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martedì 13 luglio 2021

Coronavirus, contagi in risalita. Si teme il giallo per quattro Regioni.

 

Sicilia, Campania, Marche e Abruzzo potrebbero rischiare di tornare in zona gialla. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, chiarisce che una risalita dei contagi era prevista ma non esclude, se necessario, il ritorno delle mascherine all'aperto.

Tornano a salire i numeri della pandemia di Covid-19 in Italia e 4 Regioni temono di tornare in zona gialla: sono Sicilia, Campania, Marche e Abruzzo. La variante Delta prosegue infatti la sua corsa e adesso alcune Regioni si affidano al dibattito sulla possibile revisione dei parametri che stabiliscono i profili di rischio e l'assegnazione delle zone: lo spauracchio è il ritorno alla zona gialla in piena estate.  Le ipotesi vanno dalla soglia minima di tamponi da effettuare ogni 100mila abitanti - che alcuni esperti vorrebbero aumentare - al maggiore peso del cosiddetto Rt ospedaliero - vale a dire il tasso occupazione dei posti letto - rispetto a quello sull'incidenza. Tra le questioni poste, infatti, c'è quella di rendere più determinante, nell'ambito del monitoraggio settimanale, la valutazione dei rischi sulla pressione ospedaliera rispetto all'incidenza dei contagi, proprio in vista dell'alleggerimento delle strutture sanitarie dovute al calo dei casi gravi con l'avanzare delle vaccinazioni. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, chiarisce comunque che una risalita dei contagi era prevista ed è in corso, ma con numeri più bassi del passato. Tuttavia non esclude, se necessario, il ritorno delle mascherine all'aperto. "Come abbiamo sempre fatto ci affideremo alla nostra squadra di tecnici che continueranno a fare questo lavoro di verifica, vediamo passo dopo passo come le cose vanno avanti", spiega Speranza, sottolineando ancora che "la vera arma per chiudere questa stagione è la campagna di vaccinazione, su cui bisogna insistere". E il sottosegretario Pierpaolo Sileri non vede il rischio di una revisione dei parametri, dato che "l'attuale sistema ci ha permesso di arrivare alla riaperture in sicurezza".  Tra le questioni da approfondire c'è anche quella - più volte invocata proprio di fronte all'avanzare delle mutazioni - dello screening: non tutte le Regioni li eseguono in maniera efficace, in particolare alcune del Sud - come Calabria e Sicilia - sarebbero indietro sul numero di test da effettuare ogni giorno. A lanciare l'allarme sulla necessità dei test è anche il direttore del dipartimento di Microbiologia dell'Università di Padova. Andrea Crisanti, secondo il quale "la variante Delta, purtroppo, è a un passo dal diventare resistente ai vaccini e quindi meno si trasmette e meglio è. Per questo, penso che bisognerebbe combinare la campagna vaccinale, vaccinando più persone possibili, e allo stesso tempo rafforzare la nostra capacità di tracciamento, perché diminuire la trasmissione potenzia l'effetto dei vaccini".

rainews

sabato 3 aprile 2021

Parte la stretta di Pasqua, fino a lunedì Italia in rosso.

 

Nuove disposizioni scattano dopo 3 giorni rossi di Pasqua: Veneto, Marche e la provincia autonoma di Trento in arancione, ma nove regioni restano in rosso almeno per un'altra settimana.

La mappa di colori e relative misure divide l'Italia quasi perfettamente in due, con Veneto, Marche e la provincia di Trento che si aggiungono alle regioni arancioni, mentre altre nove restano in zona rossa almeno per un 'altra settimana. Ma il Paese, fino al 5 aprile, è pronto ad attraversare la parentesi della 'stretta di Pasqua', una sorta di lockdown più morbido affinché siano limitati spostamenti e assembramenti durante le festività: in questi tre giorni è vietata la mobilità anche nel proprio Comune, se non per attività motoria vicino a casa o per andare a trovare parenti o amici in massimo di due persone (i minori di 14 anni conviventi non si considerano nel conteggio).

E' per questo che, grazie al lavoro di 70mila uomini delle forze dell'ordine in campo previsti, saranno intensificati controlli e posti di blocco in arterie stradali, parchi e spiagge. 

In generale, Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Puglia, Valle d'Aosta e Campania dovranno ancora aspettare il monitoraggio della prossima settimana prima di poter sperare nell'eventuale uscita dalla zona rossa. Veneto, Marche e la provincia di Trento sono invece state promosse in arancione, con l'ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza, che entrerà in vigore da martedì prossimo. Lo stesso colore è stato confermato per Lazio, Abruzzo, Liguria, Basilicata, Sicilia, Molise, Sardegna, Umbria e la provincia autonoma di Bolzano.

Prima però c'è il weekend di Pasqua e Pasquetta, tutto in rosso con regole ancora più severe in alcuni territori: Campania, Puglia e Liguria hanno posto il divieto di accesso alle seconde case per residenti e non residenti. Per quest'ultima 'categoria' il divieto è imposto anche in Piemonte, Valle d'Aosta, Alto Adige, Trentino, Toscana, Marche, Calabria e Sardegna. E nell'Isola - così come in Sicilia - si entra solo con tampone negativo effettuato 48 ore prima dell'arrivo. In Piemonte i supermercati saranno chiusi, così come tutti i negozi in Toscana (deroghe per edicole, farmacie e consegne a domicilio) mentre in Sicilia i supermarket potrebbero restare chiusi il 4 e 5 aprile nonostante non ci sia un'ordinanza che lo disponga, bensì per effetto dello sciopero dei lavoratori della grande distribuzione.

Sul litorale romano le forze dell'ordine e volontari - a Fiumicino anche con l'ausilio di un drone - saranno in campo per controllare vie di accesso agli arenili, eventuali situazioni di assembramento, rispetto delle misure anti Covid, e controlleranno anche esercizi, spiagge, pinete e parchi pubblici. Stesse misure nel territorio di Catanzaro, dove saranno chiusi lungomare e pinete e dove sarà anche vietato il passeggio, lo stazionamento e le attività motorie. Aree verdi chiuse anche a Pescara, Matera e in diverse città della Toscana mentre la Liguria ha vietato i rientri nelle seconde case e l'utilizzo delle barche a Pasqua. E in Sardegna - tra le regioni con il dato epidemiologico tra i più bassi - entra in zona rossa Pula, nota località turistica del sud ovest.

Ora, a causa dell'impennata dei contagi nel territorio, i Comuni sardi in lockdown sono 13. Diverse città blindate in Toscana: a Capalbio l'accesso agli arenili sarà interdetto su tutto il territorio, verrà posta attenzione alle seconde case, sarà vietato recarsi sul litorale e, per questo, saranno bloccati gli ingressi alle spiagge. A Massa fino al 7 aprile sarà vietato l'ingresso anche ai parchi pubblici, al pontile e alle spiagge. A Campobasso, in Molise, i controlli saranno potenziati soprattutto nelle zone dove di solito c'è maggiore flusso turistico e in quelle solitamente interessate da numerosi rientri da fuori regione per le festività. Anche nella Repubblica di San Marino - in linea con i provvedimenti adottati in Italia - è stata estesa la possibilità - il 3, il 4 e 5 aprile - di compiere visite in abitazioni che si trovano nelle regioni limitrofe al monte Titano: Emilia-Romagna e Marche.   

(nellafoto d'archivio, Venezia)

ANSA

mercoledì 17 marzo 2021

Spese folli da Covid, così Arcuri ha sgonfiato i conti alle Regioni. - Ilaria Proietti

 

Quanto vale lo scalpo di Domenico Arcuri? Per le Regioni che non l’hanno mai amato, centinaia di milioni di euro. Quelli che difficilmente avrebbero ottenuto dal commissario defenestrato giusto alla vigilia della maxi-operazione per rifondere le spese per l’emergenza coronavirus sostenute dai governatori e a cui la struttura di Arcuri ha osato fare i conti in tasca. Conti che non tornano, a una ricognizione aggiornata all’8 marzo.

Ma riavvolgiamo il nastro al 19 giugno dello scorso anno, quando le Regioni avevano consegnato le tabelle delle spese sostenute per l’emergenza coronavirus dal 31 gennaio al 31 maggio 2020. Un conticino provvisorio da 4,1 miliardi di euro, di cui la metà serviti per assicurare l’assistenza alla popolazione nei Covid hotel, per la distribuzione di generi alimentari e di igiene personale a domicilio, per gli oneri legati all’impiego del volontariato di Protezione civile o per allestire tende e container per i triage da campo.

L’altra metà, ossia 2 miliardi, se ne era andata per l’acquisto di farmaci, kit medici, tamponi, apparecchi medicali come i ventilatori, maschere facciali, camici, guanti e mascherine che le Regioni avevano dichiarato di aver speso nonostante ricadessero nei dispositivi di tipo A, B e C per i quali nel frattempo Arcuri aveva disposto l’acquisto centralizzato e la distribuzione direttamente dalla centrale unica in capo alla struttura commissariale. Con cui, per via di tali acquisti, le Regioni avevano avuto un approccio pessimo fin da quando, ad aprile 2020, era stato loro comunicato lo stop all’autorizzazione di acquisti a valere sul fondo nazionale: se proprio avessero voluto fare da sé, i governatori avrebbero ben potuto spendere, ma a patto che si trattasse di fondi propri. Qualche Regione a quel punto aveva dichiarato il rischio di bancarotta, ma senza smettere di acquistare come se non ci fosse un domani denunciando le inefficienze del commissario: il governo per quietare gli animi aveva rassicurato tutti sollecitando però le necessarie rendicontazioni. Su cui Arcuri aveva messo al lavoro il suo staff, anche perché la dimensione degli importi presentati aveva da subito imposto una puntuale ricognizione delle spese. Come quelle della Regione Lombardia guidata dal leghista Attilio Fontana, tanto per fare un esempio. Che aveva dichiarato di aver sostenuto nei primi 5 mesi dell’emergenza una spesa di quasi 900 milioni di euro per ottenere i risultati che già allora erano sotto gli occhi di tutti.

Di questa cifra da capogiro, le spese per mascherine, ventilatori e dispositivi analoghi erano inizialmente circa 376 milioni: la ricognizione effettuata dalla struttura commissariale aggiornata all’inizio di marzo di quest’anno ha avuto l’effetto di sgonfiare il conto a quota 161 milioni, euro più euro meno. Peraltro in buona parte spesi in deroga agli ordini del commissario. E che dire della Sicilia di Nello Musumeci? Quasi 350 milioni di spese dichiarate in cinque mesi, di cui 195 per i famosi dispositivi di categoria A, B e C (il cui acquisto in teoria competeva al commissario) e che, rendicontazioni alla mano, sono stati rettificati a quota 66 milioni. E ancora il Piemonte con un cahier de doleances iniziale di 420 milioni, di cui 159 milioni per mascherine, kit e apparecchiature varie che a spulciare le fatture vere corrispondono a 120 milioni. Alla fine, mettendo a confronto il conto presentato da tutte le Regioni a giugno con quello rettificato dalla struttura commissariale, viene fuori una differenza di 390 milioni: se le spese dichiarate a ogni latitudine della penisola ammontavano a circa 2 miliardi, la ricognizione dell’8 marzo di quest’anno dice che la cifra effettivamente spesa è pari a poco più di 1,6 miliardi. E di questi 1,6 miliardi, circa il 38 per cento risulta essere stato speso dopo l’8 aprile, ossia in un’epoca in cui non erano più autorizzati acquisti sui fondi nazionali.

Arcuri, del resto, ha avuto da dire anche per i rimborsi dovuti per la primissima fase dell’emergenza. Quando il Dipartimento della Protezione civile aveva trasferito al commissario straordinario (nominato dal governo Conte il 18 marzo, ndr) le spese ad allora autorizzate condizionatamente alle regioni nella loro qualità di soggetti attuatori, era iniziato un vero e proprio braccio di ferro: dei 329,8 milioni inizialmente trasferiti, le regioni avevano formalizzato una richiesta di rimborso per 140 milioni di cui 133 ritenuti congrui. Il commissario aveva sganciato un acconto del 50 per cento riservandosi di saldare eventualmente il resto all’esito dell’attività di controllo.


martedì 10 novembre 2020

Canzoni stonate sul Covid. - Gaetano Pedullà

 

Mentre Angela dalla spiaggia di Mondello ci canta che non ce n’è Coviddi (nella foto), con lo stesso sprezzo del ridicolo di un altro urlatore che però si esibisce al Papeete, altre cinque regioni – Abruzzo, Liguria, Umbria, Basilicata e Toscana – diventano zona arancione, e oggi la stessa sorte può toccare alla Campania. A precedere erano state venerdì scorso Sicilia e Puglia (arancioni) con Lombardia, Piemonte, Calabria e Valle d’Aosta zone rosse. In un Paese che dunque ha sotto gli occhi di tutti la gravità della situazione, impazzano ugualmente negazionisti, fancazzisti e sobillatori di piazza, con l’incredibile seguito di idioti che poi si assembrano agli aperitivi, o di politicanti con i loro giornali di complemento che alimentano la paura e la frustrazione di chi è in difficoltà economica.

A questi agitatori si sono rivolti il Presidente della Repubblica, il Governo, molte istituzioni, uomini di cultura, personaggi pubblici, chiedendo una tregua mentre il Paese sta combattendo una guerra terribile, con i medici al fronte e migliaia di morti dall’inizio della pandemia. Tutto inutile. Neppure la scomparsa di tanti protagonisti del nostro tempo, campioni dello sport e artisti adorati, o i racconti angosciati di chi è finito in rianimazione e non si sa come ce l’ha fatta a uscirne, riescono a mettere in pausa la polemica politica. Un virus meno letale del Covid, certo, ma di cui allo stesso modo non ci riusciamo a liberare, con l’effetto di aumentare la confusione e il disorientamento di tutti.

Così Regioni, partiti di opposizione, plotoni di virologi, opinionisti e giornalisti irresponsabili stanno sfregiando il buonsenso, moltiplicando l’ansia e dividendo le energie necessarie per rafforzare la Sanità, fare arrivare prima possibile i sostegni finanziari previsti dallo Stato e accompagnare il Paese verso un’uscita più veloce possibile da questa tragedia. Poi ci sarà tempo per litigare e recriminare. Ma adesso questo livello di conflittualità non è più normale dialettica tra forze parlamentari e – se vogliamo abusare del termine – culturali, ma alto tradimento degli italiani che dalla classe dirigente si aspettano serietà e non collaborazione col nemico. E che nemico!

https://www.lanotiziagiornale.it/editoriale/canzoni-stonate-sul-covid/

venerdì 6 novembre 2020

Le capriole di Fontana e degli altri governatori su zone rosse e criteri: prima era “competenza del governo”, ora è “inaccettabile”. - Daniele Fiori

 

Il presidente della Lombardia, fin dal caso di Alzano e Nembro, ha sempre sostenuto che la scelta sulle zone rosse spetti a Roma. Ora che Palazzo Chigi ha provveduto, la decisione è diventata "inaccettabile". Anche Spirlì in Calabria e Cirio in Piemonte contestano i parametri adottati: eppure sono stati decisi e condivisi insieme alle stesse Regioni, che sono rappresentate anche nella cabina di regia che effettua il monitoraggio. Finché servivano per allentare la stretta, nessuno li aveva criticati. Anzi in quel caso i presidenti di regione chiedevano "autonomia" nelle scelte. Quando invece i numeri sono tornati a salire, è partito il "gioco del cerino".

Una settimana fa il governatore Attilio Fontana ribadiva che “un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo“. Ora Palazzo Chigi ha deciso: la Lombardia è zona rossa. Ma Fontana continua a protestare: parla di decisione “inaccettabile“, contesta i dati “non aggiornati”. Cinque giorni fa il presidente facente funzioni della Calabria, Nino Spirlì, parlava di “necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. Adesso anche per lui la decisione del governo di inserire la sua Regione nella fascia a più alto rischio “è ingiustificabile” e anzi il sistema sanitario calabrese non starebbe riscontrando difficoltà, ma ieri ha modificato – abbassandoli – i dati sulle terapie intensive.

Il “gioco del cerino” – Sono solo due esempi di come alcune Regioni abbiano tenuto un atteggiamento tutt’altro che netto nella lotta alla pandemia. A cominciare dai famosi dati: le giunte regionali sanno quali sono i numeri sul coronavirus, li hanno sempre conosciuti. Molti dei governatori E le Regioni sanno anche quali sono i parametri con cui sono state decise le misure restrittive e ora la suddivisione del Paese in zone rosse, arancioni e gialle. Hanno rivendicato autonomia quando era il momento di allentare la stretta, ma non vogliono assumersi la responsabilità quando arriva – sempre secondo i dati – il momento di chiudere, di tornare in lockdown. Negli ambienti politici viene definito come il “gioco del cerino”, un meccanismo che prescinde dal colore politico. Non lo ha fatto in Campania il dem Vincenzo De Luca, annunciando il lockdown, prima di fare marcia indietro quando i napoletani sono scesi in strada a protestare. Non ha voluto farlo nemmeno Fontana in Lombardia. Evitò di chiudere Alzano e Nembro la scorsa primavera, sostenendo che era il governo a dover intervenire, nonostante la legge 833 del 1978 attribuisca ai governatori la facoltà di emettere “ordinanze di carattere contingibile ed urgente” in materia di sanità pubblica, purché limitate “alla regione o a parte del suo territorio”. Anche adesso ha aspettato che a decidere fosse Roma. Non ancora soddisfatto ha poi ha criticato la decisione del governo centrale.

I dati del governo? Sono le Regioni a inviarli a Roma – “È surreale”, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, “che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati”. I dati che hanno spinto l’esecutivo a determinare le fasce gialle, arancioni e rosse, infatti, sono le stesse regioni a comunicarle alla cabina di regia: su questa base da maggio viene effettuato il monitoraggio. Nella cabina di regia, inoltre, ci sono tre rappresentanti indicati dai governatori. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro: “All’interno della cabina di regia ci sono – ha sottolineato – tre colleghi che rappresentano le Regioni del nord, centro e sud“. E non solo, ha aggiunto Brusaferro: “Settimanalmente i dati vengono analizzati, condivisi e validati, con un processo molto preciso, tra Regioni, Iss e ministero e vengono poi assemblati, attraverso 21 indicatori, su cui si esprime un giudizio di pericolosità basso, medio, moderato o alto”. Questi 21 parametri le Regioni li conoscono dalla scorsa primavera. Così come, il 12 ottobre scorso gli assessori regionali alla Sanità hanno ricevuto il dossier che prevede i diversi scenari di rischio in relazione all’andamento della curva epidemica e che prescrive l’adozione di misure via via sempre più stringenti. Esattamente la base su cui si è stabilita la divisione oggettiva dell’Italia nelle varie zone. Forse gli assessori non lo hanno condiviso con i rispettivi governatori, a giudicare dalla reazione delle Regioni quando il presidente del Consiglio si è presentato davanti a loro con in mano il Dpcm che prevedeva le nuove restrizioni.

Quando d’estate chiedevano autonomia – Finché invece si trattava di allentare le misure, i governatori apprezzavano le varie distinzioni regionali e anzi chiedevano a Roma maggiore autonomia. A fine aprile, mentre si avvicinava la cosiddetta Fase 2, quella post-lockdown, le tensioni tra Regioni e governo riguardavano proprio questo punto, con i presidenti che contestavano il calendario delle riaperture dettato dal premier Giuseppe Conte. Il motivo? Inaccettabile, a loro parere, che il governo dettasse regole valide per tutti i territori. Allora bisognava differenziare, insomma, garantire più poteri a Regioni e Comuni, fare aprire per primi quei territori col contagio più basso. Per tutta l’estate i governatori hanno emanato ordinanze autonome. Anche dopo il pasticcio della riapertura delle discoteche, il 22 agosto scorso al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini i presidenti Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna), Giovanni Toti (Liguria), Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Maurizio Fugatti (Trento) chiedevano sempre la stessa cosa: “Maggiore autonomia“.

Quando in autunno volevano che scegliesse il governo – Un mese più tardi, quando i dati dei contagi già cominciavano a salire, l’aspirazione dei governatori era avere i tifosi alle partite di calcioil 24 settembre la Conferenza delle Regioni diede il via libera all’apertura degli stadi a un numero di spettatori per una capienza massima del 25% del totale dei posti disponibili. L’iniziativa fu fermata dal Comitato tecnico scientifico, che scelse sulla base dei dati. Una decisione che si è rilevata lungimirante. I contagi infatti hanno cominciato a salire e sono tornate le ordinanze restrittive, così come i nuovi Dpcm. Fino a quando medici ed esperti hanno cominciato a premere per il ritorno alle zone rosse e ai lockdown mirati. A quel punto molti governatori hanno alzato le mani imboccando quella che è una vera e propria inversine a U: Autonomia sulle strette locali? Nossignore, tocca al governo. Palazzo Chigi ha agito, sulla base dei 21 parametri e dei 4 scenari decisi e condivisi con le stesse Regioni. E calcolati tramite i loro dati. Questo, però, non ha evitato l’ennesima giravolta, con polemiche annesse.

LOMBARDIA – Un rimpallo di responsabilità che in Lombardia era cominciato addirittura in primavera, dopo la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca, ad Alzano e Nembro. “Abbiamo chiesto invano al governo l’istituzione di nuove zone rosse comprendenti quei Comuni“, diceva il 2 aprile Fontana, sostenendo che il Pirellone non potesse agire. Cinque giorni dopo l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera disse che “la legge permetteva alla Regione di istituire la zona rossa”, ma il governatore lo ha sempre smentito, parlando di “un potere che deve essere riservato esclusivamente al governo centrale”. Una posizione che Fontana ha ribadito lo scorso 28 ottobre, parlando a RaiNews: “Un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo e quindi io potrei magari sollecitarla, ma io non posso autonomamente assumerla”. Quattro giorni dopo è cominciata la virata: “Una serie di interventi territorio per territorio, polverizzati e non omogenei, sarebbero probabilmente inefficaci“, ha iniziato a sostenere il leghista. Che però diceva: “Il lockdown è l’unica misura che si è dimostrata efficace“. Passano altri tre giorni e la giravolta è completa: l’istituzione della zona rossa diventa “uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi”. È la sera del 4 novembre quando Fontana parla: dal 28 ottbre è passata meno di una settimana.

CALABRIA – Un’altra regione in zona rossa è la Calabria e il presidente facente funzioni, il leghista Spirlì, si dice a sua volta incredulo. Era lui stesso, il 23 ottobre scorso, a parlare già di un “momento critico” per la Regione, mentre presentava la nuova ordinanza restrittiva. Lo stesso giorno, in merito all’ipotesi di un lockdown, spiegava anche che “a valutare cosa è necessario fare devono essere i singoli territori“. Una settimana dopo, sempre ad ascoltare le parole di Spirlì, la situazione in Calabria non era migliorata: “Ci auguriamo che, grazie alla nuova ordinanza, nelle prossime due settimane la curva dei contagi possa scendere. Abbiamo la necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. E nel presentare il suo provvedimento spiegava anche quale fosse il criterio da lui scelto: “Esistono zone fortemente colpite, le zone rosse, altre che sono altamente colpite, le zone arancione, e poi territori che sono tenuti sotto sorveglianza giorno dopo giorno”. Quando ad usare questo metodo è il governo, però, allora è una scelta “ingiustificabile“. Nel frattempo la Regione ha modificato il criterio per calcolare le terapie intensive, facendo calare il dato dei pazienti in rianimazione: non è bastato per evitare l’inserimento nella zona ad alto rischio.

PIEMONTE – “Se si dovranno fare lockdown dovranno essere per aree omogenee. E comunque lavoro e scuola devono essere salvaguardate fino alla fine”. Così parlava invece il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ai microfoni di Radio Capital il 15 ottobre scorso. Oggi quindi dovrebbe approvare le scelte del governo, invece lo accusa di avere usato “due pesi e due misure per Piemonte e Campania”. In questo caso però il governatore di Forza Italia aveva già chiarito la sua nuova posizione il 2 novembre scorso: “Le misure devono essere necessariamente nazionali, perché dalla Valle d’Aosta alla Calabria il virus c’è ovunque e sta crescendo ovunque”, diceva su Sky TG24, ignorando quindi parametri e scenari che il governo aveva già comunicato alle Regioni da tempo. Cirio poi aggiungeva: “Il Covid è un problema nazionale e servono misure nazionali”. La maggior parte dei suoi colleghi governatori di centrodestra, con Luca Zaia in testa, dicono di pensarla esattamente al contrario. Oltre a Zaia, ad esempio, c’è anche Giovanni Toti in Liguria: “Come presidente di Regione riterrei opportuno che il governo lasci alle Regioni la facoltà di emanare ordinanze proprie, sia migliorative sia restrittive, e non ponga limitazioni al potere delle Regioni”, diceva il 5 ottobre scorso.

CAMPANIA – Se nemmeno tra governatori dello stesso centrodestra c’è accordo su quale criterio debba essere utilizzato per decidere le restrizioni, il premio per la giravolta più rapida spetta a un governatore del centrosinistra: Vincenzo De Luca in Campania. Il 23 ottobre il presidente di Regione chiese al Governo un lockdown nazionale e specificò che in ogni caso “la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo“. La serrata sembrava imminente, già pronta a essere firmata il giorno successivo. Poi però ci fu la durissima protesta a Napoli, con gli esercenti in piazza e gli scontri tra alcuni manifestanti e la polizia. Meno di 24 ore dopo De Luca ritirò tutto: “In assenza di una misura restrittiva generale non ha senso adottare norme che mettono in ginocchio intere categorie”, spiegò ufficialmente il governatore. Che poi, il 30 ottobre, è comunque tornato ad attaccare il governo, accusandolo di “fortissimi ritardi nelle decisioni”.

ALTO ADIGE – Chi ha a lungo snobbato il governo, per poi fare più volte retromarcia, è stata anche la Provincia di Bolzano a guida Svp. “Non servono”, disse il presidente Arno Kompatscher riferendosi alle misure decise da Roma il 14 ottobre scorso, salvo poi cambiare idea in pochi giorni e introdurre praticamente le stesse restrizioni con un proprio provvedimento. Poi l’Alto Adige decise di far da sé anche sulla chiusura dei locali, posticipandola alle 22. Il preludio a un’altra retromarcia decisa questa volta il 29 ottobre: “Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria“, aveva detto allora Kompatscher per giustificarsi. In due settimane un cambio di linea completo, fino all’ultima decisione di inizio novembre: un semi-lockdown per tutta la Provincia, con la chiusura di bar, ristoranti e pure negozi, oltre al coprifuoco dalle 20 alle 5. Kompatscher però ha almeno ammesso che esistono dei criteri oggettivi stabiliti dal governo: “Il provvedimento che abbiamo approvato – ha spiegato il 2 novembre – è in linea con il documento nazionale dell’8 ottobre che aveva previsto diversi scenari. Ci siamo orientati su questo documento”. Il presidente della Provincia, orgoglioso autonomista, ha ricordato anche un altro concetto: “Autonomia significa proprio questo, assumersi delle responsabilità“. Nel suo caso sia quando tentava di aprire tutto sia quando, al contrario, ha virato verso il lockdown.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/06/le-capriole-di-fontana-e-degli-altri-governatori-su-zone-rosse-e-criteri-prima-era-competenza-del-governo-ora-e-inaccettabile/5993211/

Salvini aizza i presidenti. E Fontana, Cirio e Spirlì chiedono il “riconteggio”. - Giacomo Salvini

 

Regioni rosse - La Lega accusa: “Punite” solo le amministrazioni guidate dal centrodestra. La Calabria fa ricorso.

Il registro chiamate del telefono è monotona, perfino noiosa. “Fontana, Cirio, Musumeci, Spirlì, Fontana, Cirio, Musumeci, Spirlì” e così via. Matteo Salvini chiama, ascolta e, se necessario, incita i governatori delle zone rosse e arancioni. A impugnare il Dpcm al Tar, come annunciato ieri dal governatore della Calabria Nino Spirlì, o a chiedere trumpianamente il riconteggio ché “i dati di Conte sono vecchi di dieci giorni”. Certo, il Piemonte, la Lombardia e la Calabria non saranno il Michigan, la Georgia o la Pennsylvania e la richiesta di lasciare aperto non sarà come conquistare la Casa Bianca, ma in serata la sintesi la fa il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, che da mercoledì sera è il più arrabbiato di tutti: “I dati sono vecchi di dieci giorni, il nostro Rt è passato da 2,16 a 1,91. Chiedo una verifica”. E a ruota si associano anche Fontana, Spirlì e il siciliano Nello Musumeci. Al punto che il ministro Speranza deve intervenire: “È surreale che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati nei propri territori”.

Ma il problema è politico e le telefonate tra Salvini e i governatori in lockdown sono drammatiche: “Matteo, così non teniamo più i commercianti e i ristoratori”, gli dice mercoledì sera Fontana dopo aver appreso che da oggi la sua Regione chiude. “I calabresi così muoiono di fame” gli confida Spirlì, già vice di Jole Santelli che si candiderà alle prossime Regionali: sicché il ricorso al Tar è cosa quasi scontata. E allora ieri mattina, dopo aver risentito Fontana, il leader del Carroccio è furioso e lo dice dritto: “Dobbiamo reagire contro questo governo indegno, non staremo a guardare le previsioni del tempo”.

Cosa questo voglia dire non è dato saperlo, ma il ricorso del governatore della Calabria è un buon inizio. Qualche collega potrebbe seguirlo, qualcuno chiedere di allentare la stretta tra due settimane se i dati dovessero migliorare, ma nel centrodestra circola anche l’ipotesi di ordinanze à la Trentino per disobbedire alle norme nazionali. E Salvini non si opporrebbe di certo. D’altronde il leader del Carroccio legge la “zona rossa” di Conte come un marchio per colpire le Regioni leghiste almeno fino al 3 dicembre: “Per un mese non si tocca palla – attacca – ma così si mette in ginocchio un Paese. I ristori sono mance o elemosina”. Così ieri ha sentito anche diversi sindaci leghisti della bassa Lodigiana dove a marzo era esplosa l’epidemia – tra cui Francesco Passerini (Codogno), Sara Casanova (Lodi) e Elia Delmiglio (Casalpusterlengo) – che sono pronti a impugnare singolarmente il Dpcm perché “oggi non possiamo essere paragonati ad altre parti d’Italia”.

Poi c’è la sindrome dell’accerchiamento. O meglio, dell’accanimento politico. E anche se l’esercizio nel dialetto lascia un po’ a desiderare, il concetto di Salvini è chiaro: “La Campania dove De Luca chiude tutto e dove c’è il disastro negli ospedali dov’è finita? Perché è zona gialla? Ccà nisciuno è fesso”. Come dire: il governo ha chiuso le Regioni di centrodestra (Lombardia, Piemonte, Sicilia e Calabria) e lasciato aperte quelle di centrosinistra. Un’accusa che rimbalza per tutto il giorno, dalla Camera dove anche Forza Italia e Fratelli d’Italia protestano animatamente contro il “mero calcolo politico” del governo (la deputata calabrese Maria Tripodi) ai leghisti vicini a Salvini: “Le zone rosse sono state decise dal colore politico”, si agita il segretario lombardo del Carroccio, Paolo Grimoldi. E anche il segretario, all’ora di pranzo, dal suo ufficio in Senato, attacca: “Le nuove norme sono una lotteria basata su dati vecchi: perché Lombardia sì, Toscana e Campania no? A Milano, Torino e Palermo non ci sono fessi, e a Roma c’è qualcuno attaccato alla poltrona”. L’unico leghista che si dissocia è il governatore del Veneto Luca Zaia, Regione che è ancora zona gialla ma presto potrebbe diventare arancione: “Le proteste sono legittime e anch’io avrei qualcosa da replicare, ma tutti abbiamo un obiettivo, cioè di uscire presto da questa crisi”. Un altro segnale di distanza da Salvini. E infatti nel Carroccio nessuno ci fa più caso: “Ormai Luca va per conto suo”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/06/salvini-aizza-i-presidenti-e-fontana-cirio-e-spirli-chiedono-il-riconteggio/5993747/

giovedì 5 novembre 2020

Quali sono i 21 indicatori su cui si baserà il governo per le chiusure regionali. - Stefano Rizzuti

 

Il prossimo dpcm permetterà di suddividere l’Italia in tre diverse aree, differenziate sulla base del rischio epidemiologico territoriale e con l’applicazione di diverse misure. Per stabilire in quale area dovrà andare ogni Regione si terrà conto non solo dell’indice Rt, ma di ben 21 indicatori individuati dai tecnici e dal ministero della Salute negli scorsi mesi. Vediamo quali sono.

Tre scenari, differenziati sulla base delle diverse aree regionali e della situazione epidemiologica in ognuna di esse. Una zona rossa, una arancione e una gialla. Utili per individuare le misure da mettere in campo in ogni Regione per contrastare la diffusione del Coronavirus. Le disposizioni saranno contenute nel prossimo dpcm e potranno portare fino a un lockdown in alcune Regioni, a partire da Piemonte, Lombardia e Calabria, quelle ritenute più a rischio. Per collocare ogni Regione in un’area verranno utilizzati alcuni indicatori. Non solo l’indice Rt, ma ben 21 indicatori individuati dal Cts e dal ministero della Salute che sono stati introdotti con un decreto del ministro della Salute, Roberto Speranza, il 30 aprile, quando l’Italia era alle prese con il primo lockdown. Gli indicatori erano stati individuati per le “attività di monitoraggio del rischio sanitario”.

Quali sono i 21 indicatori.

Il decreto di aprile individua 21 indicatori da tenere sempre d’occhio per valutare la situazione epidemiologica di ogni singolo territorio. I 21 indicatori sono suddivisi in tre diverse categorie: indicatori di processo sulla capacità di monitoraggio; indicatori di processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti; indicatori di risultato relativi a stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari. Andiamo a vedere quali sono questi indicatori a cui fa riferimento il governo.

Gli indicatori riguardanti la capacità di monitoraggio.

I primi sei indicatori riguardano il “processo sulla capacità di monitoraggio”. Andiamo a vedere quali sono, secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale del 30 aprile:

1) Numero di casi sintomatici notificati per mese in cui è indicata la data inizio sintomi/totale di casi sintomatici notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo.

2) Numero di casi notificati per mese con storia di ricovero in ospedale (in reparti diversi dalla TI) in cui è indicata la data di ricovero/totale di casi con storia di ricovero in ospedale (in reparti diversi dalla TI) notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo.

3) Numero di casi notificati per mese con storia di trasferimento/ricovero in reparto di terapia intensiva (TI) in cui è indicata la data di trasferimento o ricovero in Tl/totale di casi con storia di trasferimento/ricovero in terapia intensiva notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo.

4) Numero di casi notificati per mese in cui è riportato il comune di domicilio o residenza/totale di casi notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo.

5) Numero di checklist somministrate settimanalmente a strutture residenziali sociosanitarie (opzionale).

6) Numero di strutture residenziali sociosanitarie rispondenti alla checklist settimanalmente con almeno una criticità riscontrata (opzionale).

Gli indicatori sulla capacità diagnostica e sulla gestione dei contatti.

Altri sei indicatori sono stati individuati in riferimento al “processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e di gestione dei contatti”:

7) Percentuale di tamponi positivi escludendo per quanto possibile tutte le attività di screening e il “re-testing” degli stessi soggetti, complessivamente e per macro-setting (territoriale, PS/Ospedale, altro) per mese.

8) Tempo tra data inizio sintomi e data di diagnosi.

9) Tempo tra data inizio sintomi e data di isolamento (opzionale).

10) Numero, tipologia di figure professionali e tempo/persona dedicate in ciascun servizio territoriale al contact-tracìng.

11) Numero, tipologia di figure professionali e tempo/persona dedicate in ciascun servizio territoriale alle attività di prelievo/invio ai laboratori di riferimento e monitoraggio dei contatti stretti e dei casi posti rispettivamente in quarantena e isolamento.

12) Numero di casi confermati di infezione nella regione per cui sia stata effettuata una regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti/totale di nuovi casi di infezione confermati.

Gli indicatori sulla trasmissione e la tenuta dei servizi sanitari.

Gli ultimi indicatori, ben nove, sono quelli “di risultato relativi a stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari”:

13) Numero di casi riportati alla Protezione civile negli ultimi 14 giorni.

14) Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata ISS (si utilizzeranno due indicatori, basati su data inizio sintomi e data di ospedalizzazione).

15) Numero di casi riportati alla sorveglianza sentinella COVID-net per settimana (opzionale).

16) Numero di casi per data diagnosi e per data inizio sintomi riportati alla sorveglianza integrata COVID-19 per giorno.

17) Numero di nuovi focolai di trasmissione (2 o più casi epidemiologicamente collegati tra loro o un aumento inatteso nel numero di casi in un tempo e luogo definito).

18) Numero di nuovi casi di infezione confermata da SARS-CoV-2 per Regione non associati a catene di trasmissione note.

19) Numero di accessi al PS con classificazione ICD-9 compatibile con quadri sindromici riconducibili a COVID-19 (opzionale).

20) Tasso di occupazione dei posti letto totali di Terapia Intensiva (codice 49) per pazienti COVID-19.

21) Tasso di occupazione dei posti letto totali di Area Medica per pazienti COVID-19

https://www.fanpage.it/politica/quali-sono-i-21-indicatori-su-cui-si-basera-il-governo-per-le-chiusure-regionali/

mercoledì 4 novembre 2020

Il sonno della Regione. - Marco Travaglio

 

Ricordate i referendum di Maroni&Zaia per l’autonomia del Lombardo-Veneto? E le intemerate dei “governatori” del Pd a rimorchio, da Bonaccini a De Luca, per ottenere lo stesso risultato al tavolo col governo? “Padroni a casa nostra”, che bello! Basta centralismo, viva il federalismo, anzi l’autonomia, e mica un’autonomia qualunque: “dif-fe-ren-zia-ta”! Anni di propaganda si sono liquefatti nelle ultime riunioni degli sgovernatori con Mattarella, Conte e Speranza. Che non chiedevano la luna: solo il minimo sindacale di “leale collaborazione istituzionale” per condividere le nuove misure, differenziate (come l’autonomia) in base alle situazioni dei singoli territori. Anzi, di più: parametri da fissare insieme per far scattare in automatico le zone rosse o arancioni nelle aree che di volta in volta li superino. La risposta dei 21 presidenti è unanime: non vedo, non sento, non parlo. E sediziosa: noi non chiudiamo niente, se vuole lo faccia il governo, ma noi ci riserviamo il diritto di veto a furor di piazza.

E pazienza se la sanità è affare delle Regioni. E se l’art. 32 della legge 833/1978 (“Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale”) prevede espressamente che, in caso di emergenza sanitaria, “sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”, mentre quel tipo di ordinanze spettano al ministro della Salute se investono “l’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni”. Il sindaco Sala legge i numeri dei contagi e dei ricoveri a Milano? Fontana, Gallera, Toti, Cirio, De Luca e il reggente calabrese Spirlì hanno idea di quel che accade nelle loro Regioni? Anziché straparlare sui social e imbrodarsi in tv e sui giornali, che aspettano ad ascoltare i medici e a fare ciò che la legge impone? E con che faccia chiedono nuovi poteri, se non esercitano neppure quelli che già hanno? La vulgata paracula dei media è che governo e Regioni giocano allo “scaricabarile”. Ma qui governo e Quirinale fanno il proprio dovere, chiamando ciascuno a rispettare la legge e ad assumersi le proprie responsabilità. Sono sgovernatori e sindaci che scaricano barile e poi chiamano “scaricabarile” il loro amato federalismo, per continuare a fare gli autonomisti col culo degli altri. Però non tutti i mali vengono per nuocere: la gente ne ha piene le scatole di questi conigli in fuga che autonomizzano i meriti e centralizzano le responsabilità. Se un domani qualche mente saggia proponesse di abolire le Regioni, farebbe il pieno di voti. Compresi i nostri.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/04/il-sonno-della-regione/5990674/