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venerdì 6 novembre 2020

Le capriole di Fontana e degli altri governatori su zone rosse e criteri: prima era “competenza del governo”, ora è “inaccettabile”. - Daniele Fiori

 

Il presidente della Lombardia, fin dal caso di Alzano e Nembro, ha sempre sostenuto che la scelta sulle zone rosse spetti a Roma. Ora che Palazzo Chigi ha provveduto, la decisione è diventata "inaccettabile". Anche Spirlì in Calabria e Cirio in Piemonte contestano i parametri adottati: eppure sono stati decisi e condivisi insieme alle stesse Regioni, che sono rappresentate anche nella cabina di regia che effettua il monitoraggio. Finché servivano per allentare la stretta, nessuno li aveva criticati. Anzi in quel caso i presidenti di regione chiedevano "autonomia" nelle scelte. Quando invece i numeri sono tornati a salire, è partito il "gioco del cerino".

Una settimana fa il governatore Attilio Fontana ribadiva che “un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo“. Ora Palazzo Chigi ha deciso: la Lombardia è zona rossa. Ma Fontana continua a protestare: parla di decisione “inaccettabile“, contesta i dati “non aggiornati”. Cinque giorni fa il presidente facente funzioni della Calabria, Nino Spirlì, parlava di “necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. Adesso anche per lui la decisione del governo di inserire la sua Regione nella fascia a più alto rischio “è ingiustificabile” e anzi il sistema sanitario calabrese non starebbe riscontrando difficoltà, ma ieri ha modificato – abbassandoli – i dati sulle terapie intensive.

Il “gioco del cerino” – Sono solo due esempi di come alcune Regioni abbiano tenuto un atteggiamento tutt’altro che netto nella lotta alla pandemia. A cominciare dai famosi dati: le giunte regionali sanno quali sono i numeri sul coronavirus, li hanno sempre conosciuti. Molti dei governatori E le Regioni sanno anche quali sono i parametri con cui sono state decise le misure restrittive e ora la suddivisione del Paese in zone rosse, arancioni e gialle. Hanno rivendicato autonomia quando era il momento di allentare la stretta, ma non vogliono assumersi la responsabilità quando arriva – sempre secondo i dati – il momento di chiudere, di tornare in lockdown. Negli ambienti politici viene definito come il “gioco del cerino”, un meccanismo che prescinde dal colore politico. Non lo ha fatto in Campania il dem Vincenzo De Luca, annunciando il lockdown, prima di fare marcia indietro quando i napoletani sono scesi in strada a protestare. Non ha voluto farlo nemmeno Fontana in Lombardia. Evitò di chiudere Alzano e Nembro la scorsa primavera, sostenendo che era il governo a dover intervenire, nonostante la legge 833 del 1978 attribuisca ai governatori la facoltà di emettere “ordinanze di carattere contingibile ed urgente” in materia di sanità pubblica, purché limitate “alla regione o a parte del suo territorio”. Anche adesso ha aspettato che a decidere fosse Roma. Non ancora soddisfatto ha poi ha criticato la decisione del governo centrale.

I dati del governo? Sono le Regioni a inviarli a Roma – “È surreale”, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, “che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati”. I dati che hanno spinto l’esecutivo a determinare le fasce gialle, arancioni e rosse, infatti, sono le stesse regioni a comunicarle alla cabina di regia: su questa base da maggio viene effettuato il monitoraggio. Nella cabina di regia, inoltre, ci sono tre rappresentanti indicati dai governatori. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro: “All’interno della cabina di regia ci sono – ha sottolineato – tre colleghi che rappresentano le Regioni del nord, centro e sud“. E non solo, ha aggiunto Brusaferro: “Settimanalmente i dati vengono analizzati, condivisi e validati, con un processo molto preciso, tra Regioni, Iss e ministero e vengono poi assemblati, attraverso 21 indicatori, su cui si esprime un giudizio di pericolosità basso, medio, moderato o alto”. Questi 21 parametri le Regioni li conoscono dalla scorsa primavera. Così come, il 12 ottobre scorso gli assessori regionali alla Sanità hanno ricevuto il dossier che prevede i diversi scenari di rischio in relazione all’andamento della curva epidemica e che prescrive l’adozione di misure via via sempre più stringenti. Esattamente la base su cui si è stabilita la divisione oggettiva dell’Italia nelle varie zone. Forse gli assessori non lo hanno condiviso con i rispettivi governatori, a giudicare dalla reazione delle Regioni quando il presidente del Consiglio si è presentato davanti a loro con in mano il Dpcm che prevedeva le nuove restrizioni.

Quando d’estate chiedevano autonomia – Finché invece si trattava di allentare le misure, i governatori apprezzavano le varie distinzioni regionali e anzi chiedevano a Roma maggiore autonomia. A fine aprile, mentre si avvicinava la cosiddetta Fase 2, quella post-lockdown, le tensioni tra Regioni e governo riguardavano proprio questo punto, con i presidenti che contestavano il calendario delle riaperture dettato dal premier Giuseppe Conte. Il motivo? Inaccettabile, a loro parere, che il governo dettasse regole valide per tutti i territori. Allora bisognava differenziare, insomma, garantire più poteri a Regioni e Comuni, fare aprire per primi quei territori col contagio più basso. Per tutta l’estate i governatori hanno emanato ordinanze autonome. Anche dopo il pasticcio della riapertura delle discoteche, il 22 agosto scorso al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini i presidenti Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna), Giovanni Toti (Liguria), Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Maurizio Fugatti (Trento) chiedevano sempre la stessa cosa: “Maggiore autonomia“.

Quando in autunno volevano che scegliesse il governo – Un mese più tardi, quando i dati dei contagi già cominciavano a salire, l’aspirazione dei governatori era avere i tifosi alle partite di calcioil 24 settembre la Conferenza delle Regioni diede il via libera all’apertura degli stadi a un numero di spettatori per una capienza massima del 25% del totale dei posti disponibili. L’iniziativa fu fermata dal Comitato tecnico scientifico, che scelse sulla base dei dati. Una decisione che si è rilevata lungimirante. I contagi infatti hanno cominciato a salire e sono tornate le ordinanze restrittive, così come i nuovi Dpcm. Fino a quando medici ed esperti hanno cominciato a premere per il ritorno alle zone rosse e ai lockdown mirati. A quel punto molti governatori hanno alzato le mani imboccando quella che è una vera e propria inversine a U: Autonomia sulle strette locali? Nossignore, tocca al governo. Palazzo Chigi ha agito, sulla base dei 21 parametri e dei 4 scenari decisi e condivisi con le stesse Regioni. E calcolati tramite i loro dati. Questo, però, non ha evitato l’ennesima giravolta, con polemiche annesse.

LOMBARDIA – Un rimpallo di responsabilità che in Lombardia era cominciato addirittura in primavera, dopo la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca, ad Alzano e Nembro. “Abbiamo chiesto invano al governo l’istituzione di nuove zone rosse comprendenti quei Comuni“, diceva il 2 aprile Fontana, sostenendo che il Pirellone non potesse agire. Cinque giorni dopo l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera disse che “la legge permetteva alla Regione di istituire la zona rossa”, ma il governatore lo ha sempre smentito, parlando di “un potere che deve essere riservato esclusivamente al governo centrale”. Una posizione che Fontana ha ribadito lo scorso 28 ottobre, parlando a RaiNews: “Un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo e quindi io potrei magari sollecitarla, ma io non posso autonomamente assumerla”. Quattro giorni dopo è cominciata la virata: “Una serie di interventi territorio per territorio, polverizzati e non omogenei, sarebbero probabilmente inefficaci“, ha iniziato a sostenere il leghista. Che però diceva: “Il lockdown è l’unica misura che si è dimostrata efficace“. Passano altri tre giorni e la giravolta è completa: l’istituzione della zona rossa diventa “uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi”. È la sera del 4 novembre quando Fontana parla: dal 28 ottbre è passata meno di una settimana.

CALABRIA – Un’altra regione in zona rossa è la Calabria e il presidente facente funzioni, il leghista Spirlì, si dice a sua volta incredulo. Era lui stesso, il 23 ottobre scorso, a parlare già di un “momento critico” per la Regione, mentre presentava la nuova ordinanza restrittiva. Lo stesso giorno, in merito all’ipotesi di un lockdown, spiegava anche che “a valutare cosa è necessario fare devono essere i singoli territori“. Una settimana dopo, sempre ad ascoltare le parole di Spirlì, la situazione in Calabria non era migliorata: “Ci auguriamo che, grazie alla nuova ordinanza, nelle prossime due settimane la curva dei contagi possa scendere. Abbiamo la necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. E nel presentare il suo provvedimento spiegava anche quale fosse il criterio da lui scelto: “Esistono zone fortemente colpite, le zone rosse, altre che sono altamente colpite, le zone arancione, e poi territori che sono tenuti sotto sorveglianza giorno dopo giorno”. Quando ad usare questo metodo è il governo, però, allora è una scelta “ingiustificabile“. Nel frattempo la Regione ha modificato il criterio per calcolare le terapie intensive, facendo calare il dato dei pazienti in rianimazione: non è bastato per evitare l’inserimento nella zona ad alto rischio.

PIEMONTE – “Se si dovranno fare lockdown dovranno essere per aree omogenee. E comunque lavoro e scuola devono essere salvaguardate fino alla fine”. Così parlava invece il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ai microfoni di Radio Capital il 15 ottobre scorso. Oggi quindi dovrebbe approvare le scelte del governo, invece lo accusa di avere usato “due pesi e due misure per Piemonte e Campania”. In questo caso però il governatore di Forza Italia aveva già chiarito la sua nuova posizione il 2 novembre scorso: “Le misure devono essere necessariamente nazionali, perché dalla Valle d’Aosta alla Calabria il virus c’è ovunque e sta crescendo ovunque”, diceva su Sky TG24, ignorando quindi parametri e scenari che il governo aveva già comunicato alle Regioni da tempo. Cirio poi aggiungeva: “Il Covid è un problema nazionale e servono misure nazionali”. La maggior parte dei suoi colleghi governatori di centrodestra, con Luca Zaia in testa, dicono di pensarla esattamente al contrario. Oltre a Zaia, ad esempio, c’è anche Giovanni Toti in Liguria: “Come presidente di Regione riterrei opportuno che il governo lasci alle Regioni la facoltà di emanare ordinanze proprie, sia migliorative sia restrittive, e non ponga limitazioni al potere delle Regioni”, diceva il 5 ottobre scorso.

CAMPANIA – Se nemmeno tra governatori dello stesso centrodestra c’è accordo su quale criterio debba essere utilizzato per decidere le restrizioni, il premio per la giravolta più rapida spetta a un governatore del centrosinistra: Vincenzo De Luca in Campania. Il 23 ottobre il presidente di Regione chiese al Governo un lockdown nazionale e specificò che in ogni caso “la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo“. La serrata sembrava imminente, già pronta a essere firmata il giorno successivo. Poi però ci fu la durissima protesta a Napoli, con gli esercenti in piazza e gli scontri tra alcuni manifestanti e la polizia. Meno di 24 ore dopo De Luca ritirò tutto: “In assenza di una misura restrittiva generale non ha senso adottare norme che mettono in ginocchio intere categorie”, spiegò ufficialmente il governatore. Che poi, il 30 ottobre, è comunque tornato ad attaccare il governo, accusandolo di “fortissimi ritardi nelle decisioni”.

ALTO ADIGE – Chi ha a lungo snobbato il governo, per poi fare più volte retromarcia, è stata anche la Provincia di Bolzano a guida Svp. “Non servono”, disse il presidente Arno Kompatscher riferendosi alle misure decise da Roma il 14 ottobre scorso, salvo poi cambiare idea in pochi giorni e introdurre praticamente le stesse restrizioni con un proprio provvedimento. Poi l’Alto Adige decise di far da sé anche sulla chiusura dei locali, posticipandola alle 22. Il preludio a un’altra retromarcia decisa questa volta il 29 ottobre: “Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria“, aveva detto allora Kompatscher per giustificarsi. In due settimane un cambio di linea completo, fino all’ultima decisione di inizio novembre: un semi-lockdown per tutta la Provincia, con la chiusura di bar, ristoranti e pure negozi, oltre al coprifuoco dalle 20 alle 5. Kompatscher però ha almeno ammesso che esistono dei criteri oggettivi stabiliti dal governo: “Il provvedimento che abbiamo approvato – ha spiegato il 2 novembre – è in linea con il documento nazionale dell’8 ottobre che aveva previsto diversi scenari. Ci siamo orientati su questo documento”. Il presidente della Provincia, orgoglioso autonomista, ha ricordato anche un altro concetto: “Autonomia significa proprio questo, assumersi delle responsabilità“. Nel suo caso sia quando tentava di aprire tutto sia quando, al contrario, ha virato verso il lockdown.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/06/le-capriole-di-fontana-e-degli-altri-governatori-su-zone-rosse-e-criteri-prima-era-competenza-del-governo-ora-e-inaccettabile/5993211/

Pagliacciata sediziosa. - Marco Travaglio

 

Dopo le mosse eversive delle giunte di Lombardia, Piemonte e Calabria, aizzate dal mestatore Salvini, si spera che nessuno rompa mai più le palle con le prediche al governo sul dialogo con le opposizioni. Almeno finché le opposizioni non saranno qualcosa di diverso dal Cazzaro Sedizioso. Ormai anche il leghista più sfegatato dovrebbe aver capito che la salute e la vita sono cose troppo serie per affidarle a una banda di spostati che si fanno chiamare “governatori” e non riescono a governare neppure il ballatoio di casa loro. Hanno voglia Conte, Speranza, Brusaferro e gli altri con la testa sul collo a spiegare che la divisione dell’Italia in zone rosse, arancioni e gialle non è una pagella politica per punire le giunte di destra e premiare quelle di sinistra: è la presa d’atto di un contagio che, in certe aree, galoppa e minaccia gli ospedali più che in altre. Le gabbie numeriche per incasellare le Regioni sono state concordate fra governo, Iss, Cts e sgovernatori in lunghe e defatiganti riunioni. Quindi nessuno ha scavalcato nessuno. E gli squilibrati che contestano i dati come “vecchi”, “superati” o financo “truccati” fanno ridere per non piangere: perché sono i dati che forniscono loro.

Le colpe sono tante e di tanti, ma la pandemia è mondiale e colpisce anche i Paesi meglio governati e organizzati. Non è il momento di affrontarle: prima si limitano le occasioni di contagio e dunque gli ingressi negli ospedali, poi si fanno i conti. I dati dicono che i Dpcm del 13, 18 e 25 ottobre qualche risultato l’hanno già sortito, stabilizzando la crescita giornaliera della curva: non quella dei morti, sempre più spaventosa (quasi tutti anziani contagiati in famiglia da parenti asintomatici che tornano da scuola e dal lavoro), ma riferita a contagi di 15-20 giorni fa; bensì quella del rapporto positivi-tamponi e dei nuovi ricoveri. Quindi anche il Dpcm, il più severo, che parte oggi migliorerà verosimilmente le cose. E forse ci risparmierà il lockdown totale, ora meno duro di marzo anche nelle quattro Regioni “rosse”. Bisogna saperlo e farlo sapere, per dare una prospettiva ai cittadini incolpevoli chiamati a sacrificarsi al posto dei colpevoli: quei sacrifici servono e stanno già producendo risultati. L’importante è concentrarsi su ciò che è utile ed essenziale e lasciar abbaiare negazionisti, catastrofisti e perdigiorno del Mes, del rimpasto, delle larghe intese, del dialogo con opposizioni e Regioni. Chi sgoverna la Lombardia non sa neppure comprare i vaccini antinfluenzali (e, quando li trova, attiva un call center che manda dal dentista gli anziani che chiamano). E chi sgoverna la Calabria è riuscito in sei mesi ad aumentare i posti letto in rianimazione di 6 unità (sei!). Il minimo sindacale è negargli il diritto di parola.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/06/pagliacciata-sediziosa/5993746/

giovedì 29 ottobre 2020

Sala di attesa. - Marco Travaglio

 

Anche oggi tutti si concentreranno sul numero dei nuovi positivi di ieri: 25mila su 200mila tamponi, contro i 22mila su 174mila di martedì (i morti sono in lieve calo, ma si riferiscono a casi di due settimane fa). Pochi segnaleranno che, almeno per un giorno, il rapporto positivi-tamponi rimane stabile (12,5%: se sia un fatto statistico passeggero o il primo timido frutto delle nuove misure del 13 ottobre e della paura crescente, è presto per dirlo). E pochi noteranno che 200mila tamponi in un solo giorno sono una bella smentita al mantra “Da marzo non si è fatto nulla” (a marzo i tamponi erano 20mila al giorno: un decimo di oggi). Ma c’è un altro dato che disturba chi non parla mai dagli unici responsabili della (dis)organizzazione sanitaria: le Regioni. La seconda ondata, diversamente dalla prima, investe tutto il territorio nazionale. Ma corre a velocità molto diverse da zona a zona. Prendiamo gli ultimi tre giorni. In alcune Regioni i nuovi casi giornalieri sono simili o in calo: Emilia-Romagna 1146 lunedì, 1413 martedì, 1212 ieri; Toscana 2.171, 1823, 1708; Lazio 1698, 1993, 1963; Campania 1981, 2761, 2427. In altre aumentano fino a quasi raddoppiare, ma non in una settimana come avveniva finora, bensì in tre soli giorni: Veneto 1129, 1526, 2143; Piemonte 1625, 2458, 2827; Liguria 419, 1127, 926. Poi c’è la Lombardia, sempre più fuori concorso e controllo: 3570, 5035, 7558 (rapporto positivi-tamponi 18,2%). Cioè i casi lombardi di ieri sono più del doppio di lunedì e 2700 (un terzo) si registrano a Milano.

Ricordate le polemiche, gli scaricabarile, le indagini sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro? Ora i dati di Milano e mezza Lombardia (la meno toccata dalla prima ondata: Milanese, Brianza e Varesotto) sono infinitamente più gravi e allarmanti di quelli della Val Seriana a fine marzo per infetti, contatti non tracciati, morti, ospedali saturi. Che si aspetta a cinturare per qualche settimana questi territori e quelli di Napoli e di metà Campania e Piemonte, che da soli fanno 13mila contagi, cioè più della metà del totale nazionale? Mentre Fontana e De Luca dicono, disdicono e contraddicono, i sindaci Sala e De Magistris scrivono a Speranza per sapere se la proposta del suo consulente prof. Ricciardi su lockdown mirati sia a titolo personale o rifletta anche il suo pensiero. Ma il pensiero dei due sindaci, di grazia, qual è? Che aspettano a chiedere le zone rosse per difendere i propri concittadini e i propri ospedali dal Covid e il resto d’Italia da un lockdown generale? Sala se la prende comoda: “Abbiamo 10-15 giorni per decidere”. Chiederà di chiudere Milano quando sarà già chiusa tutta l’Italia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/29/sala-di-attesa/5983568/

venerdì 16 ottobre 2020

Governatori peggio del Covid. - Gaetano Pedullà













Mentre litigavamo in tv con quei mattacchioni della destre per cui le mascherine non servono a niente e Conte ci ha imposto una dittatura sanitaria, il virus ha fatto il suo corso e ora che siamo a quasi novemila contagi al giorno la situazione rischia di sfuggire di mano. I più irrequieti sono i governatori, che hanno un’occasione in più per appagare il loro protagonismo, decidendo ciascuno per conto proprio chi va a scuola e chi no (De Luca ha deciso lo stop da oggi in Campania), minacciando di chiudere bar e ristoranti prima di quanto previsto dall’ultimo Dpcm (se n’è discusso in Lombardia, ma Fontana ha poi smentito), oppure di chiuderli dopo (La Provincia di Bolzano si è rifiutata di recepire il decreto del Presidente del Consiglio).

Così si sta generando nuova confusione e un’ulteriore senso di smarrimento nei cittadini, malgrado sia evidente che il Covid non conoscendo confini nazionali a maggior ragione non può conoscere quelli regionali. Dunque a che serve avere regole diverse a distanza talvolta di pochissimi chilometri? Se le opposizioni hanno perso l’opportunità di fare squadra – almeno per una volta – con la maggioranza, dimostrando di mettere il bene del Paese al di sopra delle convenienze politiche di bottega, le autonomie locali stanno offrendo quindi uno spettacolo peggiore, mostrando plasticamente quanto siano pericolosi i loro poteri se usati tanto male come adesso.

D’altra parte, dai trasporti (leggi l’articolo) alla sanità il bilancio delle Regioni non è affatto brillante, e a parte le fughe in avanti, la cosa che sta riuscendo meglio ai presidenti è scaricare la responsabilità delle loro inefficienze sull’amministrazione centrale. Uno scaricabarile fin troppo facile a fronte dei miliardi di euro che ci costano i carrozzoni regionali, che al di là di tante buone intenzioni in realtà servono a garantire una giungla di burocrazia e di poltrone. Oltre a far giocare gli stessi presidenti con la pandemia, propinandoci le loro taumaturgiche ricette quotidiane.

https://www.lanotiziagiornale.it/editoriale/governatori-peggio-del-covid/

domenica 11 ottobre 2020

Voto di sbaglio. - Marco Travaglio

 

Nella classifica dei contagi primeggiano la solita Lombardia, ormai fuori concorso, e le Regioni che hanno appena plebiscitato i loro presidenti: Campania, Veneto e Liguria. I contagi, ovviamente, non sono colpa dei cosiddetti “governatori”: ma De Luca, Zaia e Toti hanno stravinto le regionali proprio perché visti come i salvatori delle rispettive regioni dal Covid. Zaia in un certo senso lo è stato, avendo avuto la fortuna e l’umiltà di affiancarsi Crisanti, con cui poi ha litigato (e da allora il Veneto se la passa maluccio). Toti invece ha mal gestito la prima ondata. Ma, siccome Lombardia e Piemonte han fatto peggio, è passato per uno bravo. E si è pure preso il merito del nuovo ponte, i cui fondi statali sono finiti non spesi o regalati a chi non ne aveva diritto con una distribuzione a dir poco clientelare. Poi, anche grazie alla scandalosa propaganda a suo favore del Giornalone Unico, è riuscito a nascondere la seconda ondata fino alle elezioni. La Campania è stata risparmiata dalla prima ondata per puro culo, non certo per merito di De Luca, il satrapo tutto chiacchiere e distintivo che non ha risolto nessuno degli annosi problemi della sanità campana, anzi li ha aggravati. Ma li ha mascherati dietro la solita raffica di comizietti e siparietti demagogici: molto più comodo evocare lanciafiamme o minacciare lockdown che creare posti letto o assumere medici e infermieri. Intanto un suo fedelissimo, il sindaco di Eboli Massimo Cariello, appena rieletto col record dei voti (80%), ha avuto il tempo di formare la giunta poi è finito in manette per corruzione e abuso: le intercettazioni lo immortalano mentre pilota due concorsi per far assumere una dozzina di amici. Il gip lo descrive come “completamente immerso in una logica privatistica di gestione del potere, tutta votata alla salvaguardia degli interessi propri o delle persone a lui vicine”. Infatti l’hanno votato 4 concittadini su 5. Che presto torneranno alle urne in base alla legge Severino.

In democrazia, è vero, gli elettori hanno sempre ragione. Ma bisogna intendersi. Chi vince ha il diritto-dovere di governare, sempreché non lo arrestino. E chi perde deve chiedersi il perché: ma non sempre la risposta è che ha vinto il migliore. In Liguria, in Campania e a Eboli, pochi giorni dopo le elezioni, è già evidente che han vinto i più bugiardi, o i più demagogici, o i più clientelari, mentre chi li contrastava senza bugie né voti di scambio, ma solo col voto di opinione (Sansa in Liguria, i 5Stelle in Campania) non aveva speranze. Risposta terribile: significa che continueranno a vincere i peggiori finché non troveranno qualcuno ancor peggio di loro. O elettori più informati e meno ricattabili di oggi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/11/voto-di-sbaglio/5961947/