Quanto vale lo scalpo di Domenico Arcuri? Per le Regioni che non l’hanno mai amato, centinaia di milioni di euro. Quelli che difficilmente avrebbero ottenuto dal commissario defenestrato giusto alla vigilia della maxi-operazione per rifondere le spese per l’emergenza coronavirus sostenute dai governatori e a cui la struttura di Arcuri ha osato fare i conti in tasca. Conti che non tornano, a una ricognizione aggiornata all’8 marzo.
Ma riavvolgiamo il nastro al 19 giugno dello scorso anno, quando le Regioni avevano consegnato le tabelle delle spese sostenute per l’emergenza coronavirus dal 31 gennaio al 31 maggio 2020. Un conticino provvisorio da 4,1 miliardi di euro, di cui la metà serviti per assicurare l’assistenza alla popolazione nei Covid hotel, per la distribuzione di generi alimentari e di igiene personale a domicilio, per gli oneri legati all’impiego del volontariato di Protezione civile o per allestire tende e container per i triage da campo.
L’altra metà, ossia 2 miliardi, se ne era andata per l’acquisto di farmaci, kit medici, tamponi, apparecchi medicali come i ventilatori, maschere facciali, camici, guanti e mascherine che le Regioni avevano dichiarato di aver speso nonostante ricadessero nei dispositivi di tipo A, B e C per i quali nel frattempo Arcuri aveva disposto l’acquisto centralizzato e la distribuzione direttamente dalla centrale unica in capo alla struttura commissariale. Con cui, per via di tali acquisti, le Regioni avevano avuto un approccio pessimo fin da quando, ad aprile 2020, era stato loro comunicato lo stop all’autorizzazione di acquisti a valere sul fondo nazionale: se proprio avessero voluto fare da sé, i governatori avrebbero ben potuto spendere, ma a patto che si trattasse di fondi propri. Qualche Regione a quel punto aveva dichiarato il rischio di bancarotta, ma senza smettere di acquistare come se non ci fosse un domani denunciando le inefficienze del commissario: il governo per quietare gli animi aveva rassicurato tutti sollecitando però le necessarie rendicontazioni. Su cui Arcuri aveva messo al lavoro il suo staff, anche perché la dimensione degli importi presentati aveva da subito imposto una puntuale ricognizione delle spese. Come quelle della Regione Lombardia guidata dal leghista Attilio Fontana, tanto per fare un esempio. Che aveva dichiarato di aver sostenuto nei primi 5 mesi dell’emergenza una spesa di quasi 900 milioni di euro per ottenere i risultati che già allora erano sotto gli occhi di tutti.
Di questa cifra da capogiro, le spese per mascherine, ventilatori e dispositivi analoghi erano inizialmente circa 376 milioni: la ricognizione effettuata dalla struttura commissariale aggiornata all’inizio di marzo di quest’anno ha avuto l’effetto di sgonfiare il conto a quota 161 milioni, euro più euro meno. Peraltro in buona parte spesi in deroga agli ordini del commissario. E che dire della Sicilia di Nello Musumeci? Quasi 350 milioni di spese dichiarate in cinque mesi, di cui 195 per i famosi dispositivi di categoria A, B e C (il cui acquisto in teoria competeva al commissario) e che, rendicontazioni alla mano, sono stati rettificati a quota 66 milioni. E ancora il Piemonte con un cahier de doleances iniziale di 420 milioni, di cui 159 milioni per mascherine, kit e apparecchiature varie che a spulciare le fatture vere corrispondono a 120 milioni. Alla fine, mettendo a confronto il conto presentato da tutte le Regioni a giugno con quello rettificato dalla struttura commissariale, viene fuori una differenza di 390 milioni: se le spese dichiarate a ogni latitudine della penisola ammontavano a circa 2 miliardi, la ricognizione dell’8 marzo di quest’anno dice che la cifra effettivamente spesa è pari a poco più di 1,6 miliardi. E di questi 1,6 miliardi, circa il 38 per cento risulta essere stato speso dopo l’8 aprile, ossia in un’epoca in cui non erano più autorizzati acquisti sui fondi nazionali.
Arcuri, del resto, ha avuto da dire anche per i rimborsi dovuti per la primissima fase dell’emergenza. Quando il Dipartimento della Protezione civile aveva trasferito al commissario straordinario (nominato dal governo Conte il 18 marzo, ndr) le spese ad allora autorizzate condizionatamente alle regioni nella loro qualità di soggetti attuatori, era iniziato un vero e proprio braccio di ferro: dei 329,8 milioni inizialmente trasferiti, le regioni avevano formalizzato una richiesta di rimborso per 140 milioni di cui 133 ritenuti congrui. Il commissario aveva sganciato un acconto del 50 per cento riservandosi di saldare eventualmente il resto all’esito dell’attività di controllo.
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