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sabato 17 luglio 2021

Ecco perché il Green pass è costituzionale e può limitare alcune libertà. - Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani

 

La Costituzione tutela la salute come interesse della collettività ed è quindi ammissibile limitare la libertà di chi non si vaccina, ma le cure vanno garantite a tutti.

I punti chiave


Alla sola ipotesi di introdurre anche in Italia il possesso del green pass per consentire l’accesso a stadi, ristoranti e altri luoghi pubblici si è risposto soprattutto con slogan. L’idea è stata liquidata come uno scherzo dal leader della Lega, definita addirittura «raggelante» da Giorgia Meloni, in insanabile contrasto con la libertà individuale «sacra e inviolabile». Dall’altra parte, non manca chi auspica una soluzione del genere come una sorta di giusta punizione per i reprobi che si sono sottratti al dovere etico di vaccinarsi e propone addirittura di far pagare le cure a chi si ammala «per colpa sua».

Tutto ciò distrae da una questione che è, invece, terribilmente seria e davvero merita di essere sottratta alla propaganda, specie ora che la maggioranza degli italiani ha ricevuto almeno la prima dose e quindi una prospettiva del genere diventa assai più concreta.

Quando la campagna vaccinale stava per partire ci eravamo chiesti se lo Stato avrebbe potuto costringere i cittadini alla profilassi. Anche allora, infatti, alcuni si opponevano per principio sventolando il vessillo della libertà, quasi mai però declinandone un significato intellegibile.

Cosa dice la Costituzione.

Nella nostra Costituzione, dicevamo, la salute non è tutelata solo come diritto fondamentale del singolo ma altresì come interesse della collettività. Ciò consente l’imposizione di un trattamento sanitario se diretto «non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri», come ha stabilito la Corte costituzionale nel 2018.
D’altro canto, la Costituzione stessa consente di introdurre limiti alla libertà di circolazione proprio per motivi di sanità. Intravediamo quindi lo spazio per istituire, per legge, non tanto una prescrizione, un trattamento sanitario obbligatorio, quanto qualcosa che somigli a un onere.

Per chi scatta l’obbligo del vaccino.

Si potrebbe subordinare alla vaccinazione l’esercizio di professioni che impongono il contatto con molte persone, a maggior ragione quando si tratta di persone fragili. Pensiamo a medici, insegnanti, forze dell'ordine.
Alla medesima condizione potrebbe essere sottoposta la partecipazione a eventi o contesti in cui il contagio rischia di diffondersi con rapidità, come concerti, stadi, discoteche e persino ristoranti o mezzi di trasporto pubblico.
Non vedremmo particolari difficoltà a estendere simili limitazioni alla frequentazione di scuole o luoghi di culto, qualora si dimostrasse che appunto si tratta di contesti ove il virus circola in modo più veloce.

E ciò non solo per evitare la diffusione di focolai, ma anche per consentire alle persone che non possono usufruire del vaccino per ragioni di salute – che sarebbero ovviamente esonerate dall'onere del “green pass” – di esercitare quei diritti che altrimenti sarebbero loro preclusi per elementari ragioni di prudenza.

Le condizioni per l’obbligo.

Certo, tutto ciò ad alcune condizioni: che la scienza garantisca, entro i confini in cui può farlo, la sicurezza dei vaccini e la loro indispensabilità per superare la pandemia; che sia diffusa una campagna di capillare informazione circa i molti benefici e i lievi rischi; che sia consentito a chiunque intenda vaccinarsi di farlo.

Questo scrivevamo mesi fa e questo sottoscriviamo oggi quando quelle condizioni che allora auspicavamo sembrano essersi tutte verificate. Sicché non vediamo difficoltà a che il Parlamento introduca limitazioni per chi avrebbe potuto vaccinarsi e ha scelto di non farlo. Ci pare infatti che una simile iniziativa corrisponda a un bilanciamento fra beni giuridici ben orientato dal punto di vista costituzionale. In particolare, di fronte a una pandemia che mette a serio rischio la vita, bene primario in assenza del quale gli altri beni nemmeno esisterebbero, questi ultimi ben possono essere compressi per tutelare il primo.

Vale il principio di ragionevolezza.

Come si opera questo bilanciamento? In base ad alcune regole note, declinate seguendo il principio di ragionevolezza. Possiamo ricordarne alcuni: i beni collettivi possono fare premio su quelli individuali; in base al principio di solidarietà, le persone più deboli debbono essere tutelate; in base a quello di responsabilità, chi si è posto in una posizione di rischio che avrebbe potuto evitare senza difficoltà, può essere, in una certa misura, meno tutelato di chi quella stessa posizione di rischio non ha potuto evitare; infine, situazioni emergenziali possono giustificare una maggiore compressione, per il tempo strettamente necessario, di alcuni diritti fondamentali.

Lo ribadiamo: la legge può limitare, senza comprimerla del tutto, la libertà di movimento e di riunione di chi, potendo vaccinarsi, non l’ha fatto per sua libera scelta, contro l’opinione della comunità scientifica. Ciò, al fine di debellare il virus e garantire l’esercizio pieno di tali libertà alle persone escluse dalla profilassi per motivi di salute.

In quest’ottica qualcuno addirittura ipotizza di escludere dalle cure chi abbia rinunciato alla prevenzione. Non condividiamo una simile soluzione, almeno oggi in cui non esiste una scarsità di risorse tali da imporre scelte drammatiche. Accettare questa impostazione significa porsi su una china pericolosa e in contrasto con l’idea della salute come diritto assoluto, di cui si gode indipendente dalle scelte di vita. All’estremo, infatti, seguendo questa “strada” gli ospedali potrebbero “respingere” chi ha avuto una condotta di vita poco sana, oppure a chi si è messo in pericolo o a chi ha attentato alla propria vita.
E noi preferiamo vivere in un Paese che si prende cura di fumatori obesi, appassionati di sport estremi e aspiranti suicidi.

IlSole24Ore

sabato 18 maggio 2019

Elezioni europee, sfida su Facebook: Salvini spende più di tutti, M5S (quasi) assente. - Marco Lo Conte

Tanto Salvini, quasi altrettanto il Pd, Movimento 5 Stelle pressoché zero. E poi Berlusconi, con un gran numero di post sponsorizzati ma targettizzati poco. È in sintesi la fotografia delle campagne elettorali in vista delle elezioni europee del prossimo 26 maggio, scattata da Facebook che ha deciso di fornire piena trasparenza sulle sponsorizzazioni dei post pubblicati sulla propria piattaforma. Da cui emerge chi ha speso di più e meglio, per attirare l'attenzione degli elettori in queste ultime settimane cruciali per l'esito elettorale.

Perché, per chi non lo sapesse, ciò che guardiamo magari distrattamente sui social arriva sul nostro profilo perché magari qualcuno ha pagato del denaro affinché quel messaggio politico ci venisse sottoposto, considerandoci un “target” interessante ai fini elettorali (Facebook offre un livello di precisione in questo senso del 90%).

La ragione è nota: gli italiani trascorrono in media 6 ore e 42 minuti connessi a Internet, di cui due ore e un quarto da smartphone. Inevitabile che questo sia diventato il terreno in cui conquistare consenso politico, tralasciando i desueti cartelloni pubblicitari, desolatamente vuoti in questi giorni. 

Complessivamente dal marzo scorso ad oggi, sono stati spesi su Facebook 868.254 euro per promuovere 16.772 post legati alle elezioni europee. Questo è il dato offerto dalla piattaforma fondata da Mark Zuckerberg, che mostra il pubblico di riferimento coinvolto da ciascun post, distinti per classi di età, genere e regione, oltre al denaro stanziato. Una trasparenza che ha fatto seguito allo scandalo Cambridge Analytica, che ha intaccato l'immagine e messo in difficoltà Facebook, dopo che in occasione delle presidenziali Usa e del referendum su Brexit, erano state sponsorizzate dall'estero centinaia di pagine che veicolavano talvolta messaggi contenenti fake news.

Ora le parole d'ordine per il social seguito nel mondo da oltre 2 miliardi di persone – 34,8 milioni solo in Italia, oltre ai 23,4 della controllata Instagram –sono rimuovereridurreinformare: una volta identificate (Pagella Politica collabora in Italia su questo tema con Facebook) le fake news vengono cancellate, le campagne devono essere certificate e se non rispettano le regole indicate nel disclaimer vengono ridotte e le somme investite restituite (all'80%).

Gli investimenti quantitativamente maggiori riguardano Matteo Salvini, per il quale la Lega ha speso poco meno di 78mila euro, di cui 43.500 solo nell'ultima settimana. Da registrare l'effetto prodotto nei differenti target dai differenti messaggi politici: post come “Stavolta voto Lega!” è stato distribuito dall'algoritmo di Facebook in particolare tra le donne over45 con forte prevalenza nelle regioni del Centro-Sud (Sicilia 16%, Lazio 13%, Campania 13%), analogamente a “Salvini ha fermato la mangiatoia dell'immigrazione”.



Molto visto soprattutto tra le donne il post sponsorizzato (con il budget maggiore, fino a 5mila euro) sulla castrazione chimica (“Il 58% degli italiani è favorevole”, recita il post), distribuito in modo più uniforme a livello territoriale; mentre ha incontrato l'interesse prevalentemente giovane e maschile il post l'immagine di un giovane di colore che affronta un vigile urbano (“Se non avessi questa divisa”): la Campania, la regione in cui si è rivelato più popolare, almeno per il periodo in cui è stato visibile, prima di essere bloccato da Facebook. Da registrare come invece sia stato rimosso da Facebook il famoso post sponsorizzato del VinciSalvini, il gioco messo in campo dallo staff del leader della Lega, popolare in larga parte tra gli uomini under44, in base alla normativa di Facebook.

Il Partito Democratico ha stanziato finora 73mila euro (26mila circa nell'ultima settimana) per sponsorizzare i post del suo segretario, Nicola Zingaretti. Da registrare il cartellino giallo di Facebook che ha segnalato il ritardo nell’adeguamento alle policy di pubblicazione (per una somma pari alla metà dello stanziamento circa). Molti i post del Pd, anche se con cifre basse, ad eccezione di “Una nuova Europa per andare #avantitutti”, per cui sono stati stanziati 5mila-10mila euro, coinvolgendo un pubblico soprattutto di uomini over45.



Tra i 500 e i mille euro il post sull'indennità europea di disoccupazione che, come prevedibile, ha raggiunto soprattutto gli uomini giovani, ma in modo rilevante anche uomini e donne over55. Appena presente invece Carlo Calenda, capolista Pd nel nord est: l'ex ministro, particolarmente attivo su Twitter, ha sponsorizzato pochi post sulla piattaforma più seguita, rivolgendosi in particolare agli uomini giovani e, in un caso, unicamente agli abitanti del Trentino Alto Adige. 

Meno efficace la campagna dell'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che ha sponsorizzato quasi 400 post, ciascuno però con budget particolarmente basso: complessivamente sono stati spesi 66mila euro, di cui 16mila nell'ultima settimana, parcellizzati in un pulviscolo di messaggi. Da segnalare la forte targettizzazione di alcuni post di Silvio Berlusconi, che ha puntato in modo netto sugli over45, escludendo nella campagna i più giovani.



Insieme al fondatore, da registrare un post sponsorizzato da Forza Italia riguardante il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, targhettizzato a livello regionale: il 57% degli utenti raggiunti, infatti, risiede in Lazio, gli altri lettori del post sono in Toscana, Marche e Umbria.

Sempre nel centro destra, sono da segnalare i numerosi post di Giorgia Meloni, sponsorizzati complessivamente per 17mila euro (8mila nell'ultima settimana) da Fratelli d'Italia. Numerosi, ma in gran parte uguali tra loro, il che non migliora la comunicazione meno efficace nel raggiungimento dei target di riferimento. Da notare la forte prevalenza di pubblico maschile coinvolto da questi post e la bassissima percentuale di lettrici donne, ad eccezione del post “Casa diritto di tutti”. 

Per un movimento nato sulla rete può apparire un paradosso, ma per questa competizione elettorale le pagine del MoVimento 5 Stelle non hanno messo in campo alcuna sponsorizzazione su Facebook. Effetto anche del cambio di passo comunicativo che il M5S ha messo in campo ormai da tempo, con una sterzata “moderata” (in concomitanza con l'arrivo di Augusto Rubei ai vertici della comunicazione del movimento). Di fatto sui social la comunicazione dei grillini è solo organica e sponsorizzati sono solo alcuni post di singoli candidati. 

Non solo i partiti: Facebook stessa ha stanziato in Italia circa 62mila euro per due post “istituzionali” in vista delle elezioni europee. Ma la parte più consistente degli investimenti pubblicitari di post politici su Facebook è stata realizzata dal Parlamento europeo: 200mila euro, poco meno di un quarto del totale, per una campagna istituzionale che è iniziata molto mesi fa e che in molti casi è stata mirata ai giovanissimi che si recano alle urne per la prima volta.



https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-05-17/elezioni-europee-sfida-facebook-salvini-spende-piu-tutti-m5s-quasi-assente-182704.shtml?uuid=ACuarBE

mercoledì 26 dicembre 2012

Per Gasparri, Storace e altri 5 ex-An scialuppa post-elettorale al Secolo d’Italia. - Marco Lillo


Per Gasparri, Storace e altri 5 ex-An scialuppa post-elettorale al Secolo d’Italia


Nonostante la grave situazione del giornale, in caso di sconfitta alle urne Meloni, Bocchino e gli altri si aprirebbe l'uscita di sicurezza verso il giornale della fiamma tricolore, dal quale sono in aspettativa parlamentare. Continuando a maturare la pensione da giornalista insieme al vitalizio parlamentare. L'ex ministro delle Comunicazioni: "E' un diritto, non un privilegio".

Mario Landolfi, Francesco Storace, Giorgia Meloni, Maurizio Gasparri, Silvano Moffa, Italo Bocchino, Gennaro Malgieri. Cosa hanno in comune questi sette politici oltre alle radici in Alleanza Nazionale? Oggi sono divisi: Giorgia Meloni ha fondato “Fratelli d’Italia” con Guido Crosetto, remake dell’omonimo cinepanettone del duo Boldi-De Sica. Francesco Storace resta fedele alla sua “Destra”, Maurizio Gasparri sta con Berlusconi. Il mite Silvano Moffa guida un manipolo semisconosciuto denominato “Popolo e Territorio”. Mario Landolfi e Gennaro Malgieri sono montiani e Italo Bocchino rimane l’ultimo giapponese accanto a Fini. I magnifici sette corrono sotto insegne diverse ma li accomuna l’uscita di sicurezza in caso di disastro elettorale: il 26 febbraio potrebbero mettersi in fila davanti al portone di via della Scrofa 43 per riprendere il loro posto nella redazione del Secolo d’Italia.
Mario Landolfi, assunto nel 1991 è in aspettativa parlamentare dal 1994, come Francesco Storace assunto nel 1986 e in aspettativa con la qualifica di caposervizio; Giorgia Meloni, consigliere provinciale a 21 anni nel 1998, è entrata nel 2004 ed è in aspettativa parlamentare dal 2006. Maurizio Gasparri assunto nel 1983 come Moffa è in aspettativa dal 1992, mentre Moffa è in aspettativa dal 1998. Italo Bocchino, assunto nel 1991 è in aspettativa dal 1996 mentre il più anziano e alto in grado è Gennaro Malgieri, assunto nel 1979 e in aspettativa dal 1996, con la qualifica di direttore, incarico ricoperto dal 1994, dopo Gasparri.
Il giornale che hanno lasciato in edicola non c’è più. Da ieri per la prima volta l’organo di An non è in edicola. L’editoriale di commiato del direttore-deputato (non retribuito), Marcello De Angelis, si chiude così: “da gennaio, sarà on line. La battaglia continua, con altri mezzi”. Il giornale vendeva a malapena 700 copie reali al giorno e la nuova legge sui contributi ai giornali di partito ha favorito il passaggio sul web permettendo il rimborso del 70 per cento delle spese invece del 50 per cento riservato ai giornali di carta. L’organico comunque dovrà essere ridotto. Oggi ci sono 14 giornalisti più i sette in aspettativa più l’ex direttore finiano Flavia Perina, in causa da quando è stata licenziata in tronco senza nemmeno il riconoscimento del Tfr. E c’è pure il caso anomalo dell’ex portavoce di Fini, Salvo Sottile assunto dal Secolo nel 2006 (anno dello scandalo Vallettopoli-Gregoraci) ma che figura “in distacco”. Il suo stipendio oggi non è a carico del Secolo ma è più alto di tutti i colleghi e preoccupa per il futuro i contribuenti.
Il Secolo, oltre alle iniezioni di liquidità permesse dai rimborsi elettorali ad An, è costato ai contribuenti più di 20 milioni solo negli ultimi sette anni. Il Dipartimento editoria della Presidenza del consiglio ha versato 2 milioni e 433 mila euro per il 2010, 2 milioni e 952 mila euro per il 2009, 2 milioni e 950 mila nel 2008, 2 milioni e 959 mila euro nel 2007, 3 milioni e 98 mila euro nel 2006, 3 milioni e 98 mila euro nel 2005, 3 milioni e 98 mila euro nel 2004, per un totale di 20 milioni e 588 mila euro che non sono bastati a sostenere un organico di 40 persone.
Per rimettere in equilibrio i conti nell’ottobre scorso, l’amministratore nominato dalla liquidazione del Tribunale, Alberto Dello Strologo, aveva preparato un piano – approvato dai liquidatori Marco Lacchini e Giuseppe Tepedino – che riduceva l’organico a sette giornalisti decretando di fatto la fuoriuscita dei parlamentari in aspettativa. Il Presidente del Tribunale di Roma, Mario Bresciano, però ha fermato tutto nominando due nuovi liquidatori, Davide Franco e Andrea D’Ovidio, ai quali ha chiesto di trasferire subito la proprietà del Secolo d’Italia dalla liquidazione (diretta dal Tribunale) alla Fondazione (di Alleanza Nazionale) dove comandano i politici che, alla fine, hanno deciso di salvare il posto ai giornalisti, compresi quelli in aspettativa.
La riduzione dell’organico alla fine riguarderà solo gli impiegati comuni. Gasparri e compagni possono restare in aspettativa. La Fondazione (presieduta dal senatore Francesco Mugnai, e diretta da un comitato di cui fanno parte anche il finiano Lamorte, La Russa, Alemanno, Matteoli e Gasparri) per permettere la sopravvivenza del Secolo ha comprato le quote e ha immesso nella società 700mila euro cash rinunciando anche ai suoi crediti per circa mezzo milione. I soldi non mancano: sui conti correnti della Fondazione ci sono 65 milioni di euro cash provenienti dai rimborsi elettorali più altri 35 milioni di euro in immobili.
Grazie al liquido della Fondazione An, la scialuppa dei sette parlamentari resta a galla, pronta ad accoglierli in caso di naufragio elettorale. Silvano Moffa nel 2003, dopo aver perso la provincia di Roma, è tornato al Secolo per nove mesi fino a quando è stato eletto sindaco di Colleferro nel 2004. Senza contare il vero vantaggio: la doppia pensione da giornalista che si unisce al vitalizio parlamentare. Fino al 1999, tutti i giornalisti in aspettativa parlamentare maturavano i contributi figurativi senza versare un euro. Dal 1999 i parlamentari pagano almeno la loro quota di contributi fissata all’8,69 per cento. Mentre la parte a carico dell’editore la paga l’Istituto previdenziale, cioè i giornalisti tutti. Al Fatto che gli chiede se, in un momento di sacrifici, non sarebbe il caso di rinunciare alla pensione da giornalista, avendo già diritto al vitalizio parlamentare, Gasparri replica: “Se qualcuno davvero volesse togliermi questo diritto mi dovrebbe prima restituire i contributi già pagati. E’ un diritto riconosciuto a chiunque vada in aspettativa e non è un privilegio. Se la vogliamo dire tutta io al Secolo ho fatto il direttore pagato solo come un caposervizio e, dopo l’elezione del 1992, l’ho fatto anche gratis fino al 1994, quando sono stato nominato sottosegretario e ho lasciato. Altro che privilegio”. Al Secolo sono avvertiti: poche storie o l’ex direttore Gasparri chiede pure gli arretrati.