere la crisi di governo.

Ci potremmo trovare in una situazione di questo tipo: Draghi va al Colle, sceglie il suo successore per la supplenza, sempre lui – sentiti i partiti – individua il premier incaricato. Un cortocircuito costituzionale?

Sì, formalmente è possibile. Ma lo ritengo improbabile: è vietato sposarsi con se stessi! Come sarebbe una scorrettezza da parte di Mattarella sottrarre al nuovo presidente il potere di fare il nuovo governo, così sarebbe una scorrettezza da parte di Draghi scavalcare l’automatismo della supplenza del ministro più anziano, scegliendosi il successore.

Sono comunque molti poteri in capo a una persona sola…

Siccome non era mai accaduto, si pensava non potesse accadere: nessuno ha pensato di disciplinare l’eventualità.

Si fanno nomi di premier tecnici. La politica non si sente molto bene…

Bisogna capirsi: se per tecnico intendiamo solo chi non appartiene ai partiti, abbiamo una brutta idea della politica. L’articolo 49 della Carta dice che i partiti “concorrono” a determinare la vita politica del Paese. Fa politica chi si occupa della polis. Comunque, il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale: è più facile per i cittadini riconoscersi in una persona che non ha indossato per 50 anni la maglia di un partito.

Draghi al Quirinale a guidare da fuori, un Parlamento dove quasi non c’è l’opposizione: i contrappesi sono saltati?

In parte è vero. Tutto dipende dalla debolezza della politica. E quando la politica è fragile, il presidente è forte. Perciò la scelta del presidente è la scelta di un uomo forte in un habitat politico spossato. Il Parlamento è senza maggioranze, composto com’è da una maggioranza di minoranze: come si diceva una volta, la situazione è balcanizzata. La forza della candidatura di Draghi dipende dalla debolezza delle alternative.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/26/se-draghi-va-al-quirinale-si-rischia-un-cortocircuito/6468631/

Specie protetta. - Marco Travaglio

 

Da quando è nato, ci si domanda a che serve il Pd (oltre che a perdere tutte le elezioni e a entrare in quasi tutti i governi). Ieri, dopo anni di sforzi, è arrivata la risposta di Enrico Letta, di quelle che scaldano il cuore al popolo della sinistra: “Il mio ruolo è proteggere Mario Draghi”. Vasto programma, come disse De Gaulle a quel tale che urlava “A morte tutti i coglioni!”. E noi già immaginiamo la ola degli elettori Pd, come già l’altra sera, quando il “giovane Letta” (per distinguerlo dallo zio) ha annunciato da Fazio un’altra lieta novella: “Parlerò con Salvini di Draghi e del Mattarella bis, che sarebbe l’ideale”. Soprattutto per un politico di 55 anni che sembra lo zio dello zio. Ieri poi ha sfiorato la standing ovation bocciando Frattini in tandem con Renzi (molto amato dalla base): ma non perché è il cameriere di B. che gli tagliò su misura la legge-farsa sul conflitto d’interessi; bensì perché non è abbastanza “atlantista” per spezzare le reni a Putin in Ucraina, dove gli eserciti restano in surplace in attesa di un cenno dal Quirinale. Il fatto che Frattini non l’avesse candidato nessuno aggiunge un tocco di surrealismo alla gag di due leader che, per dimostrare la loro esistenza, bocciano un candidato inesistente.

Resta da capire da chi o da cosa Letta voglia proteggere Draghi, facendogli scudo col suo gracile corpicino. Possibile mai che un supereroe come SuperMario, già Salvatore dell’Euro e poi della Patria, Capo dell’Ue post-Merkel, necessiti della protezione di uno che si fece fregare da un tweet di Renzi? Se Letta sperava di rafforzarlo, è riuscito a indebolirlo più ancora di quanto non si fosse già indebolito da solo. Perché l’unico nemico da cui Draghi va protetto è se stesso. Con buona pace di giornaloni, talk e maratone, che raccontano un mondo dragocentrico e furioso contro la politica puzzona “in stallo” perché non ha eletto nessuno nei primi due round (come in 10 elezioni quirinalizie su 12). Peraltro, se non s’è ancora trovato un accordo, è perché – per la prima volta nella storia – due egolatri si sono autocandidati al Colle a dispetto dei santi, delle regole e dei numeri: B., lanciato dal centrodestra il 14 gennaio e tramontato il 22; e Draghi, che si è lanciato il 24 dicembre, ma nel vuoto, visto che nessuno lo ha raccolto, e ora sta per schiantarsi al suolo col suo prestigio, la sua maggioranza, il suo governo e un bel pezzo dell’Italia senza che gli passi per l’anticamera del cervello di prender atto che nessuno lo vuole al Quirinale (neppure gli amici dell’Economist e gli amati “mercati”), riporre ambizioni e capricci, smettere di usare il piedistallo di Palazzo Chigi per farsi campagna elettorale a urne aperte e rassegnarsi a fare ciò per cui Mattarella lo chiamò un anno fa: governare, se ci riesce.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/26/specie-protetta/6468615/

domenica 23 gennaio 2022

Quirinale, Berlusconi si arrende. Ma non rinuncia all’ultima balla: “Ho i numeri per essere eletto, passo indietro per responsabilità nazionale”.

 

Il leader di Forza Italia non va a Roma e resta a Milano, vede i suoi ministri, poi diserta il vertice del centrodestra e invia una nota per spiegare il passo indietro nella corsa al Colle, nonostante - giura - avesse "verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione". Quindi, consapevole di aver probabilmente sbloccato l'impasse, avanza i suoi veti. Il primo: Draghi deve rimanere a Palazzo Chigi.

Aveva i voti ma ha preferito farsi da parte. Silvio Berlusconi dice di essersi ritirato dalla corsa alla presidenza della Repubblica, nonostante avesse “verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione”. Non è una battuta ma è quello che sostiene il leader di Forza Italia nella nota inviata al vertice del centrodestra. Ovviamente non potrà mai esserci la controprova, visto che l’uomo di Arcore ha deciso di arrendersi. Ma è abbastanza improbabile che, dopo mesi di trattative, Berlusconi abbia rinunciato al sogno del Colle pur avendo i voti. E invece alla fine ha dovuto gettare la spugna. Lo fa nel tardo pomeriggio di una giornata segnata dalla decisione di non recarsi a Roma, proprio per il vertice del centrodestra. Una riunione, quella con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che è stata rinviata di tre ore, visto che nel frattempo Berlusconi ha visto i ministri di Forza Italia. Nessuno, dicono i berlusconiani, gli ha chiesto di ritirarsi. Ma qualcuno ha fatto notare che i numeri per l’elezione al Colle non c’erano. Ecco perché Berlusconi si è arreso: al vertice del centrodestra – pure quello via Zoom – non si è fatto vedere. Ha inviato la fida Licia Ronzulli, con una nota in cui esplicita il passo indietro: si ritira anche se – giura – aveva i voti.

Un documento, quello del leader di Forza Italia, in cui Berlusconi torna a vestire i panni del padre della patria. “Dopo innumerevoli incontri con parlamentari e delegati regionali, anche e soprattutto appartenenti a schieramenti diversi della coalizione di centro-destra, ho verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione“, sostiene l’ex premier che si dice “onorato e commosso: la Presidenza della Repubblica è la più Alta carica delle nostre istituzioni, rappresenta l’Unità della Nazione, del Paese che amo e al servizio del quale mi sono posto da trent’anni, con tutte le mie energie, le mie capacità, le mie competenze”. Tuttavia, sostiene di essersi tirato indietro a seguito di una riflessione compiuta “ponendo sempre l’interesse collettivo al di sopra di qualsiasi considerazione personale” e compiendo “un altro passo sulla strada della responsabilità nazionale, chiedendo a quanti lo hanno proposto di rinunciare ad indicare il mio nome per la Presidenza della Repubblica”. Un’affermazione che pronunciata dal padre di tante leggi ad personam e ad aziendam rischia di provocare qualche sorriso.

Perché dunque Berlusconi si tira indietro? Per evitare, sostiene lui, che sul suo nome “si consumino polemiche o lacerazioni che non trovano giustificazioni che oggi la Nazione non può permettersi”. Insomma: che la sua candidatura fosse altamente divisiva lo sapeva anche lui. Col suo passo indietro Berlusconi fa un piacere a Matteo Salvini, che ora può provare a vestirsi da kingmaker. E infatti, subito dopo il vertice, il capo della Lega comincia a telefonare agli altri leader e fa sapere – ancora una volta – di essere a lavoro per una “rosa di nomi”. Poi parlano pure Giuseppe Conte ed Enrico Letta: adesso, è il senso degli interventi di entrambi, si può cominciare il confronto per un candidato condiviso. Insomma: il passo indietro di Berlusconi sembra aver sbloccato l’impasse. Il diretto interessato ne è consapevole e infatti avanza subito i suoi veti. Il primo: Mario Draghi non deve andare al Colle ma deve restare a Palazzo Chigi per evitare di tornare alle urne. “Considero necessario che il governo Draghi completi la sua opera fino alla fine della legislatura per dare attuazione al Pnrr, proseguendo il processo riformatore indispensabile che riguarda il fisco, la giustizia, la burocrazia”, scrive nella sua nota Berlusconi, facendo infuriare Fratelli d’Italia. Anche il partito di Giorgia Meloni è contrario a Draghi al Colle, ma – come è noto – non lo vuole neanche a Palazzo Chigi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/22/quirinale-berlusconi-si-arrende-ma-non-rinuncia-allultima-balla-ho-i-numeri-per-essere-eletto-passo-indietro-per-responsabilita-nazionale/6465246/#

Finalmente potremo dire che una cosa buona, durante l'arco della sua vita da parlamentare, l'ha fatta! Come? Ritirando la propria candidatura alla presidenza della Repubblica....

Pericolo scampato per i cittadini italiani che hanno a cuore la dignità di essere italiani!
cetta

sabato 22 gennaio 2022

L’Uomo Poltrona. - Marco Travaglio

 

Il 23 aprile 1993, dopo la bocciatura del suo decreto Salvaladri che ha scatenato il putiferio alla Camera, fra leghisti che sventolano cappi e missini che mostrano guanti bianchi, spugne e manette, Giuliano Amato si dimette da presidente del Consiglio (sostituito da Ciampi) e abbandona la politica: “Per cambiare, dobbiamo trovare nuovi politici. Per questo confermo che ho deciso di lasciare la politica, dopo questa esperienza da primo ministro. Solo i mandarini vogliono restare sempre e io sono in Parlamento ormai da dieci anni”. Sarà il ritiro più breve della storia.

Tiritiritu? Nel 1994 Berlusconi va al governo e, grato per i decreti pro Fininvest, il 9 novembre nomina Amato presidente dell’Antitrust: chi meglio del santificatore del suo trust? Infatti in tre anni il Dottor Sottile non si accorge della più spaventosa posizione dominante mai vista sui mercati televisivo, editoriale e pubblicitario. In compenso spezza le reni a un trust ben più grave per il libero mercato: le scatole di fiammiferi che, a differenza degli accendini, possono ospitare pubblicità. Uno scandalo: fremente di sdegno, Amato scrive una letteraccia ai presidenti delle Camere, al premier Prodi e al ministro Bersani perché provvedano immantinente: “Fiammiferi e accendini sono prodotti che assolvono alla stessa funzione d’uso e l’esistenza di due distinte discipline normative determina una disparità ingiustificata di trattamento a favore delle imprese attive nella produzione e commercializzazione di fiammiferi”. Ecco perché non vede la trave Fininvest: ha sempre una pagliuzza, anzi un fiammifero nell’occhio.

L’amico Squillante. Nel 1996 Berlusconi gli offre un collegio sicuro in FI e lui, prima di declinare, ne discute con l’amico giudice Renato Squillante, capo dei Gip romani di stretta osservanza socialista e poi berlusconiana, senza sapere che sta per essere arrestato per corruzione. Così il suo nome salta fuori dalle intercettazioni e tabulati dell’inchiesta “toghe sporche”. Nel 1997, in piena Bicamerale, D’Alema lo vuole con sé nel progetto “Cosa 2” per seppellire l’Ulivo prodiano. Ma basta un fax da Hammamet per fermarlo sull’uscio. “Amato – scrive Craxi il 7 febbraio – tutto può fare salvo che ergersi a giudice delle presunte malefatte del Psi, di cui egli, al pari degli altri dirigenti, porta per intero la sua parte di responsabilità… Ma guardacaso, forte delle sue amicizie e altolocate protezioni, a lui non è toccato nulla di nulla. Buon per lui…”. Lo definisce “becchino del Psi”, “voltagabbana”, “una cosa vomitevole come tutti i craxiani diventati anticraxiani”, “un opportunista che strisciava ai miei piedi e ora striscia a quelli degli altri per salvarsi la pelle”.

Erano pronti perfino ad andare ad Arcore pur di fare quel tanto agognato vertice che lui, il candidato in pectore, voleva rimandare per prendere ancora tempo. Così alla fine Silvio Berlusconi si è dovuto arrendere alla pressione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Lo hanno chiamato e lui non ha potuto tirarsi indietro. Dunque il vertice del centrodestra si farà oggi pomeriggio a Roma e sarà decisivo: Berlusconi, anche se in collegamento da villa San Martino, scioglierà la riserva. In un senso o nell’altro. E a quel punto si sbloccherà lo stallo. Sarà lui a prendere per primo la parola e a decidere il da farsi: se da Arcore si racconta che Berlusconi è ancora “determinato” e potrebbe convincere gli alleati che ce la può fare, alla fine il leader azzurro sarebbe pronto al ritiro.

Tant’è che per la prima volta Berlusconi aprirà a una rosa di nomi alternativi. Tutti “piani b” ma su cui discutere con Meloni e Salvini. D’altronde il leader della Lega, smanioso di fare il kingmaker, come gli ha consigliato il suocero Denis Verdini, ieri pomeriggio ha incontrato Umberto Bossi a Gemonio e ha sentito tutti i leader della coalizione di governo via sms con un messaggio preciso: “Lavori in corso”. Come dire: le carte le do io e solo io posso sbloccare la partita del Colle. Che sia vero o meno, lo si vedrà oggi. Anche perché ieri sera dalla Lega facevano sapere che Salvini è pronto a tirare fuori un nome coperto, non ancora uscito negli ultimi giorni. Uno di questi potrebbe essere Paola Severino, di cui il leghista ha parlato giovedì con Conte. Ma la certezza, ieri sera, era un’altra: un accordo sul nome, nel centrodestra, non c’è.

Oggi però la prima mossa dovrà farla Berlusconi. Se tutto fa pensare al suo ritiro, al momento la sua posizione è quella di dire “no” a Mario Draghi. Una strategia emersa ieri nel pranzo ad Arcore con Licia Ronzulli e Antonio Tajani, i capigruppo Paolo Barelli e Anna Maria Bernini e il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri. La prima scelta di Berlusconi sarebbe quella del Mattarella bis ma Lega e Fratelli d’Italia sono apertamente contrari a questa ipotesi.

L’altro nome in testa di Berlusconi è quello di Giuliano Amato, anche questo bocciato da Salvini e Meloni. A quel punto si ragionerà su altri nomi “di alto profilo di centrodestra”, come ha spiegato ieri il segretario del Carroccio. E sarà Salvini a dover fare la prima mossa. Nella rosa del leghista, in pole ci sono Marcello Pera (sponsorizzato da Verdini) e Maria Elisabetta Alberti Casellati. Più indietro, Letizia Moratti e Franco Frattini ma anche Pier Ferdinando Casini, che ha preso sempre più quota nelle ultime ore. Meloni invece condivide con il leghista il sostegno a Pera e non le dispiacerebbe Giulio Tremonti. Su tutti questi nomi però Berlusconi resta freddo (“sono tutti miei sottoposti” usa dire) a partire da Casini: in Forza Italia non prendono in considerazione l’ipotesi del senatore centrista. E anche dalla Lega c’è scetticismo: “È stato eletto con il Pd” dicono i salviniani più stretti. Anche se alla fine potrebbe essere lui l’anti-Draghi, il candidato che mette d’accordo tutti e non fa vincere nessuno. Veti e controveti che rendono complicata una convergenza su un candidato di centrodestra a partire dalla prima votazione.

Così, anche se Salvini e Berlusconi dicono “no” in partenza, si arriva a Draghi. Quella di Berlusconi è una posizione tattica: sbarrare la strada al premier per trattare un possibile appoggio a partire dal rimpasto di governo (in cui entrerebbe Antonio Tajani) e magari, è il sogno dell’ex Cavaliere, la nomina di Gianni Letta come segretario generale del Quirinale. Anche Meloni vedrebbe bene l’elezione del premier al Colle: è stata lei la prima a fare il suo nome e con lui ha un ottimo rapporto. Ma soprattutto, è la tesi di un esponente di peso di Fratelli d’Italia, Draghi potrebbe essere quell’ombrello con le cancellerie internazionali pronto a garantirgli l’incarico a Palazzo Chigi. L’unico dei tre che, per il momento, resta sul “no” secco al premier è Salvini. Che potrebbe sparigliare e mettere sul piatto proprio quel Casini che terrorizza il Pd.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/22/luomo-poltrona/6464531/

martedì 11 gennaio 2022

L’ambivalenza di raffinato stampo diccì. -- Antonio Padellaro

 

Naturalmente, la “postilla” di Mario Draghi “non risponderò a domande sul Quirinale”, riguardo cioè all’argomento più atteso dai giornalisti convenuti in conferenza stampa, come tutti i silenzi programmatici rappresenta di per sé una risposta possibile, o forse anche tre.

1. Il muro innalzato su un possibile trasloco da Palazzo Chigi al Quirinale confermerebbe la controversa battuta sul “nonno” a disposizione delle istituzioni pronunciata nell’incontro con la stampa del 22 dicembre. Quindi, sì, Draghi si sente ancora in corsa e proprio per questo sposa la linea del mutismo per non accendere nuovi fuochi nella sua stessa maggioranza. Quieta non movere, gli avrebbe suggerito il suo insegnante di latino all’Istituto Massimo.

2. E invece no, perché Draghi ha ben compreso che dovrà restare a Palazzo Chigi e ha già accantonato nel suo intimo l’ipotesi Quirinale. Infatti, la somma dei problemi illustrati – dall’emergenza sanitaria alle conseguenze prevedibili e imprevedibili connesse alla riapertura delle scuole in presenza – è tale che perfino alludere a una sua nonnesca disponibilità avrebbe costituito dinamite pura per il governo di unità nazionale. Tanto più che la frase chiave è: “Se c’è voglia di lavorare insieme, il governo va avanti bene”. E dunque si andrà avanti.

3. In realtà, Draghi, a due settimane dalla corsa per il Colle vuole lasciarsi tutte le strade aperte. E trasferisce la patata bollente nella mani dei partiti. Spetta a loro decidere se e come giocare la carta Draghi e lo faranno non potendosi aggrappare a un no ma neppure a un sì del presidente del Consiglio. Una mossa ambivalente di raffinato stampo democristiano anche se il premier ha chiuso con una seconda postilla sicuramente non ascrivibile ad ammiccamenti e furbizie. È stato quando ha definito un “atto riparatorio” la conferenza stampa di ieri, convocata, ha ammesso, dopo le critiche sollevate per il suo pesante silenzio (le sera del Consiglio dei ministri dedicato all’obbligo vaccinale) che ha definito “sottovalutazione delle attese”. Non ricordiamo precedenti del genere.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/11/lambivalenza-di-raffinato-stampo-dicci/6451661/?fbclid=IwAR0BUPidoo32czyuVewok988kq1IE3Ijlroy3ZmmBaDECQh2zXHoBop5PUg

domenica 2 gennaio 2022

I Nordisti dell’anno da Letizia-Quirinale all’Orietta “naziskin”. - Gianni Barbacetto

 

E a fine 2021 incoroniamo dunque i “Nordisti dell’anno”, i personaggi che hanno meglio (o peggio?) rappresentato quella che è considerata l’area più ricca e propulsiva del Paese.

Letizia Moratti. Dopo essere stata sindaco di Milano, ministra, presidente della Rai, è riemersa come vicepresidente della Regione Lombardia e assessore al Welfare, chiamata per far dimenticare i disastri di quel buontempone di Giulio Gallera. Ha varato una riformetta della sanità regionale che non risolve alcuno dei problemi messi in evidenza dalla pandemia. E adesso è candidata a tutto: a succedere ad Attilio Fontana come presidente della Regione, ma anche a Mattarella come presidente della Repubblica: l’ha lanciata per primo Luigi Bisignani, dall’alto delle sue condanne e del curriculum P2. Non l’aiuta l’inchiesta in corso sul petrolio “sporco” della famiglia Moratti (con soldi finiti perfino all’Isis) e il brutto conflitto d’interessi di quand’era presidente Ubi e finanziava l’azienda del marito.

Attilio Fontana. Il presidente della Lombardia ha finanziato invece l’azienda della moglie e del cognato: è la brutta vicenda dei camici e altro materiale di protezione anti-Covid in cui Fontana si è incartato, prima trasformando un acquisto in donazione e poi pagando con soldi suoi: ma arrivati da conti milionari all’estero che nessuno conosceva e che il tapino ha così rivelato al mondo.

Giuseppe Sala. Rieletto sindaco di Milano al primo turno. Ma, a ben guardare le cifre, con la più bassa partecipazione elettorale mai vista in città. Ora è alle prese con la grana San Siro: la vicenda dello stadio Meazza, da abbattere per permettere a un fondo Usa e una società cinese di salvarsi dal fallimento con una mega-speculazione immobiliare su terreni pubblici. Come finirà?

Massimiliano Fedriga. A Roma era “il leghista gentile”. Poi è tornato a Trieste a fare il presidente del Friuli Venezia Giulia. Fedriga non ha mai cercato di assomigliare al capo del suo partito, Matteo Salvini, ha sempre preferito i toni pacati e la sua autonomia, in politica e nello stile di comunicazione. Nella Trieste diventata capitale dei no vax, si è più volte dichiarato favorevole alla vaccinazione anti-Covid e all’adozione del Green pass rafforzato. Risultato: minacce, lettere minatorie, scritte ostili sui muri. Così ora è costretto a vivere sotto scorta. In campagna elettorale aveva fatto un paio di promesse (“Due disastri a cui dovremo porre rimedio”) che aspettano di essere mantenute: aumentare i posti letto e l’assistenza sanitaria sul territorio; e azzerare la riforma degli enti locali che aveva trasformato quattro province in 18 Uti, Unioni territoriali intercomunali, accrocchi politici non elettivi.

Anonimo No-Tav. Dopo che il Frecciarossa ha iniziato a competere con il Tgv francese per unire Milano e Parigi ad alta velocità sulla linea già esistente, qualcuno ci spiega a che cosa serve il tunnel che vorrebbero scavare in Val di Susa?

Orietta Berti. Non ho mai capito se ci è o ci fa, ma l’Oriettona merita un posto in questa classifica. Dopo un’onorata carriera al suono di Fin che la barca va, ha lampi di genio quando chiama “Naziskin” i Måneskin e “Baby Gay” Baby K. Tutt’altro stile, l’Orietta, rispetto a un’altra collega emiliana, quella Iva Zanicchi che dopo aver fatto la pasionaria berlusconiana è riuscita a tornare in tv e a stonare in maniera clamorosa “Prendi questa mano, zingara…”. Orietta riesce invece a dare ancora il meglio di sé in trio con il Fedez e l’Achille Lauro, cantando una canzoncina (Mille) che piace tanto ai bambini ma a ben ascoltare è un inno gioioso e trasgressivo alla droga e al sesso (fluido, com’è di moda oggi).

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/12/31/i-nordisti-dellanno-da-letizia-quirinale-allorietta-naziskin/6441700/

giovedì 23 dicembre 2021

Coitus interruptus. - Marco Travaglio

 

Ora che il “nonno delle istituzioni” vuole traslocare da Palazzo Chigi al Quirinale e finalmente ce lo fa sapere, il pensiero corre commosso e deferente alle cheerleader e groupies – volgarmente dette “giornalisti” e “politici” – che da febbraio ci rompono timpani e scatole con “SuperMario fino al 2023”, “Lista Draghi alle elezioni”, “Agenda Draghi fino al 2028”, “Ma che dico 2028: a vita!”, e poi i mercati, lo spread, il Pil, l’Economist, l’Europa, l’America, l’Oceania lo vogliono tutti lì a salvarci in saecula saeculorum. Ora l’oggetto dei loro ardori, “cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, interrompe bruscamente i loro orgasmi: lui o un altro fa lo stesso, uno vale uno, contano i partiti (ma non erano falliti?) e il Parlamento (costretto a votare il Bilancio fra Natale e S. Stefano). Da oggi cominceranno a dire che Draghi deve lasciare il governo con la stessa perentorietà con cui fino a ieri dicevano che non doveva muoversi sennò morivamo tutti e niente più soldi Ue. Stiamo parlando di “giornalisti” che fanno la standing ovation come nemmeno i nordcoreani con Ciccio Kim e si felicitano per la trovata del “nonno” (un anno fa per molto meno strillavano alla “casalinata”); e di “politici” che gli votano le leggi senza leggerle, figurarsi se non lo eleggono al Colle. O se si accorgono che racconta frottole sulla nuova Irpef (penalizza i più poveri), sui vaccini dei Migliori (si stava meglio coi Peggiori), sul Superbonus (le truffe non le fanno le leggi, ma i truffatori), sull’evasione (vedi condono), sulla sua indifferenza alle ambizioni personali (e allora perché molla con 150 morti al giorno?), sulla maggioranza che deve restare unita per votare il capo dello Stato, cioè lui, sennò addio governo (ma il governo cade proprio perché lui vuol fare il capo dello Stato).

Sapevamo – e scrivevamo – fin dall’inizio che questa ammucchiata avrebbe fatto poco e sarebbe durata pochissimo, quindi non saremo noi a piangerne la dipartita. Ma vorremmo sapere come va a finire. Il nonno dice che o va al Quirinale o torna a casa. Quindi, nel suo nome, si apre la seconda crisi in dieci mesi in piena pandemia e si fa un altro governo con un premier a scelta fra tre ectoplasmi di cui a stento si riconosce la voce: Franco, Cartabia e Colao. Sicuro che siano in grado di tenere a bada l’Armata Brancaleone nell’ultimo anno di legislatura, cioè di campagna elettorale? O qualcuno non si sfilerà, tipo la Lega, lasciando i sadomasochisti M5S e Pd a donare altro sangue? O si vota in anticipo, in barba al dogma dell’Italia che non può votare causa Covid&Pnrr? O i partiti, in un sussulto di dignità, impallinano il nonno e lo mandano ai giardinetti?

Ps. B. intanto si porta avanti: ieri è diventato bisnonno.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/12/23/coitus-interruptus/6435348/

lunedì 1 novembre 2021

Quirinale, Conte apre a Draghi e allontana Berlusconi dal sogno proibito del Colle. E ora i voti di Renzi possono diventare inutili. - Giuseppe Pipitone

 Quirinale, Conte apre a Draghi e allontana Berlusconi dal sogno proibito del Colle. E ora i voti di Renzi possono diventare inutili

I tempi non sono ancora maturi, ma l'ultima mossa del leader dei 5 stelle fa tornare d'attualità un'ipotesi che sembrava ormai impossibile da percorrere: far traslocare il premier da Palazzo Chigi al Colle. I numeri infatti non mentono. I 43 voti che ha Italia viva saranno fondamentali per scegliere il nuovo presidente della Repubblica in tutti gli scenari, tranne uno: quello che prevede l'elezione di un capo dello Stato a larga maggioranza.

Fermi tutti, si torna al piano originario: Mario Draghi al Quirinale. Potrebbero pure chiamarla “operazione Carlo Azeglio“, nel senso di Ciampi, già maestro del premier in Bankitalia, poi a capo di un governo tecnico citato più volte come termine di paragone dell’attuale esecutivo, infine presidente della Repubblica eletto al primo scrutinio. I tempi non sono ancora maturi, ma l’ultima mossa di Giuseppe Conte, maturata dopo la sconfitta dell’asse con il Pd nel voto al Senato sul Ddl Zan, fa tornare d’attualità un’ipotesi che sembrava ormai impossibile da percorrere: far traslocare il premier da Palazzo Chigi al Colle. “Non possiamo escluderlo, serve una figura di altissima caratura morale e Draghi rientra in questa descrizione, ma devono realizzarsi varie condizioni”, ha detto il presidente dei 5 stelle. Tracciando una strategia difficile da attuare ma che potrebbe portare a tre obiettivi: risolvere il rompicapo del Quirinale a vantaggio dell’asse M5s-Pd, sbarrare la strada del Colle a Silvio Berlusconi o figure a lui vicine e neutralizzare le mire di Matteo Renzi. Ma andiamo con ordine.

Il tramonto di un’ipotesi – Dodici mesi fa il nome dell’ex presidente della Bce era quello del candidato naturale per raccogliere la successione di Sergio Mattarella. In un anno, però, il quadro politico è stato profondamente stravolto. L’agguato di Renzi ha portato alla caduta del governo Conte, che è stato sostituito alla guida dell’esecutivo proprio da mister Whatever it takes. Con l’entrata di Draghi a Palazzo Chigi, però, è andata via via tramontando l’ipotesi di un’elezione al Colle. Non perché il diretto interessato si sia dichiarato indisponibile: anzi fino a oggi Draghi ha sempre dribblato ogni domanda diretta sul tema. Semmai a escludere la sua elezione a capo dello Stato sono stati, per motivi diversi, i leader dei partiti che sostengono il suo governo: da una parte si producono in entusiastiche lodi per il premier, dall’altra sperano di portare al Colle qualcun altro e allontanare così lo spettro del voto anticipato.

Quelli che non vogliono Draghi (per ora) Mentre Berlusconi continua a coltivare per se stesso il sogno proibito di un’elezione che solo fino qualche mese fa sarebbe sembrata impossibile, gran parte dei parlamentari di Forza Italia non avrebbe alcun interesse a eleggere un capo dello Stato per poi tornare subito alle urne: perderebbero, infatti, il seggio con un anno d’anticipo. Simile la posizione di Matteo Salvini, impegnato in una sfida all’ultimo sondaggio con la rivale Giorgia Meloni che lo vede al momento sconfitto: in caso di voto anticipato, il capo della Lega sarebbe subalterno alla leader di Fratelli d’Italia. Secondo Enrico Letta, invece, mandare Draghi al Quirinale per poi andare al voto “non è l’interesse dell’Italia“. Una posizione dettata dall’evidente rischio urne, ma forse anche dal fatto che dentro al Pd sono in parecchi quelli che si considerano legittimi aspiranti al Colle: da Dario Franceschini a Paolo Gentiloni.

La mossa di Conte – Nomi, questi ultimi, che secondo vari retroscena avrebbero lasciato freddo Conte. Il leader dei 5 stelle, cioè il partito di maggioranza relativa in Parlamento, ha dunque deciso di provare a giocare le sue carte: la prima che ha messo sul tavolo ha la faccia di Draghi. Conte, però, si è subito affrettato subito a spiegare che tale ipotesi non significherebbe un automatico ritorno alle urne. “Dobbiamo spingere al 6% di Pil, dobbiamo continuare ad attuare il Pnrr e l’avvio iniziale è fondamentale: in tutto questo, pensare di eleggere un presidente e un attimo dopo andare a votare, chiunque sia, non è nell’ordine delle cose”, è il ragionamento dell’ex presidente del consiglio. Un messaggio che ha due destinatari: da una parte i peones dei vari partiti e gruppi parlamentari che temono il ritorno alle urne, dall’altra l’alleato Letta. In effetti a pochi giorni dall’affossamento col voto segreto del ddl Zan al Senato, il segretario del Pd potrebbe aver già cambiato la sua opinione sul Colle. Sicuramente avrà ascoltato le dichiarazioni di Pier Luigi Bersani: “Temo che quella di Palazzo Madama sia una prova generale per il quarto scrutinio per il Quirinale“, sono state le parole dell’ex segretario che nel 2013 ha perso la guida del Pd a causa dei franchi tiratori che impallinarono Romano Prodi nella corsa al Colle. All’epoca i sospetti caddero tutti o quasi su Renzi, lo stesso che oggi i dem indicano come il regista occulto dell’azzoppamento della legge contro l’omotransfobia. E che secondo i maligni avrebbe già l’accordo col centrodestra per eleggere il nuovo capo dello Stato. È proprio per bruciare Renzi e il suo dialogo con Salvini e Berlusconi che Conte ha tirato fuori il nome di Draghi, spiegando che “bisogna avviare un percorso di confronto con tutte le forze politiche”. Anche col centrodestra? “Sì, anche col centrodestra“.

Il pallottoliere dei Grandi elettori – I numeri infatti non mentono. I 43 voti a disposizione di Italia viva sono fondamentali per scegliere il nuovo presidente della Repubblica in tutti gli scenari, tranne uno: quello che prevede l’elezione di un capo dello Stato a larga maggioranza. Un nome che trovi il consenso di tutti o quasi è fino a oggi una ipotesi considerata molto improbabile. I tempi sono ancora poco maturi, ma di sicuro c’è solo che alla fine di gennaio del 2022 a Montecitorio si riuniranno i 1008 Grandi elettori chiamati ad eleggere il tredicesimo presidente della Repubblica: ai 630 deputati e 320 senatori si aggiungeranno 58 delegati locali: ogni Regione sceglierà due esponenti per la maggioranza e uno per la minoranza, tranne la Valle d’Aosta che invierà a Roma solo un rappresentante. I delegati regionali non sono ancora stati eletti ma, stando a chi governa le Regioni, dovrebbero essere 33 del centrodestra e 24 del centrosinistra. Come è noto nelle prime 3 votazioni, a scrutinio segreto, serviranno i 2/3 dei voti dell’assemblea, pari a 673 voti. Dopo il terzo scrutinio, invece, è sufficiente la maggioranza assoluta, pari a 505. È a quel punto che, senza un accordo, si farebbero i giochi. Ed è per provare a evitare quel quarto scrutinio che Conte ha aperto a Draghi.

Il centrodestra parte da 451 voti – La coalizione formata da Fratelli d’ItaliaForza Italia e Lega può contare su 451 grandi elettori che fanno riferimento ai partiti dentro la coalizione: 197 sono della Lega, 127 dei berlusconiani, 58 del partito di Giorgia Meloni, 31 di Coraggio Italia-Cambiamo-Idea, 5 di Noi con l’Italia, ai quali si aggiungono i 33 delegati regionali. Se a questi si sommano i 43 voti di Italia viva ecco che il totale fa 494: ne mancherebbero solo 11 per arrivare alla soglia magica di 505, utile per eleggere un presidente al quarto scrutinio. E undici voti, considerata la trasversalità dei gruppo Misto pià alcuni battitori liberi (i parlamentari di + Europa, quelli del Maie, cioè gli italiani all’Estero), non sono difficile da ottenere: tutt’altro. Ecco perché Berlusconi continua a sognare l’elezione.

Pd e 5 stelle: 420 voti – Dall’altra parte l’asse che si fonda sul centrosinistra più i Cinque stelle può contare su 420 voti. Il Pd ha 133 grandi elettori (Roberto Gualtieri, neo sindaco di Roma, dovrà optare e quindi forse il suo seggio sarà vacante al momento dell’elezione del Colle), il M5s può contare su 233 preferenze, Leu 18Azione-+Europa 5, Centro democratico di Bruno Tabacci invece ha 6 deputati. Questo blocco, ai quali si aggiungono i 24 delegati regionali più Gianclaudio Bressa, iscritto al gruppo per le Autonomie ma eletto con il Pd, arriva a quota 420. Ma ci sono anche molti ex 5 stelle che dal 2018 a oggi hanno perso più di cento parlamentari: tra quelli che fanno parte del gruppo l’Alternativa c’è (19) e quelli nel Misto (24), si può arrivare a 463 voti. A questo punto, dunque, i 43 Grandi elettori del partito di Renzi diventerebbero fondamentali per superare la soglia dei 505 pure per il centrosinistra.

L’operazione “Carlo Azeglio” – Ecco su cosa si basa la strategia di Renzi: spingere i due schieramenti a un muro contro muro che farebbe diventare i suoi 43 parlamentari fondamentali per decidere il prossimo presidente della Repubblica. Il quadro, però, cambierebbe completamente con Draghi in campo. Se il premier dovesse ufficializzare la sua disponibilità al Quirinale come farebbero i big del Pd – a partire da Letta – a motivare il loro mancato appoggio? E i colonnelli di Forza Italia, che tanto si sono vantati di aver spinto sul nome dell’ex presidente della Bce, come farebbero a votare per qualcun altro? Soprattutto se dovessero davvero materializzarsi le condizioni di un nuovo esecutivo, probabilmente guidato da un tecnico, che porti avanti la spesa dei fondi del Recovery fino alla scadenza naturale della legislatura. In questo caso si creerebbe una larga maggioranza, capace di eleggere il nuovo capo dello Stato magari già al primo scrutinio: nella storia repubblicana è successo solo tre volte, l’ultima nel 1999 proprio con Ciampi. Ecco perché l’elezione di Draghi sarebbe “l’operazione Carlo Azeglio“. Che dal punto di vista di Conte avrebbe un duplice vantaggio: sbarrare la strada a Berlusconi e trasformare i voti dei renziani da fondamentali a inutili.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/01/quirinale-conte-apre-a-draghi-e-allontana-berlusconi-dal-colle-e-ora-i-voti-di-renzi-possono-diventare-inutili/6372403/

lunedì 5 luglio 2021

Berlusconi al Colle: è Nonno Libero il grande elettore. - Tommaso Rodano

 

Come un fiume carsico, il nome di Silvio Berlusconi riaffiora per l’ennesima volta in direzione Quirinale. Può sembrare assurdo nel 2021 che a qualcuno venga in mente di proporre come presidente della Repubblica il personaggio più divisivo dell’Italia contemporanea, eppure è davvero così: Lui è scaramantico ma ci crede e Loro, quelli che gli stanno vicino, sono al lavoro per trasformare il sogno in realtà.

Berlusconi avrebbe confessato al Corriere della Sera – si legge in un retroscena di Francesco Verderami – di sentire solo “il 10- 15% di possibilità” di farcela, ma di avere una strategia per pescare i molti voti che mancano nel ventre molle e in dissoluzione dei Cinque Stelle in Parlamento.

Così ieri il nuovo tam-tam dei silviofili ha preso il largo con le dichiarazioni del sempre affettuoso Gianfranco Rotondi. Un’idea quasi onirica, quella del democristiano: Berlusconi al Quirinale per 18 mesi e solo per agevolare il passaggio a un sistema presidenziale. “La seconda repubblica – sostiene Rotondi – è incinta da ventisette anni della riforma presidenzialista, progettata ai tempi del tentativo Maccanico, sempre inserita nei programmi del centrodestra, mai realmente avviata. L’elezione di Silvio Berlusconi al Quirinale aprirebbe finalmente a questa possibilità, e Silvio sarebbe il solo presidente capace di accompagnare la riforma dimettendosi dopo diciotto mesi, al compimento del percorso di riforma costituzionale”. Uno scenario affascinante, al limite del lisergico, frutto di una progettualità a suo modo geniale.

Meno fantasioso di Rotondi, molto più prudente, ma in fondo ottimista è il vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani: “Credo che sia prematuro lanciare candidature dai partiti per il Quirinale – ha detto a SkyTg24 – perché non è ancora iniziato il semestre bianco. Ma se lo chiedete a me, sono convinto che Berlusconi sarebbe un ottimo presidente della Repubblica. In ogni caso il centrodestra per l’elezione si muoverà compatto”.

Matteo Salvini per ora è poco compatto, fa lo gnorri: “Per il presidente della Repubblica si vota a febbraio del 2022. Ora mi sto occupando di salute e di lavoro, non di Quirinale. Non ho letto il Corriere, leggo solo la Gazzetta dello Sport e tifo per l’Italia”.

Ma il sostegno più convinto alla candidatura dell’ottuagenario Silvio arriva – coerentemente – dal settore della terza età. È accorato l’endorsement di Fabio Sciotto, presidente nazionale della Fapi (Federazione artigiani pensionati italiani): “Berlusconi al Colle sarebbe motivo di grande orgoglio e soddisfazione per le categorie produttive del Paese. Siamo convinti che darebbe lustro e credibilità internazionale all’Italia nel mondo, consentendo alle imprese di crescere e di espandersi anche in ragione di una autorevole ed esperta guida della nostra Repubblica”.

Alla fine il più entusiasta di tutti all’idea di Nonno Silvio al Colle è Nonno Libero, al secolo Lino Banfi: “Sarebbe bellissimo – dice sicuro – e glielo chiederò di persona tra pochi giorni, perché lui ogni anno, da quarant’anni, l’11 luglio che è il giorno del mio compleanno, mi telefona e mi dice ‘auguri vecchio’, perché sono nato poco più di due mesi prima di lui. Al Quirinale avrebbe vicino un uomo che è la sintesi, l’incarnazione della mediazione, che è Gianni Letta. E poi magari Berlusconi si inventerebbe un’altra onorificenza per me: tipo il Nonno d’Italia o l’Allenatore del Quirinale”. 2022, arriva in fretta.

ILFQ


Ma ci rendiamo conto del fatto che è stato condannato in via definitiva per frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, creazione di fondi neri gestendo i diritti tv di Mediaset e che è sospettato di avuto rapporti con la mafia, oltre ad aver accumulato altri reati per cui, a suo nome, pendono altri processi?

venerdì 11 giugno 2021

Voglio entrare a far parte della politica. -

 

Voglio entrare a far parte della politica.
Tanto basta farsi eleggere da delinquenti e mafiosi, promettere ogni bene ma solo a parole;
voglio corrompere e farmi corrompere,
voglio fare una vita lussuosa con soldi guadagnati illegalmente, tanto, male che mi vada, mi beccherei i domiciliari ed il vitalizio per me e per i miei posteri fino alla settima generazione ed oltre;
voglio frodare il fisco mentre sono un Pdc, senza temere di essere messo alla gogna dai mass-media e nello stesso tempo propormi per una carica ambiziosa al Quirinale...

Posso farcela...

Ah, no?

C'è già qualcuno che mi ha preceduto?

DISDETTA!


Cetta

mercoledì 4 settembre 2019

Governo: Conte sale al Quirinale. Corre Milano, spread giù.

Conte al Quirinale © ANSA


Di Maio: "Non sarà un governo di destra o di sinistra".


Sarebbe il nodo del sottosegretario alla presidenza del Consiglio il principale scoglio che blocca la definizione della squadra di governo. E' quanto si apprende da fonti parlamentari dem, mentre è in corso il vertice tra il premier incaricato Giuseppe Conte, Pd e M5S. Sarebbe ancora in corso il braccio di ferro tra Conte e i Cinque Stelle per questa casella. E' di fatto chiuso invece lo scacchiere dei ministeri con Roberto Gualtieri dato quasi per certo alla guida del Mef.

 Luigi Di Maio alla fine potrebbe optare per lo Sviluppo economico o il Lavoro, piuttosto che per gli Esteri.

LA REAZIONE DEI MERCATI

"Abbiamo fatto un ottimo incontro. Abbiamo messo a punto un programma molto serio e condiviso". Lo dice il capogruppo Pd alla Camera Graziano Delrio al termine del tavolo sul programma a palazzo Chigi durato quasi tre ore, spiegando che "al centro del programma ci sono il lavoro e le famiglie. "Nel programma c'è scritto che serve una nuova legge sulla immigrazione, che superi la logica emergenziale e affronti il problema in modo organico", afferma Delrio.

LA SQUADRA DI GOVERNO
"Leggevo che Di Maio potrebbe fare il ministro degli Esteri. Ma come si fa? Come si fa a passare da un ministero con 150 crisi aziendali aperte agli Esteri? Nel giro di un mese". Lo ha detto il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, ad Agorà.  "Orgoglioso di aver perso 7 ministeri adesso, per preparare un governo serio e forte che duri 10 anni poi", ha aggiunto Salvini.

Cgil, Cisl e Uil chiedono che il nuovo governo avvii da subito un confronto costruttivo con le parti sociali e, con una forte svolta rispetto al passato, dia risposte alle proposte contenute nella piattaforma unitaria, definita "la stella polare", che partono da lavoro, fisco e previdenza, in vista della prossima legge di Bilancio e non solo. Questo quanto sostenuto dai segretari generali della Cgil Maurizio Landini, della Cisl Annamaria Furlan e della Uil Carmelo Barbagallo nel corso della segreteria unitaria convocata dopo la pausa estiva.

Luci accese, in piena notte, a Palazzo Chigi e al Nazareno; segno di una trattativa che va a oltranza, superando di gran lunga la mezzanotte e coinvolgendo pontieri e leader di partito, oltre a Giuseppe Conte. L'obiettivo, per Conte, resta quello di sciogliere la riserva entro la mattinata anche se, alle 9 il premier incaricato ha in programma una nuova riunione con la delegazione di Leu. Ed è pevisto un nuovo vertice a ore. Intanto, non si escludono, in nottata, contatti anche tra i leader del Pd e del M5S, Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, che dopo aver lasciato in tarda serata Palazzo Chigi torna, poco dopo, nella sede del governo con Vincenzo Spadafora, uno dei tessitori della trattativa con i Dem.

Il primo nodo da sciogliere resta quello del sottosegretario alla presidenza al Consiglio. Conte è determinato ad indicare un uomo di sua stretta fiducia (Roberto Chieppa, tra i profili in pole) ma sarebbe in corso un braccio di ferro con il M5S, che vorrebbe un "suo" uomo a Palazzo Chigi: in pole ci sarebbe Riccardo Fraccaro, seguito a poca distanza da Spadafora. Al Mef, invece, salgono le quotazioni dell'unico politico Dem rimasto in lizza, l'eurodeputato Roberto Gualtieri, presidente della commissione Bilancio a Strasburgo. 

Tra i tecnici in ambienti Dem vengono citati Giuseppe Pisauro e Salvatore Rossi. Un tecnico sarebbe diretto al Viminale (Luciana Lamorgese o Franco Gabrielli) mentre il "destino" dei due capi delegazione ha dei contorni più definiti: per Di Maio si prospetta il ministero degli Esteri mentre Dario Franceschini dovrebbe andare alla Difesa o alla Cultura. I ministeri in bilico sono però diversi. Il Mise, innanzitutto, dove i Dem puntano su Paola De Micheli mentre tra il M5S si fa il nome di Laura Castelli e Stefano Patuanelli, inizialmente in pole per le Infrastrutture. Se il Mise andasse al M5S il Mit sarebbe di colore Dem e sarebbe guidato da De Micheli. 

Ballottaggio anche all'Istruzione, tra Gianni Cuperlo (Pd) e Nicola Morra (M5S). In sospeso anche l'Ambiente, tra Sergio Costa (che sarebbe tra i confermati) e Rossella Muroni, in quota Leu. Conteso ancora sembra essere il ministero del Lavoro: in pole, nel Pd, il nome di Giuseppe Provenzano. Alla Giustizia Alfonso Bonafede va verso la conferma. Tra i possibili outsider dell'ultimo minuto si citano la sindacalista Cgil Serena Sorrentino e l'imprenditrice (nel settore dei sacchetti biodegradabili) Catia Bastioli. E si tratta anche all'interno dei partiti. Ai renziani sarebbero stati proposti tre ministeri per Anna Ascani, Lorenzo Guerini e Teresa Bellanova ma Matteo Renzi starebbe insistendo su Ettore Rosato. E nel M5S cresce il pressing degli ortodossi: difficile che non guadagnino un ministero, magari rinfoltendo la compagine femminile dell'esecutivo giallo-rosso.