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domenica 7 agosto 2022

Conte e Renzi, corsa in solitaria per il terzo polo. - Emilia Patta

 

Sblocco dei crediti e ripristino del Superbonus edilizio al 110% delle origini. Salario minino legale. Difesa del reddito di cittadinanza. E naturalmente transizione ecologica dura e pura, senza cedimenti su rigassificatori o termovalorizzatori. Altro che Agenda Draghi. Per il M5s di Giuseppe Conte, piuttosto, ci vorrebbe l’Agenda Parisi (Giorgio, il premio nobel per la fisica impegnatissimo sul fronte della lotta al climate change). L’ex premier si ritrova alla fine da solo, senza più l’alleanza con il Pd che ha caratterizzato la stagione del suo secondo governo, il Conte 2, e senza neanche la sinistra di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli che, nonostante le polemiche furiose di questi giorni, sigleranno oggi l’intesa con il segretario dem Enrico Letta per stare nella coalizione democratica e progressista. Dunque Cinque Stelle soli, duri e puri come alle origini.

Un po’ difficile, per la verità, convincere gli elettori storici del movimento con la narrazione di un improbabile ritorno alle origini dopo aver guidato due governi di segno diversissimo (il Conte 1 con la Lega e il Conte 2 con il Pd) e aver sostenuto il governo Draghi delle larghissime intese. Ma il motivo fondamentale che ha portato Conte a “defenestrare” Mario Draghi è stato il declinare inarrestabile del M5s nei sondaggi: ora la sfida è mantenerlo sopra il 10% puntando appunto sulla corsa solitaria e su un’agenda alternativa a quella tanto evocata di Draghi. Non a caso Conte non perde occasione per criticare il suo successore. Ieri è stata la volta della misura sui docenti contenuta nel decreto Aiuti bis: «Ieri il governo Draghi ha deciso che l’1% degli insegnanti, dopo un percorso di formazione, fra 10 anni potrà essere definito esperto e ricevere un assegno di 5.650 euro. Non è questa la nostra idea di Paese: in Italia abbiamo gli insegnanti con gli stipendi più bassi d’Europa».

Temi programmatici a parte, Conte ha ora da compilare le liste elettorali senza poter contare sulla classe dirigente del movimento, a parte il ministro Stefano Patuanelli, a causa del niet posto dal Garante Beppe Grillo alla ricandidatura di chi ha già fatto due mandati. A selezionare i futuri eletti saranno le parlamentarie on line che si terranno il 16 agosto, appena cinque giorni dal termine per la presentazione delle liste, mentre Conte dovrebbe scegliere i capilista. Anche se il ricorso da parte del solito avvocato Lorenzo Borrè è già pronto: «Leggendo e rileggendo lo statuto non trovo la previsione del potere del presidente di scegliere i capilista». Intanto Alessandro Di Battista, con cui Conte si è sentito molto nelle ultime ore, è sulla via del rientro nel movimento: il volto giusto per la narrazione del ritorno alle origini.

Una rincorsa di fatto al Terzo polo, quella di Conte, che tuttavia trova sul campo un altro concorrente agguerrito: l’ex premier Matteo Renzi, colui che ha fatto cadere il Conte 2 spianando la strada a Draghi. E proprio all’insegna dell’Agenda Draghi si giocherà la campagna elettorale di Italia Viva, in opposizione a tutti i punti programmatici di Conte: dal reddito di cittadinanza che per Renzi andrebbe addirittura abolito al superamento del Superbonus al 110% fino all’apertura al nucleare. L’obiettivo è il 5%, per essere ancora ago della bilancia nella prossima legislatura. Più prosaicamente Renzi spera, con la corsa solitaria, di superare la soglia del 3% per rientrare in Parlamento con una piccola pattuglia di fedelissimi. Ma c’è tempo fino al 21 agosto, e le porte del Pd restano aperte per il segretario che portò i dem al 40%: soprattutto se dovesse saltare l’accordo tra Letta e la sinistra di Fratoianni e Bonelli, Renzi potrebbe rientrare in corner. Ma intanto prosegue nella costruzione del Terzo polo: in queste ore sono in corso contatti con l’ex sindaco di Parma Federico Pizzarotti e con altri primi cittadini “liberali e moderati”. Sarebbe un bel colpo per Renzi scippare al campo largo il “civico” Pizzarotti, nelle scorse settimane corteggiato anche da Luigi di Maio per la sua lista Impegno civico.

https://www.ilsole24ore.com/art/conte-e-renzi-corsa-solitaria-il-terzo-polo-AEZLgbrB?utm_medium=FBSole24Ore&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR3Gohnk4zuHOGUUksWI7uJ6hPFmO6b23TaJKs5nk08WdnDh14Eu5LXYfyU#Echobox=1659859466

martedì 5 ottobre 2021

Cosa dicono quei numeri. - Marco Travaglio

 

“È la somma che fa il totale”, diceva Totò. Quindi non c’è nulla di originale nell’osservare che il nuovo centrosinistra giallorosa vince solo se è unito: a Napoli con Manfredi è un po’ più contiano e dimaiano, a Bologna con Lepore è molto più pidino. A Milano i 5Stelle sono irrilevanti, come sempre, e quello di Sala (mai iscritto al Pd e proveniente dal centrodestra morattiano) è un trionfo personale e trasversale. Il vecchio centrodestra a tre punte, a trazione meloniana e non più salviniana, va male dappertutto: per ora porta a casa solo la Calabria, e più per i demeriti del centrosinistra (ben tre candidati) che per meriti propri. È secondo persino a Torino, dove il moderato Damilano era strafavorito sul pd Lo Russo. Il quale però ora deve sperare nella scarsa memoria dei 5Stelle, dopo gli insulti alla buona esperienza Appendino e il rifiuto tracotante di qualsiasi dialogo col M5S. Roma fa storia a sé. La Raggi s’è rivelata un osso molto più duro di quel che diceva la black propaganda, ma non abbastanza per qualificarsi alla finale. Lì però può succedere di tutto: la Meloni farà pesare tutto il suo consenso personale e, anche se Conte facesse l’endorsement a Gualtieri e molti elettori raggiani lo seguissero, Michetti avrebbe un ottimo serbatoio di riserva tra gli elettori di Calenda, l’altro candidato di destra (l’altra destra: quella borghese, confindustriale e tecnocratica), allergico ai giallorosa.

Tutto ciò premesso, sarebbe ridicolo confondere questa tornata amministrativa con le prossime Politiche. Chi lo fa, seguendo i soliti esperti del nulla, si condanna al suicidio. Il centrosinistra che ha appena stravinto il primo turno delle Comunali, su scala nazionale resta 10 punti sotto il pur malconcio centrodestra. Il che rende semplicemente comico il pressing dei giornaloni perché il Pd molli l’asse col M5S contiano per allearsi con non si sa bene chi. Se il Pd vince è proprio grazie alla linea Zinga-Letta sull’alleanza col M5S: la linea Renzi, alle Comunali del 2016, portò il partito alla débâcle. Anche chi vaneggia di “sconfitta dei populisti”, con Lega e FdI al 40% e gli astenuti al 46%, racconta barzellette. I non votanti – il primo partito d’Italia – sono soprattutto ex elettori 5Stelle in attesa di un’offerta credibile. È un monito soprattutto per Conte, che dovrà trovare linguaggi e contenuti di populismo gentile e competente per recuperare almeno una parte delle periferie sociali ed elettorali che non si sentono rappresentate da nessuno. Specie nel deserto del Nord. Dalla sua, ha la fortuna di essere la soluzione migliore alla penuria generale di classe dirigente: fra i vari ex premier in circolazione, è di gran lunga il più apprezzato dal “popolo”. Ma quel ricordo non dura in eterno.

ILFQ

giovedì 23 settembre 2021

La voce del padrone. - Marco Travaglio

 

Da quando han cominciato a votare contro le élite politiche, finanziarie ed editoriali, gli elettori godono di pessima fama. Sono populisti, giustizialisti, poco riformisti, scarsamente moderati, insufficientemente europeisti, non abbastanza atlantisti e affetti da una preoccupante cultura anti-impresa. I padroni del vapore e i loro pennivendoli li avevano avvertiti: votate come vi diciamo noi, cioè i soliti B. o Renzi, che poi fa lo stesso. Ma quelli niente: non ne han voluto sapere. E sono stati puniti: il solito banchiere al governo. Eravate contro l’establishment e gli inciuci? E noi vi piazziamo la quintessenza dell’establishment sostenuto da un inciucione. Così imparate. Ora però abbiamo un problema: prima o poi si vota, al più tardi nel 2023. E quei rompicoglioni degli elettori hanno financo la pretesa di decidere da chi farsi governare. Con l’aggravante, sondaggi alla mano, di non essere guariti dalla grave patologia chiamata democrazia. Infatti i politici più popolari sono Conte e la Meloni. Come si fa? Semplice: si decide nelle segrete stanze chi deve governare gli italiani, così quelli si adeguano e votano bene oppure se ne stanno a casa e lasciano votare chi vota bene. Lo spiegava ieri, nel 40° anniversario de La voce del padrone di Franco Battiato, il sincero democratico Stefano Folli su Repubblica (un ossimoro: dovrebbe chiamarsi almeno Monarchia): siccome Conte riporta su il M5S nei sondaggi e riempie le piazze, “assistiamo al rapido tramonto di Conte”, un “declino veloce e forse inarrestabile” (l’ha deciso lui).

Quindi “il centrosinistra deve chiedere a Draghi di proseguire la sua opera a Palazzo Chigi”. E – tenetevi forte – “dovrebbe farlo il centrodestra non meno del centrosinistra”. Destra e sinistra con lo stesso premier. Qualcuno domanderà: ma gli elettori che ci stanno a fare? E in quale Paese, a parte Cuba, la Russia e qualche repubblichetta delle banane, tutti i partiti indicano lo stesso capo del governo? Beata ingenuità: è proprio questo che sognano lorsignori e i loro manutengoli a mezzo stampa. Anzi, non si limitano a sognarlo: lo confessano nero su bianco. Sentite il seguito del piano Folli, che delizia: “Offrire una base politica a Draghi, magari senza bisogno che egli si candidi formalmente alle elezioni”. Ecco, Draghi “formalmente” non si candida, se no poi la gente capisce: si candidano tutti gli altri per poi re-issare SuperMario sul trono regale. I programmi, le idee, le diverse visioni dell’Italia e del mondo, naturalmente la sovranità popolare, cioè la Politica e la Democrazia, possiamo scordarcele: “Tra un anno (cioè subito prima delle elezioni, ndr) occorrerà fare delle scelte in vista del dopo”. Prima si decide, poi si vota: non è meraviglioso?

ILFQ

lunedì 4 gennaio 2021

Meglio le elezioni. - Gad Lerner e Franco Monaco

 

Dentro l’attuale congiuntura critica, non è buona norma farsi guidare dalla paura che vinca la destra. Meglio essere pronti a una sfida alta. Da come si sono messe le cose, sarebbe auspicabile che si seguisse una via trasparente e lineare. Quella già prefigurata da Conte nel caso quasi certo che venga meno la maggioranza: un passaggio parlamentare in cui ciascun soggetto, singolo o partito, si assuma la propria responsabilità agli occhi del Paese. Come fu per i governi Prodi, tra i pochi che, in conformità alla Costituzione, furono sfiduciati in Parlamento.

Conte consideri che se Prodi, dopo la caduta del suo primo governo, ha avuto una seconda chance nel 2006 è perché la nitida parlamentarizzazione della crisi, ne preservò la credibilità. Ogni altra soluzione – “responsabili”, rimpastone, cambi di premier – incappa in una doppia obiezione: avrebbe il sapore antico e sgradevole dei giochi trasformistici di palazzo che gettano ulteriore discredito su politica e istituzioni, ma soprattutto non risolverebbe il problema, reitererebbe una condizione di asfissia e precarietà. Chi può scommettere che, per questa via, ci si possa mettere al riparo dai ricatti quotidiani dell’ultimo “responsabile” e tanto più di Renzi, mosso dalla pervicace, cinica e disperata convinzione che la sua strategia dell’ostruzionismo di maggioranza possa assicurargli visibilità e (improbabile) consenso? Certo, parlamentarizzare la crisi e rifiutare opache manovre di palazzo comunque non risolutive presuppone di mettere nel conto elezioni anticipate. Davvero, non solo evocandole tatticamente senza convinzione. Conosciamo l’obiezione: elezioni dentro l’emergenza sanitaria ed economica, nel vivo del piano vaccinale e di quello per il Recovery sono un serio problema (e chi le ha causate ne risponderà). Ma l’obiezione può essere rovesciata: si possono affrontare quelle sfide con un esecutivo fragile quanto o più di questo?

Alle elezioni la destra parte favorita. Ma, se ben impostata da subito, proprio a partire da un limpido dibattito parlamentare in cui – come quello dell’agosto 2019 tra Conte e Salvini – siano squadernati problemi e responsabilità, la partita sarebbe apertissima. Anche col Rosatellum, una brutta legge elettorale, che tuttavia costringe ad alleanze prima delle elezioni. Che si configurerebbero come una sorta di referendum a due: tra uno schieramento europeista Pd-M5S-LeU guidato da Conte e uno sovranista capeggiato da Salvini. Non sarebbe una passeggiata per quest’ultimo portare tutto il centrodestra a una battaglia antieuropeista nella stretta del negoziato con la Ue per il Recovery. Nel fronte antagonista sarebbe l’occasione per un chiarimento identitario e strategico per Pd e M5S. Con nuovi gruppi parlamentari finalmente organici a tale prospettiva. La precarietà politica e la debolezza di qualunque governo dipende anche dalle contraddizioni irrisolte degli attori politici. Un vallo arduo che va attraversato. Non possiamo permetterci di condannare il Paese a governi senza respiro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/04/meglio-le-elezioni/6054523/

Non credo che le elezioni siano la scelta migliore, allo stato attuale. Abbiamo una pessima legge elettorale e tanti soldoni nel carniere alla cui spartizione vorrebbero partecipare in tanti. 
Cetta.

domenica 22 novembre 2020

Incapaci di intendere e volere. - Massimo Erbetti














È vero, qualcuno ha offeso i calabresi e li ha offesi in modo indegno, reputandoli incapaci di intendere e volere e non è stato sicuramente Morra a farlo, ma chi si è stracciato le vesti per le sue parole…è offendere qualcuno dire: "...Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte…."
Sapete cosa è offensivo? Cosa è veramente vergognoso? Far passare il messaggio che i calabresi non sappiano cosa votano, chi votano e perché lo votano…oppure i calabresi sono obbligati a votare certi soggetti? Perché se lo fossero veramente, la cosa sarebbe ancor più grave, ma grave veramente…in Calabria non c'è democrazia? In Calabria le persone votano, anzi più correttamente "sono costrette a votare" qualcuno in particolare?
L'autodeterminazione dei popoli, vale per tutti, ma non per i calabresi? Ci sono dubbi sulla veridicità delle elezioni calabresi? Perché chi dice che Morra offende fa passare questo messaggio.
Ognuno è responsabile delle proprie scelte…o lo sono tutti tranne i calabresi? Se io fossi calabrese, mi sentirei offeso, umiliato e denigrato, da chi afferma il contrario, significherebbe che non sono in grado di scegliere i miei rappresentanti…
C'è poi chi per portare avanti la tesi dell'incapacita di intendere e volere dei calabresi è andato dalle parole ai fatti ed è il caso di RAI 3, che ha pensato bene di non mandare in onda, l'intervista a Morra, motivandola cosi:
"Lo abbiamo invitato tre giorni fa, poi le sue parole hanno stravolto lo scenario. Parole offensive nei confronti della memoria di Jole Santelli e nei confronti dei calabresi"... Anche in questo caso, qualcuno si erge a paladino dei calabresi perché loro non hanno la capacità di farlo?
Ma non finisce qui :
"La direzione della Rai ha deciso che il senatore Nicola Morra questa sera non doveva essere qui"....la direzione ha deciso? La direzione? A quale titolo? Per quale assurdo potere? E potere conferito da chi?...Si chiama "servizio pubblico", non dittatura pubblica.
E poi l'apoteosi: "Sono molto in imbarazzo" afferma la conduttrice "ma probabilmente questa è la scelta giusta"...scelta giusta per chi? Per cosa?... Scelta giusta per i calabresi che non sono in grado di decidere qualcosa da soli, che non sanno cosa e chi votano…e hanno bisogno di un tutore? Di qualcuno che indirizzi le loro scelte?...Si è proprio vero qualcuno ha vergognosamente offeso i calabresi…ed è stato chi li ha fatti passare per un popolo incapace di intendere e volere.

https://www.facebook.com/photo?fbid=10218769720019738&set=a.2888902147289

mercoledì 11 novembre 2020

Il Cazzaro Bianco. - Marco Travaglio

Tutto è relativo. Infatti è bastata la sola esistenza in vita di Donald Trump per trasformare Joe Biden nel nuovo Abramo Lincoln e la vice Kamala Harris (vedi pagina 14) nella versione femminile di Martin Luther King. Ma, per evitare sorprese in futuro, è bene conservare un pizzico di memoria sul passato. Tre anni fa La Stampa ancora diretta dallo yankee Molinari era impegnatissima a dimostrare che Putin truccava le elezioni in tutto il mondo, convincendo a colpi di hacker, troll e fake news centinaia di milioni di abitanti del pianeta a votare i cattivi sovranisti al posto dei soliti buoni. E titolò tutta giuliva: “Biden: ‘Così il Cremlino interferì nel referendum italiano. Mosca sostiene Lega e M5S’”. Ecco perchè l’Innominabile aveva perso il referendum e Palazzo Chigi: non perché la sua riforma e il suo governo facessero pena ai più, ma perchè l’aveva deciso Vladimir. Che aveva già telecomandato l’elezione di Trump, il voto sulla Brexit e non solo. L’articolo di Biden sulla rivista Foreign Affairs, anticipato da La Stampa, svelava il fallito tentativo di pilotare le elezioni francesi del 2017 e “passi simili per influenzare le campagne politiche in vari Paesi Ue: i referendum in Olanda (integrazione dell’Ucraina in Europa), in Italia e in Spagna (secessione catalana)”.

Il fatto che Referenzum si fosse tenuto sei mesi prima delle Presidenziali francesi, era solo un dettaglio. Del resto all’epoca il vecchio Joe era considerato in patria un buontempone specializzato in gaffe: appena apriva bocca perdeva una preziosa occasione per tacere. Tipo quando aveva definito Obama “un nero pulito in grado di parlare in modo articolato” e sostenuto che in America “il 47% dei poveri sono scansafatiche”. Infatti lo presero sul serio giusto l’Innominabile e La Stampa, nella speranza che gli italiani abboccassero al suo allarme sullo “sforzo russo per sostenere il movimento nazionalista della Lega Nord e quello populista dei 5 Stelle alle prossime elezioni”. A colpi di fake news e persino di “corruzione” (il cazzaro non specificava di chi). Nessuno spiegò perché mai lo zio Vlady avrebbe dovuto scaricare i suoi amici italiani, cioè B. (che gli aveva appena regalato un copripiumone per il compleanno) e l’Innominabile (che si era opposto alle nuove sanzioni anti-Russia chieste da mezza Ue). Poi si sa come andò: Putin convinse 10,7 milioni di italiani che era ora di rottamare il renzismo votando 5Stelle e altri 5,7 a pensionare B. votando Salvini, come se non ci fossero già arrivati da soli. Ora si attendono lumi da Biden e dalle sue cheerleader italiote sulle ultime presidenziali: com’è che ha vinto lui ed è il presidente più votato di sempre? S’è alleato coi russi o, niente niente, Putin s’è distratto un attimo?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/11/il-cazzaro-bianco/5999327/

giovedì 15 ottobre 2020

Orgasmi&ganasce. - Marco Travaglio

 

Per la prima volta, ho provato sentimenti di umana pietà per Monica Cirrinnà. È stato quando ho letto sul sito di Repubblica che “Calenda schiaccia gli altri candidati nella corsa per il Campidoglio”. Il pensiero dell’esile deputata pidina che stramazza al suolo esanime sotto il peso del corpulento leader di Azione mi ha fatto riflettere sulle dure e impietose leggi della politica e sull’esigenza di porvi qualche limite di cristiana misericordia o di laica solidarietà. Anche perché le primarie romane del centrosinistra sono talmente affollate che non ci si meraviglierebbe di veder piovere dal cielo pure Mario Adinolfi. E lì sarebbero cavoli amari per tutti, non solo per la Cirinnà. Ma almeno si smetterebbe di chiamarle “le primarie dei sette nani”. Per fortuna, al momento, di schiacciante c’è solo la maggioranza dei giornaloni e dei retrostanti padroni del vapore che fanno il tifo per Calenda ancor prima che si candidi a sindaco. Anzi, più che un tifo, è una serie di orgasmi multipli a mezzo stampa, pari a quelli che si registravano ai tempi del Giubileo, dei Mondiali di Nuoto e delle candidature olimpiche (fortunatamente sventate da Monti e dalla Raggi). Con una particolarità: invece dei tradizionali sospiri e gridolini di piacere, gli orgasmi capitolini hanno come colonna sonora un sinistro rumore di ganasce, che va da Repubblica degli Agnelli-Elkann al Messaggero di Caltagirone. Per la serie: daje che se rimagna.

Repubblica spaccia per “sondaggio” una consultazione fra i lettori del sito su chi preferiscano fra Calenda e nove “potenziali candidati” al Campidoglio: Cirinnà, Fassina, Zevi, Ciani, Caudo, Magi, Ciaccheri, Alfonsi e De Biase. Naturalmente è arrivato primo Calenda col 50%, mentre gli altri nove si dividono il 32 e il restante 18 li detesta tutti. Bella forza: Calenda sta sempre in televisione anziché al Parlamento europeo (dove, secondo i dati ufficiali di Votewatch, è il 72° italiano su 75 per numero di voti e presenze: peggio di lui fanno solo Roberti, Patriciello e B.), mentre gli altri nessuno sa chi siano. Il campione, peraltro, è piuttosto striminzito, visto che in quattro giorni han risposto appena 25mila lettori del sito e 13.100 han votato Calenda. Ma Rep ha già deciso che questo “successo travolgente”, questo “straordinario consenso” basta e avanza a garantirgli “buone chance di arrivare primo”: basterà un emendamento per limitare il diritto di voto ai romani che leggono il sito di Rep. Inutile fare le primarie, un tempo orgoglio e vanto del Pd veltroniano e dunque di Rep, oggi degradate a “concorso di bellezza per sconosciuti” e “coperta di Linus cui aggrapparsi in mancanza di idee migliori”.

Del resto, Carletto è un “city manager più che un politico di professione”, e ciò è bene se lo dice Rep (se lo dicono gli altri, è male, è qualunquismo, peronismo, antipolitica, fascismo). Lui sa “cosa vuol dire amministrare una macchina da 30 mila dipendenti”, anche se non ha amministrato nemmeno un condominio. Lui sa “condurre in porto un appalto senza farsi imbrigliare per mesi o anni da cavilli”: basti pensare alla brillante gestione di dossier come Ilva, Alitalia eccetera. Lui sa “far ritrovare alla parte sana dei dipendenti comunali l’orgoglio delle cose realizzate”, anche grazie alla proverbiale fermezza e alla tetragona continuità: nel 1998 in Ferrari, nel 2003 a Sky, nel 2004 in Confindustria, nel 2008 all’Interporto Campano, nel 2012 in Italia Futura con Montezemolo, nel 2013 candidato trombato nella Lista Monti e viceministro al Mise con Letta, nel 2014 confermato da Renzi, nel 2016 rappresentante permanente dell’Italia presso la Ue per ben due mesi, poi di nuovo al Mise come ministro, nel 2018 nel Pd, nel 2019 fondatore di Siamo Europei, ma candidato ed eletto eurodeputato col Pd, abbandonato tre mesi dopo per fondare Azione, e ora forse candidato a sindaco di Roma confidando nell’appoggio del Pd che ha appena cercato di far perdere alle Regionali, insultandone i dirigenti e persino gli elettori (“indegni”). Sono soddisfazioni.
Ma l’orgasmo repubblichino è niente al confronto delle fregole caltagirine. Il Messaggero titola: “La tentazione dei dem: ‘adottare’ Calenda per fermare la Raggi. L’idea di replicare l’operazione Bonino nel 2010”. Infatti l’operazione Bonino nel 2010 riuscì a consegnare il Lazio alla Polverini. Ma la notiziona è un’altra: dopo aver passato quattro anni a dipingerla come un’incapace che i romani non rivoterebbero neppure sotto tortura, adesso il Messaggero registra orripilato “la paura, non solo di Calenda ma di buona parte della città, che Virginia possa arrivare al secondo turno, per poi avere l’appoggio sicuro del Pd”. Un “timore che rovina il sonno anche al Pd”. Ma come fa la Raggi ad arrivare al ballottaggio e poi a rivincerlo se “buona parte della città” è terrorizzata dalla sola prospettiva? E perché mai l’insonne Pd dovrebbe darle l’“appoggio sicuro” al ballottaggio se non dorme la notte all’idea che rivinca? L’unica spiegazione alternativa al manicomio è che forse non è vero che la Raggi ha sbagliato tutto e tutti i romani la maledicono. E forse non è vero che Roma è piena di sindaci in pectore capacissimi di rifarla più bella e superba che pria: altrimenti qualcuno di questi fenomeni si candiderebbe per farcelo vedere. Cioè: i giornaloni ci han raccontato un sacco di balle. Tanto per cambiare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/15/orgasmiganasce/5966573/

domenica 11 ottobre 2020

Voto di sbaglio. - Marco Travaglio

 

Nella classifica dei contagi primeggiano la solita Lombardia, ormai fuori concorso, e le Regioni che hanno appena plebiscitato i loro presidenti: Campania, Veneto e Liguria. I contagi, ovviamente, non sono colpa dei cosiddetti “governatori”: ma De Luca, Zaia e Toti hanno stravinto le regionali proprio perché visti come i salvatori delle rispettive regioni dal Covid. Zaia in un certo senso lo è stato, avendo avuto la fortuna e l’umiltà di affiancarsi Crisanti, con cui poi ha litigato (e da allora il Veneto se la passa maluccio). Toti invece ha mal gestito la prima ondata. Ma, siccome Lombardia e Piemonte han fatto peggio, è passato per uno bravo. E si è pure preso il merito del nuovo ponte, i cui fondi statali sono finiti non spesi o regalati a chi non ne aveva diritto con una distribuzione a dir poco clientelare. Poi, anche grazie alla scandalosa propaganda a suo favore del Giornalone Unico, è riuscito a nascondere la seconda ondata fino alle elezioni. La Campania è stata risparmiata dalla prima ondata per puro culo, non certo per merito di De Luca, il satrapo tutto chiacchiere e distintivo che non ha risolto nessuno degli annosi problemi della sanità campana, anzi li ha aggravati. Ma li ha mascherati dietro la solita raffica di comizietti e siparietti demagogici: molto più comodo evocare lanciafiamme o minacciare lockdown che creare posti letto o assumere medici e infermieri. Intanto un suo fedelissimo, il sindaco di Eboli Massimo Cariello, appena rieletto col record dei voti (80%), ha avuto il tempo di formare la giunta poi è finito in manette per corruzione e abuso: le intercettazioni lo immortalano mentre pilota due concorsi per far assumere una dozzina di amici. Il gip lo descrive come “completamente immerso in una logica privatistica di gestione del potere, tutta votata alla salvaguardia degli interessi propri o delle persone a lui vicine”. Infatti l’hanno votato 4 concittadini su 5. Che presto torneranno alle urne in base alla legge Severino.

In democrazia, è vero, gli elettori hanno sempre ragione. Ma bisogna intendersi. Chi vince ha il diritto-dovere di governare, sempreché non lo arrestino. E chi perde deve chiedersi il perché: ma non sempre la risposta è che ha vinto il migliore. In Liguria, in Campania e a Eboli, pochi giorni dopo le elezioni, è già evidente che han vinto i più bugiardi, o i più demagogici, o i più clientelari, mentre chi li contrastava senza bugie né voti di scambio, ma solo col voto di opinione (Sansa in Liguria, i 5Stelle in Campania) non aveva speranze. Risposta terribile: significa che continueranno a vincere i peggiori finché non troveranno qualcuno ancor peggio di loro. O elettori più informati e meno ricattabili di oggi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/11/voto-di-sbaglio/5961947/

martedì 6 ottobre 2020

Ascoltate gli elettori. - Marco Travaglio











Mentre i vertici grillini erano impegnatissimi a spararsi l’un l’altro, cioè sui piedi, infischiandosene dei ballottaggi di cui probabilmente ignoravano financo l’esistenza, gli elettori di Matera e Pomigliano d’Arco hanno eletto sindaci due 5Stelle. Il che ovviamente non risolve nessuno dei problemi pentastellati: l’emorragia di voti, la guerra per la leadership, la desertificazione sui territori, il caso Rousseau. Ma indica una strada che né Di Maio, convertitosi troppo tardi alle alleanze, né Di Battista, che ancora insegue velleitarie equidistanze e improbabili terzi poli, possono ignorare. Gli elettori hanno ripetuto ciò che avevano già detto alle Regionali: finché la destra sarà così impresentabile e il Pd non tornerà a somigliarle, la priorità è batterla. Meglio se con un candidato M5S, ma anche – turandosi il naso – con uno di centrosinistra. Sempreché non sia impresentabile come o peggio di quello di destra (tipo De Luca): nel qual caso va bene anche la “testimonianza” in una partita persa in partenza. Quindi le alleanze non sono obbligatorie, ma vanno tentate. Anche perché il Pd, sapendo di perdere senza i 5Stelle, è disposto a concedere molto. E lì si vede se restano un movimento o sono diventati un partito, se sono ancora il M5S o sono già l’Udeur.

Il problema non sono le poltrone, ma l’uso che se ne fa. Se per allearsi pretendono liste pulite, candidati eccellenti, cronoprogrammi vincolanti su ambiente, welfare e beni comuni, rimangono se stessi e gli elettori li premiano. Se mettono al primo posto le cadreghe, tradiscono la propria missione e vengono puniti. Di qui dovrebbero partire i loro fatidici stati generali: facendo parlare per primi Domenico Bennardi e Gianluca Del Mastro, nuovi sindaci di Matera e di Pomigliano. Il primo, 45 anni, si è laureato a Firenze in Scienze della formazione e specializzato in nuove tecnologie di restauro e beni culturali. Il secondo, 46 anni, è docente universitario di Papirologia, manager culturale e presidente delle Ville Vesuviane. Due esponenti della seconda generazione dei 5Stelle: quella che nel 2018 ha portato in Parlamento il gruppo col più alto tasso di laureati, lontanissima dalla leggenda nera degli scappati da casa incompetenti e terrapiattisti. Bennardi ha vinto da solo, strappando Matera alla destra coi voti del Pd escluso dal ballottaggio. Del Mastro – frutto del patto Di Maio-Zinga premiato pure a Caivano, Giugliano e Faenza – ha sottratto Pomigliano alla destra dopo 10 anni. Noi non li conosciamo, ma sospettiamo che abbiano priorità più concrete e contemporanee di tutte le pippe mentali su identità, terzo polo, alleanze, partito, movimento e Rousseau. Perchè non fare gli stati generali a Matera?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/06/ascoltate-gli-elettori/5955782/

giovedì 24 settembre 2020

Conte unico vincitore. E occhio ai 209 miliardi. - Massimo Fini


Tutti i principali media e i loro commentatori riconoscono, alcuni obtorto collo, che l’unico, vero vincitore di questa doppia tornata elettorale (referendum più Regionali e Comunali) è, per la disperazione della Trimurti (Giornale, Verità, Libero), il disprezzatissimo “Giuseppi”, vale a dire il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e con lui il suo governo giallorosa che, a dispetto di tutti gli aruspici malauguranti, finirà regolarmente la legislatura.

Ma c’è un altro partito, che esiste da decenni in Italia, ma di cui prudentemente si parla poco o preferibilmente nulla, che esce vincitore da queste elezioni ed è il più forte di tutti: il partito degli astenuti. Prendiamo il referendum. Il quesito era semplice e tale da attizzare l’attenzione dei cittadini: mandare a casa, per la prossima legislatura, un bel numero di deputati e senatori. L’affluenza è stata del 53,84%, 12 punti in meno rispetto al referendum del 2016 (65,47%) che pur poneva questioni molto più complesse. L’affluenza alle Regionali di quest’anno (57,19%) è superiore a quella delle Regionali del 2015 (53,15%), ma si avvale del balzo dell’affluenza in Toscana (quasi 3 milioni aventi diritto al voto) dove quest’anno si giocava la partita decisiva per la tenuta del governo del Paese. Nel 2015 quando questo problema non esisteva andò a votare solo il 48,3% mentre questa volta si è arrivati al 62,6%. Interessante è l’alta affluenza, sia pur sempre in termini relativi, alle elezioni comunali dove ci si attesta al 66,19% confermando, con un lieve margine di aumento, il dato del 2015. E si capisce il perché. Il voto nei Comuni e soprattutto nei piccoli Comuni è l’unico autenticamente democratico perché il sindaco è permanentemente sotto il controllo dei concittadini, poiché vive fianco a fianco con loro. Come esce di casa c’è sempre qualcuno che gli può contestare ciò che ha fatto o piuttosto non ha fatto.

Il partito degli astensionisti è contro la politica in generale? Non credo. È contro la democrazia parlamentare? Forse. Sicuramente è contro una democrazia trasformatasi da decenni in partitocrazia, cioè in strapotere del tutto illegittimo di queste lobby di cui la nostra Costituzione si occupa in un solo articolo, il 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) e che invece ha finito per occupare abusivamente gli altri 138, infiltrandosi nel Csm, nella Magistratura ordinaria, nella burocrazia, nelle Forze Armate, nell’industria pubblica e anche privata, negli enti di Stato e di parastato (la Rai-tv è solo l’esempio più noto e clamoroso), nei giornali, negli enti culturali, nei teatri, nei conservatori, nelle mostre, nelle banche, nelle grandi compagnie di assicurazione, nelle università, giù giù fino ai vigili urbani e agli spazzini.

Questa avversione nei confronti dei partiti è confermata anche da chi in questa tornata a votare ci è andato turandosi montanellianamente il naso. Tutti i partiti, dal Pd alla Lega ai Cinque Stelle a Forza Italia, hanno perso, solo il partito di Giorgia Meloni ha guadagnato in consensi. Prendiamo la Toscana: il Pd ha perso 12 punti, è stato salvato dalle cosiddette liste civiche cioè da cittadini che al Pd non credono più affatto, ma non si sentivano di consegnare quella regione e forse il Paese a Matteo Salvini. Non è stato quindi un voto a favore, ma un voto contro.

Mai come in questa occasione si è potuto osservare come la democrazia partitocratica sia fatta di accordi e accordicchi in funzione del proprio potere personale o di lobby senza alcuno sguardo all’interesse nazionale. L’esecutivo Conte, che ha governato bene, si è salvato perché i partiti si sono paralizzati a vicenda. Poi ci sono naturalmente le eccezioni, il governatore del Veneto Zaia è stato riconfermato perché evidentemente ha governato bene soprattutto durante l’emergenza Covid e quello della Liguria Toti per lo stesso motivo e anche perché, coadiuvato dal sindaco di Genova Marco Bucci, ha affrontato con efficacia le conseguenze del crollo del ponte Morandi che noi “stranieri” abbiamo sempre chiamato il “ponte sul Polcevera” e i genovesi “ponte Saragat” perché fu inaugurato dall’allora presidente della Repubblica e che ora si chiamerà ponte San Giorgio. E questo apre uno spiraglio di speranza per il nostro futuro che però dipende molto, almeno nell’immediato, da come verranno utilizzati i 209 miliardi che l’Europa, l’inutile Europa secondo i cretini “sovranisti”, ci ha generosamente concesso: se cioè finiranno nelle fauci dei soliti noti che le hanno già aperte o verranno distribuiti con intelligenza e soprattutto equità sociale.

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Ce la pagherete. - Marco Travaglio

 












Non capire come voterà il Paese è umano. Ma non capire come ha votato il Paese è diabolico. Eppure ci riescono in tanti. Lasciamo perdere gli opinionisti, che capiscono benissimo ma devono scrivere l’opposto per contratto. Ma i politici sul voto degli elettori dovrebbero costruire il loro futuro. Cos’hanno detto gli elettori? Intanto che i parlamentari sono troppi, in perfetta quanto rara sintonia col Parlamento che aveva approvato – pur obtorto collo, su pressione e per paura dei 5Stelle – quella riforma col 98%. Quindi, se quella riforma era populista, ha stravinto il populismo e tutte le analisi sulla fine o sul calo del populismo sono baggianate. Ora, che chi puntava al No finga di non accorgersene, passi. Ma che non se ne accorga chi puntava al Sì è deprimente. Per questo l’uscita di Di Battista che frigna per “la più grande sconfitta M5S di sempre”, è suicida sia nei tempi sia nei contenuti. Nei tempi, perché il referendum è stato una delle più grandi vittorie M5S di sempre e andava festeggiato almeno per un paio di giorni, anziché fare gné gné a Di Maio e agli altri che, diversamente da Dibba, si sono spesi nella campagna del Sì. Nei contenuti, perché le Regionali i 5Stelle le perdono sempre, da quando sono nati, anche quando vincevano le Politiche nel 2013 e le stravincevano nel ’18 e intanto venivano battuti in Sicilia e Lazio.

Le Regionali, per quanto appaia bizzarro, decidono chi governa le singole Regioni, così come le Comunali i Comuni. Gli elettori votano per i candidati presidenti o sindaci, non per il governo o per i segretari di partito. E sommare i voti di lista nelle Regioni e nei Comuni per stabilire chi ha vinto su scala nazionale è come sommare i fichi e le patate. Si può al massimo stabilire chi ha perso, in base alle dichiarazioni della vigilia. Se Salvini puntava al 7-0, è ovvio che ha perso: è finita 3-4. Se l’altro Matteo mirava a far vincere Giani e far perdere Emiliano e Sansa, è ovvio che ha perso: Giani ha vinto per 8 punti e Iv ha preso il 4,5; Emiliano ha vinto nonostante Iv e Sansa avrebbe perso anche con Iv. Di vincitori nazionali c’è solo la Meloni, che ha strappato le Marche con un fedelissimo e ha aumentato i voti dappertutto. Tutti gli altri hanno perso voti. Anche Zingaretti: ha salvato Toscana, Puglia e segreteria, ma oltre alle Marche ha perso terreno in Liguria, Toscana e Veneto. I veri vincitori sono i cosiddetti “governatori”, trainati dall’effetto Covid e dal populismo trasformista da “cacicchi” che ne fa delle star locali, non nazionali e sganciate dai partiti: Zaia, Toti (anche per il dopo-Morandi), De Luca, Emiliano. Successi personali più che partitici. De Luca aveva 5 liste dei più vari colori.

Emiliano addirittura 15, dall’estrema sinistra alla destra. Zaia la sua, che ha svuotato la Lega. In più, quasi dappertutto, è scattato il soccorso grillino per tre fattori: la fiducia in chi ha gestito la pandemia; il voto utile, disgiunto o diretto, al male minore; la corsa sul carro del vincitore. Come si fa a non capire che gli stessi elettori, in un’elezione nazionale col proporzionale, avrebbero votato in modo totalmente diverso dalle Regionali col maggioritario a turno secco e dalle Comunali col doppio turno? Chi fa un altro mestiere non deve studiare le leggi elettorali, ma per chi fa politica è proprio il minimo. Col proporzionale (Politiche), ciascuno va per conto suo e le alleanze si fanno dopo le elezioni. Col maggioritario a doppio turno (Comuni), si corre da soli e le alleanze si fanno tra il primo e il secondo turno (e, se non i partiti, le fanno gli elettori). Col maggioritario a turno secco (Regionali), le alleanze si fanno prima del voto (e, se non i partiti, le fanno gli elettori delle forze sfavorite scegliendo il meno distante dei due favoriti).
Perciò Emiliano e De Luca hanno avuto molti voti grillini, ma anche forzisti e leghisti: tutta gente che alle Politiche tornerà all’ovile. Come i grillini che han votato Giani. E i veneti della lista Zaia, alle Politiche, voteranno quasi tutti Lega. Ecco perché la vittoria dei presidenti Pd non è di Zingaretti, se non per averlo aiutato a sventare la manovra dei poteri forti per rimpiazzarlo con Bonaccini, rovesciare Conte, scaricare il M5S e tentare l’ennesimo inciucio con quel che resta di FI e pezzi di Lega. Emiliano e Giani l’hanno capito: Zinga&C. pare di no. Infatti, consigliati da Repubblica e dai “padri nobili” che non ne azzeccano una, avanzano pretese bizzarre o ideologiche: il Mes (di cui non si parla da nessuna parte in Europa, neppure più a Cipro), lo Ius Soli (non proprio in cima ai pensieri degli italiani, e nemmeno degli stranieri) e i decreti Sicurezza (dove basta qualche ritocco sulla linea Mattarella, senza tanti strepiti). Del resto, se anche il Pd avesse vinto, gli elettori l’avrebbero premiato per il governo giallorosa che, anziché perdersi in quelle fumisterie, s’è occupato di cose più urgenti e vitali: Covid, tre manovre da 100 miliardi, bonus ai più deboli, Recovery Fund. E ora, si spera, una legge elettorale senza più liste bloccate, su cui il Fatto lancia oggi una petizione di costituzionalisti del Sì e del No da firmare sul sito. Qualcuno ha detto che il nostro appello a “turarsi il naso”, in Puglia e Toscana, è servito come quello di Montanelli nel 1976: ne siamo felici. Ma quella volta, subito dopo il voto, il grande Indro inviò un telegramma alla Dc che cantava vittoria: “Vi abbiamo votato, ma ce la pagherete”

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mercoledì 23 settembre 2020

Rosicate, gente, rosicate. - Marco Travaglio










          Finora non ci avevano capito niente. Ma ora, compulsati i dati elettorali, i professionisti della politica e dell’informazione han capito tutto. E l’hanno presa bene.

Italia Morta. “Il dato di Italia Viva è straordinario: Iv c’è ed è ancora più attraente nel Paese e in Parlamento”. Lo dice l’ex Innominabile, ora Invotabile, dall’alto del trionfale 4,5% scarso nella sua Toscana (inutile perché Giani ha vinto di 8 punti, però “siamo stati determinanti non numericamente, ma politicamente per l’enorme mobilitazione”: quella contro se stesso), del prorompente 3,75 della Boschi a Laterina, del sontuoso 1,6 di Scalfarotto in Puglia (lì si univano alle esequie Calenda e Bonino per far perdere meglio Emiliano, che infatti ha vinto), del 2,4 in Liguria e dello 0,6% in Veneto (settimo posto su nove, dietro la lista No Vax). Non male per quello che doveva “svuotare il Pd come Macron coi socialisti francesi”. Nel 2016 aveva promesso di lasciare la politica dopo il referendum, ma non aveva precisato quale: era questo.

Brindisi a Sambuca. Maurizio Sambuca Molinari, direttore di Repubblica ma soprattutto ideologo e trascinatore del No, è tutto contento del 70% del Sì perché “cala il vento del populismo” e si “disegna un cambiamento di umore degli italiani nei confronti dei sovranisti e dei populisti”, nonché la disfatta di Lega e M5S. Strano: solo tre giorni fa Rep definiva il referendum “Un voto sui 5Stelle”: quindi il 70% è tutto loro? A noi però affascina vieppiù la questione del “populismo”, che è come l’Araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Al Sud vince Emiliano e stravince De Luca, molto più populisti dell’azzimato Di Maio: in che senso cala il vento? E il taglio dei parlamentari non era la quintessenza dell’“antipolitica populista”? Ora se ne dovrebbe dedurre che il 70% degl’italiani sono populisti, dunque il vento cresce. Però molti grillini con una mano (quella populista) han votato Sì e con l’altra (quella antipopulista) han votato Emiliano e Giani contro i populisti. E lo stesso han fatto la gran parte dei pidini. Quindi milioni di italiani sono contemporaneamente populisti e antipopulisti. È il famoso elettore disgiunto.

Il trionfo del No. Stefano Folli e Sebastiano Messina regalano altre soddisfazioni. Folli si consola: “Il plebiscito sognato da Di Maio non c’è stato” perché, pensate: “Cosa sarebbe successo se alcuni partiti storici, invece di affidarsi a un Sì opportunistico, avessero fatto campagna per il No? Si può immaginare che l’esito sarebbe stato diverso”. Se poi il 70% degli italiani, anziché votare Sì, avesse votato No, si può immaginare senza tema di smentita che il No avrebbe vinto col 100%.

E pazienza, è andata così. Anche Messina è tutto giulivo perché “non è il trionfo cantato da Di Maio” , anzi il 70 a 30 è un tripudio del No. Segue un acuto parallelo coi Sì negli altri referendum: purtroppo cita quelli abrogativi, mentre questo era costituzionale, il quarto dopo il Titolo V del 2001 (35% di votanti, Sì al 64%), la Devolution del 2006 (52% di votanti, Sì al 38%) e il ddl Renzi-Boschi del 2016 (65% di votanti, Sì al 40%). Dunque il taglio dei parlamentari (54% di votanti, Sì al 70%) è la riforma costituzionale più votata della storia repubblicana. Cioè il trionfo cantato da Di Maio. A proposito: neanche Zaia, col suo misero 77%, ha avuto un plebiscito: ben il 23 dei veneti gli han votato contro.

Voce del verbo violare. Anche Luciano Violante, alfiere del No, è tutto giulivo perché col Sì “ha prevalso un argomento serio e democratico, la necessità di fare altre riforme”. Ed è “merito della campagna del No”. Lui, potendo scegliere, partirebbe da un “nuovo bicameralismo”, molto simile a quello renziano bocciato dal 60% degl’italiani, quindi i sinceri democratici devono riprovarci: gli elettori vanno puniti.

I poveri, pussa via. “Nelle periferie il taglio del numero dei parlamentari diventa un mezzo plebiscito, nel sofisticato e colto (e ricco) centro storico non passa”. L’illuminata analisi la si deve al Corriere della Sera: i poveri delle periferie sono burini e ignoranti, mentre i ricchi sono colti e sofisticati. Ecco: il 70% del Sì vale meno: diciamo il 35. Ergo ha quasi perso.

I tre Feltri. Vittorio, su Libero, chiede a Mattarella di “sciogliere le Camere, non più costituzionali”: hic! Stefano, sul Domani, titola su “Il declino dei populisti. Vincono il referendum ma perdono il Paese”: vedi Sambuca. Mattia, sull’Huffington Post, vede uno straripante “popolo del No che nessuno sa rappresentare” (a parte tutti i giornali, tranne uno). E ricorda Woody Allen in Provaci ancora, Sam, che rincasa tutto pesto da una rissa e racconta: “Ho dato una lezione a dei tipi che davano noia a Julie: a uno ho dato una botta col mento sul pugno, a quell’altro una nasata sul ginocchio”.

Di Battutista. Dibba comincia a capire e critica la linea 5Stelle di correre da soli. Peccato che fosse la sua. Si sarà accorto che le alleanze servono (vedi le Comunali, molto meglio delle Regionali) e comunque, se non le fanno i vertici, le fanno gli elettori contro i vertici. Avvertire Laricchia, Lezzi&C.

Le Sordine. Più comico dell’Invotabile c’è solo Mattia Santori. Sorvola sulla tranvata referendaria e dice che il Pd ha vinto grazie a lui: “Il Pd festeggia le vittorie in Toscana e Puglia, ma lo spumante nei calici viene dalla cantina delle Sardine”. Le sardine in carpione.

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domenica 20 settembre 2020

Laricchia&Laricchio - Marco Travaglio

 













Alessandro Di Battista che non fa un solo comizio per il Sì al referendum, ma arringa la folla pentastellata di Bari contro il mio consiglio agli elettori 5Stelle toscani e pugliesi di “turarsi il naso e votare disgiunto” mette tristezza. E ricorda il compagno Antonio: il comunista di Avanzi interpretato da Antonello Fassari che nel 1993 si risvegliava dopo vent’anni di coma e non ritrovava più nulla del suo piccolo mondo antico, tranne i Pooh. Con eleganza pari all’acume politico, Di Battista paragona il turarsi il naso, cioè scegliere il candidato meno lontano per scongiurare la vittoria del peggiore, a “un cesso pubblico”. E, con sicumera pari alla disinformazione, attribuisce il voto disgiunto alla “vecchia Democrazia cristiana”, che mai neppure lo nominò in 50 anni di vita perché nel sistema proporzionale non c’era niente da disgiungere. Poi scomunica le alleanze che “distruggono i progetti”, dimenticando che tutti i risultati ottenuti dal M5S nell’ultimo biennio con i governi Conte sono dovuti alle alleanze (potrebbe spiegarglielo Barbara Lezzi, che si spellava le mani alle sue spalle: al ministero del Sud chi ce l’ha portata? L’alleanza con la Lega o la cicogna?). Poi elogia Conte (troppo popolare per non prendere fischi attaccandolo), ma anche la candidata presidente Antonella Laricchia, che proprio all’invito di Conte a sedersi al tavolo con Emiliano rispose picche e ora non ha alcuna possibilità di vincere, ma ne ha parecchie di far vincere il peggiore di tutti: Fitto. Ma, per Di Battista, Emiliano e Fitto pari sono. Anche se uno faceva il magistrato e l’altro l’imputato. Anche se uno vuole decarbonizzare l’Ilva, come pure il governo Conte, coi soldi del Recovery Fund e l’altro nel suo programma l’Ilva non la cita neppure per sbaglio. Anche se uno, con tutti i suoi difetti, predica da sempre l’alleanza con i 5Stelle e l’altro li ha sempre schifati. Lo stesso vale per Giani e Ceccardi in Toscana, come ben sa chiunque abbia visto curricula, programmi e discorsi. Non vale invece per la Campania, dove De Luca è pure peggio di Caldoro e benissimo fa il M5S a correre da solo con l’ottima Valeria Ciarambino.

Qualcuno dovrebbe spiegare al compagno Antonio, alias Dibba, che siamo nel 2020, non nel 2009 quando i 5Stelle nacquero in piazza contro tutto e contro tutti. La politica è cambiata, in Italia e in Europa, anche grazie a loro (senza i loro voti, col cavolo che sarebbe stata eletta la Von der Leyen, avremmo avuto gli Eurobond e i 209 miliardi di Recovery Fund e che ora si parlerebbe di abolire i regolamenti di Dublino sui migranti). Il Pd non è più quello di Napolitano e Renzi, equivalente al centrodestra, con cui infatti governava giulivo.

E i 5Stelle non sono più all’opposizione, ma al governo. Perché han saputo turarsi il naso, non per finire nei cessi pubblici, ma per fare alleanze e compromessi, così come i loro alleati: prima la Lega, che li ha traditi, ora il centrosinistra, che li rispetta. Altrimenti sarebbero ancora lì in piazza a strillare senza portare a casa nulla. Ma soprattutto bisognerebbe spiegare a Di Battista cos’è il voto disgiunto (o panachage), previsto in molti Paesi Ue: non un vile e sotterfugio vetero-partitocratico, ma un potere in più che la legge dà agli elettori per differenziare, se vogliono, la scelta sul presidente della Regione da quella sulla lista dei consiglieri. Una specie di doppio turno a turno unico. Se anche nelle Regioni, come nei Comuni, fosse previsto il ballottaggio, oggi i grillini voterebbero M5S e Laricchia; poi, al secondo turno, nello scontato derby Emiliano-Fitto, molti sceglierebbero il meno lontano Emiliano. Ma in Puglia si vota a turno unico, dunque il voto disgiunto consente di concentrare in una sola tornata la scelta che nel ballottaggio si fa due settimane dopo: voto di lista ai 5Stelle e possibilità di scegliere fra i due presidenti possibili. Fra i quali Laricchia, come sanno benissimo anche lei e Dibba, non c’è. Lo stesso vale per la Toscana (che va al ballottaggio solo se nessuno supera il 40%): anche lì la brava candidata Irene Galletti è a distanza siderale da Giani e Ceccardi.
Ora spetta agli elettori M5S decidere, calcolando il danno che le vittorie di Fitto e Ceccardi farebbero alla Puglia, alla Toscana e, vista l’assurda politicizzazione delle Regionali, al governo Conte e all’Italia intera. Così come fecero a gennaio in Emilia-Romagna, quando un terzo di loro votò disgiunto 5Stelle/Bonaccini, scongiurando la vittoria della Borgonzoni in Salvini. L’anno prossimo, se Raggi e Appendino andranno al ballottaggio a Roma e Torino contro i candidati di destra, toccherà agli elettori del centrosinistra turarsi il naso e votare disgiunto: non perché Raggi e Appendino puzzino, anzi sono donne perbene, ma perché non sono amatissime da Pd&C. Il voto disgiunto, fra l’altro, non solo non danneggia i 5Stelle, ma ne aumenta addirittura i voti: i loro simpatizzanti tentati dal Pd per paura di favorire Salvini&C. o di indebolire il governo potranno scegliere serenamente la lista M5S e il presidente Pd. Laricchia e Galletti arriveranno comunque terze, ma il M5S avrà più consiglieri regionali per tener d’occhio e combattere Giani ed Emiliano ogni volta che lo meriteranno. Se invece chi arriva terzo si arrocca e impedisce ai suoi elettori di scegliere fra gli altri due, condanna i 5Stelle all’irrilevanza. E lavora per Salvini e/o per Draghi. Magari a sua insaputa, che è pure peggio.

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venerdì 18 settembre 2020

Turatevi il naso. - Marco Travaglio













                             Le Regionali di domenica e lunedì sono nelle mani dell’unico partito che non rischia di vincerle: i 5Stelle. Non parlo dei vertici, che han già fatto la loro non-scelta (stare col centrosinistra al governo e contro il centrosinistra nelle Regioni, Liguria a parte). Parlo degli elettori, che faranno la differenza in Toscana, Marche e Puglia. E dovranno essere più responsabili e lungimiranti dei leader. Così come gli iscritti, che un mese fa han votato Sì su Rousseau alle alleanze nei territori contro le aspettative di chi (Casaleggio in primis) non le vuole. Quel voto è arrivato alla vigilia della chiusura delle liste, troppo tardi per ribaltare una situazione già compromessa. Infatti Conte e Di Maio si sono appellati ai grillini di Marche e Puglia perché si sedessero al tavolo col Pd, offrendo alleanze in cambio di impegni programmatici. Invano. Quindi ciò che non han potuto o voluto fare i vertici nazionali e locali dovrà farlo la parte più avveduta degli elettori: usare bene il voto disgiunto, almeno in Toscana e Puglia dov’è consentito. Cioè votare la lista del M5S, per dargli forza nei consigli regionali, e il candidato presidente del Pd: il toscano Giani,il pugliese Emiliano.

Di Giani sappiamo pochissimo: è uno storico e un politico di lungo corso, nato nel Psi ma rimasto incensurato e financo intonso da scandali, caso clamoroso in quell’ambientino. La sua voce non l’ha mai sentita nessuno, e non è un difetto nella banda di urlatori e vaiasse che infesta la politica. Il suo difetto è di piacere all’Innominabile, che però ormai è un pelo superfluo della politica. Certamente non è un uomo di rottura: un semolino sanza infamia e sanza lode che nessuno potrebbe mai appassionarsi a votare se non avesse come alternativa Susanna Ceccardi. Nessuno può dire che Giani e Ceccardi pari siano. E, siccome se perde Giani vince la Ceccardi, chi non vuole consegnarle la Toscana deve pensarci bene prima di votare Irene Galletti, candidata presidente M5S che ha zero possibilità di vincere, ma ottime possibilità di far perdere Giani. Il voto disgiunto consente agli elettori dei 5Stelle di sventare l’avvento della peggior destra e di votare per i propri consiglieri regionali, così da averne un buon numero per fare opposizione a Giani e tenerlo d’occhio.

Di Emiliano invece sappiamo ben di più: ex pm antimafia e antitangenti, buon sindaco di Bari, molto contestato nel primo mandato di presidente, personalmente onesto ma disinvolto nelle alleanze (ha messo insieme un po’ di tutto nelle sue ben 15 liste e ora deve costringere a ritirarsi due impresentabili), molto vicino ai 5Stelle sulle questioni ambientali Ilva, Xylella e Tap fino a guadagnarsi la fama di “protogrillino” e quinta colonna M5S nel Pd.

Dunque odiato dall’Innominabile e da Calenda, che gli hanno scatenato contro nientemeno che Scalfarotto. Nessuno può affermare che Emiliano e Fitto pari siano. Malgrado abbia 10 anni in meno di Emiliano, Fitto è infinitamente più vecchio, avendo sgovernato la Puglia 20 anni or sono, prima di Vendola, cioè nella preistoria, fra scandali e scelte scellerate. Basti pensare che nella sua lista “La Puglia prima di tutto”, alle Comunali 2009, spiccavano le candidate Patrizia D’Addario e Barbara Montereale: due delle escort della scuderia Tarantini più amate da B. Poi naturalmente, appena B. declinò, don Raffaele lo tradì per vagolare fra centri e centrini finché fu raccattato dalla Meloni. Certo, obietterà un 5Stelle, c’è Antonella Laricchia, consigliera regionale giovane, capace e pugnace, anche se lievemente intollerante alle critiche: è brava, è onesta e senza di lei molti pugliesi schifati da Fitto e delusi da Emiliano non andrebbero alle urne. Tutto vero. Ma, per quanti voti prenda (pare tanti), Laricchia è a distanze siderali sia da Fitto sia da Emiliano (contro cui già perse nel 2015). Cioè dagli unici vincitori possibili.
Anche in Puglia, non essendo venute meno le ragioni per contrastare molte politiche di Emiliano, i 5Stelle potranno seguitare a fargli opposizione, pur se convergeranno su qualche punto. E la forza della Laricchia aumenterà i loro consiglieri. Ma assistere impassibili, anzi ignavi allo scontro fra Emiliano e Fitto come se l’esito non riguardasse tutti i pugliesi sarebbe da irresponsabili. Molti lo sanno, come lo sapevano i molti grillini dell’Emilia-Romagna che alla fine optarono per il voto disgiunto contro la Borgonzoni (cioè Salvini): lista 5Stelle, presidente Bonaccini (molto più indigesto di Emiliano). Anche allora, come ora in Puglia e Toscana, pesò il fattore nazionale: cioè quel malcostume tutto italiano che legge nelle elezioni regionali, comunali e financo nei referendum un giudizio di Dio pro o contro il governo. Non ci sono solo Salvini, la Meloni e il redivivo B. che attendono lunedì sera con la bava alla bocca per dare il benservito a Conte, cioè al primo e forse ultimo premier scelto dai 5Stelle: ci sono pure l’Innominabile e le sue quinte colonne rimaste nel Pd e tutti i poteri economico-finanziari con i loro giornaloni, che non vedono l’ora di cacciare i 5Stelle dal governo e spodestare Zingaretti che difende l’alleanza con loro, per mettere le zampe sui miliardi del Recovery Fund e del Mes e tornare agli inciuci e alle razzie del passato. Pronti addirittura a voltare gabbana dal Sì al No sul taglio dei parlamentari pur di abbattere Conte. Quindi, per farla breve e parafrasare Montanelli: turatevi il naso e votate disgiunto.

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venerdì 4 settembre 2020

I tre candidati presidenti Pd agli elettori 5S: “Votiamo Sì”. - Giacomo Salvini

I tre candidati presidenti Pd agli elettori 5S: “Votiamo Sì”

In bilico Toscana, Marche e Puglia.
Tutti per il Sì al taglio dei parlamentari. Convintamente. Con i sondaggi che li danno in difficoltà sui concorrenti del centrodestra, i tre candidati Pd di Marche, Puglia e Toscana provano a rivolgersi direttamente a quegli elettori del M5S in grado di essere decisivi nella contesa elettorale del 20-21 settembre. E lo fanno partendo da una battaglia storica e identitaria del M5S: la riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Tutti e tre i candidati dem voteranno Sì, nonostante nel loro partito ci sia più di un dissidente e la linea sarà decisa nella direzione nazionale di lunedì prossimo. Inizia Eugenio Giani, candidato renziano in Toscana che negli ultimi due mesi ha subito la rimonta della leghista Susanna Ceccardi (oggi tra i due c’è un distacco di punto percentuale, mentre a inizio giugno erano 10): “Voterò Sì al referendum sul taglio dei parlamentari – spiega deciso al Fatto Quotidiano – ­e lo dico sulla base della mia esperienza di presidente del consiglio regionale, organo che ha potestà legislativa: la mia regione ha 41 consiglieri, un numero eccessivo in grado di rallentare i lavori di commissione e aula. Per questo, a livello più grande, penso che la riduzione di parlamentari possa aumentarne la qualità”. Discorso simile di Michele Emiliano, governatore uscente della Puglia che negli ultimi mesi le ha provate tutte per inglobare il M5S prima in maggioranza e poi nella coalizione in vista delle elezioni regionali (ma la candidata grillina Antonella Laricchia si è sempre rifiutata). L’ultimo appello è arrivato lunedì in un’intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno in cui Emiliano ha chiesto agli elettori di usare il voto disgiunto (“Gli elettori M5S potranno votare me come presidente e il M5S come partito”) in base a valori comuni come l’ambientalismo: “Mi sono battuto fin dall’inizio per la decarbonizzazione dell’ex Ilva – ha detto Emiliano – poi è arrivata l’adesione del Pd, del governo e del M5S. Questo significa che andiamo nella stessa direzione”. Sul taglio dei parlamentari, Emiliano ci tiene a restare coerente con i patti della coalizione giallorosa: “Voterò Sì come da indicazione dei miei partiti di riferimento, Pd e M5S” fa sapere il governatore pugliese che, secondo i sondaggi, è indietro di qualche punto sul meloniano Raffaele Fitto.
Poi c’è Maurizio Mangialardi, sindaco di Senigallia e candidato dem nelle Marche che fino a oggi non si era ancora espresso sul taglio dei parlamentari: “Voterò Sì per allineare i numeri del nostro Parlamento a quelli della maggioranza delle assemblee legislative europee – dice al Fatto tra un incontro e l’altro con i sindacati –. Ma, essendo un difensore della democrazia rappresentantiva, auspico che venga approvata al più presto una legge elettorale proporzionale”. Da mesi Mangialardi ha provato a tessere un dialogo con il M5S, inglobando nella sua coalizione due consiglieri regionali fuoriusciti tra cui l’ex candidato governatore Gianni Maggi che nel 2015 arrivò al 22% e oggi si candida con la lista “Marche Coraggiose”. Oltre ad appellarsi al “voto utile” (qui non è possibile il voto disgiunto) il presidente Anci delle Marche cerca di convincere gli elettori grillini a partire dai temi ambientali: “Proponiamo la costruzione nei primi cento giorni di un nuovo Patto per il lavoro e per il clima che si basi sul consumo zero di nuovo territorio e la rigenerazione delle Marche: l’obiettivo l’azzeramento delle emissioni entro il 2050 e il passaggio al 100% di energie rinnovabili entro il 2035”.
Anche Giani prova a incalzare gli elettori 5S sull’ambiente: “Nel mio programma ci sono molti temi cari al M5S – continua –­per esempio sull’ambiente vogliamo diventare, entro il 2030, la prima regione d’Italia a rispettare gli accordi di Parigi sulle emissioni, implementare l’economia circolare senza nuovi inceneritori e la mobilità su ferro per collegare meglio i capoluoghi di provincia toscani e potenziare le tramvie a Firenze”. Ma il candidato dem si sofferma anche su altri due argomenti che potrebbero fare breccia nell’elettorato grillino: “Io voglio che la gestione dell’acqua torni nelle mani pubbliche come previsto dal referendum del 2011 e poi, in caso di vittoria, saremo molto attenti al tema dei costi della politica: ridurremo il costo del consiglio regionale e io voterò convintamente a favore del taglio dei parlamentari”.
Alleanze ad intermittenza... e a seconda della convenienza; a volte si, a volte no... E pensare che avevano votato per il taglio in Parlamento, poi ci avevano ripensato, ora gli conviene ri-ripensarci... by c.