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mercoledì 17 marzo 2021

Spese folli da Covid, così Arcuri ha sgonfiato i conti alle Regioni. - Ilaria Proietti

 

Quanto vale lo scalpo di Domenico Arcuri? Per le Regioni che non l’hanno mai amato, centinaia di milioni di euro. Quelli che difficilmente avrebbero ottenuto dal commissario defenestrato giusto alla vigilia della maxi-operazione per rifondere le spese per l’emergenza coronavirus sostenute dai governatori e a cui la struttura di Arcuri ha osato fare i conti in tasca. Conti che non tornano, a una ricognizione aggiornata all’8 marzo.

Ma riavvolgiamo il nastro al 19 giugno dello scorso anno, quando le Regioni avevano consegnato le tabelle delle spese sostenute per l’emergenza coronavirus dal 31 gennaio al 31 maggio 2020. Un conticino provvisorio da 4,1 miliardi di euro, di cui la metà serviti per assicurare l’assistenza alla popolazione nei Covid hotel, per la distribuzione di generi alimentari e di igiene personale a domicilio, per gli oneri legati all’impiego del volontariato di Protezione civile o per allestire tende e container per i triage da campo.

L’altra metà, ossia 2 miliardi, se ne era andata per l’acquisto di farmaci, kit medici, tamponi, apparecchi medicali come i ventilatori, maschere facciali, camici, guanti e mascherine che le Regioni avevano dichiarato di aver speso nonostante ricadessero nei dispositivi di tipo A, B e C per i quali nel frattempo Arcuri aveva disposto l’acquisto centralizzato e la distribuzione direttamente dalla centrale unica in capo alla struttura commissariale. Con cui, per via di tali acquisti, le Regioni avevano avuto un approccio pessimo fin da quando, ad aprile 2020, era stato loro comunicato lo stop all’autorizzazione di acquisti a valere sul fondo nazionale: se proprio avessero voluto fare da sé, i governatori avrebbero ben potuto spendere, ma a patto che si trattasse di fondi propri. Qualche Regione a quel punto aveva dichiarato il rischio di bancarotta, ma senza smettere di acquistare come se non ci fosse un domani denunciando le inefficienze del commissario: il governo per quietare gli animi aveva rassicurato tutti sollecitando però le necessarie rendicontazioni. Su cui Arcuri aveva messo al lavoro il suo staff, anche perché la dimensione degli importi presentati aveva da subito imposto una puntuale ricognizione delle spese. Come quelle della Regione Lombardia guidata dal leghista Attilio Fontana, tanto per fare un esempio. Che aveva dichiarato di aver sostenuto nei primi 5 mesi dell’emergenza una spesa di quasi 900 milioni di euro per ottenere i risultati che già allora erano sotto gli occhi di tutti.

Di questa cifra da capogiro, le spese per mascherine, ventilatori e dispositivi analoghi erano inizialmente circa 376 milioni: la ricognizione effettuata dalla struttura commissariale aggiornata all’inizio di marzo di quest’anno ha avuto l’effetto di sgonfiare il conto a quota 161 milioni, euro più euro meno. Peraltro in buona parte spesi in deroga agli ordini del commissario. E che dire della Sicilia di Nello Musumeci? Quasi 350 milioni di spese dichiarate in cinque mesi, di cui 195 per i famosi dispositivi di categoria A, B e C (il cui acquisto in teoria competeva al commissario) e che, rendicontazioni alla mano, sono stati rettificati a quota 66 milioni. E ancora il Piemonte con un cahier de doleances iniziale di 420 milioni, di cui 159 milioni per mascherine, kit e apparecchiature varie che a spulciare le fatture vere corrispondono a 120 milioni. Alla fine, mettendo a confronto il conto presentato da tutte le Regioni a giugno con quello rettificato dalla struttura commissariale, viene fuori una differenza di 390 milioni: se le spese dichiarate a ogni latitudine della penisola ammontavano a circa 2 miliardi, la ricognizione dell’8 marzo di quest’anno dice che la cifra effettivamente spesa è pari a poco più di 1,6 miliardi. E di questi 1,6 miliardi, circa il 38 per cento risulta essere stato speso dopo l’8 aprile, ossia in un’epoca in cui non erano più autorizzati acquisti sui fondi nazionali.

Arcuri, del resto, ha avuto da dire anche per i rimborsi dovuti per la primissima fase dell’emergenza. Quando il Dipartimento della Protezione civile aveva trasferito al commissario straordinario (nominato dal governo Conte il 18 marzo, ndr) le spese ad allora autorizzate condizionatamente alle regioni nella loro qualità di soggetti attuatori, era iniziato un vero e proprio braccio di ferro: dei 329,8 milioni inizialmente trasferiti, le regioni avevano formalizzato una richiesta di rimborso per 140 milioni di cui 133 ritenuti congrui. Il commissario aveva sganciato un acconto del 50 per cento riservandosi di saldare eventualmente il resto all’esito dell’attività di controllo.


giovedì 28 maggio 2020

Expo2015, il sindaco di Milano s’inventa l’utile da 40 milioni. - Gianni Barbacetto

Expo: chiesti 13 mesi per sindaco Sala - Lombardia - ANSA.it
A tornare sull’argomento Expo è stato lui, Giuseppe Sala. “La società Expo 2015 in liquidazione presenta dei conti che riassumono dieci anni di percorso con un avanzo, quindi un utile, di 40 milioni”, ha dichiarato qualche giorno fa. “Il tormentone del buco da 200 o 400 milioni è finito. Questa storia per me finisce ieri”. È una storia italiana di successo, di “competenza, onestà e dedizione”. Proprio così: “Vi dico queste cose al di là del fatto che per me è una grande soddisfazione anche perché penso che in momenti difficili come questi bisogna poter dire e poter pensare che pur in un Paese difficile come il nostro, pur in momenti storici a volte anche cattivi come questo, si può fare. Si può fare se si ha competenza, onestà e dedizione, le caratteristiche di chi ha lavorato con me”.
Tutto a posto, tutto bene, dice dunque il commissario Expo diventato sindaco di Milano: la storia di Expo finisce con un “utile” di 40 milioni. Un “utile”? Proviamo allora a spiegare al manager Sala, in maniera facile facile, che cos’è successo davvero, visto che evidentemente non si è ancora ripreso dall’aperitivo sui Navigli di #milanononsiferma e continua a mostrarsi appannato e mal consigliato (vedi foto a braccia conserte sul tetto del Duomo con in cielo le Frecce tricolori).
Metti che un padre consegni al figlio preferito una cifra consistente, diciamo 2 miliardi e 300 milioni di euro, affinché apra un’attività. Il figlio progetta e realizza un grande bazar internazionale provvisorio. Le spese sono molte, i clienti sono meno del previsto, per attirarli è necessario fare prezzi stracciati e alla fine gli incassi non superano i 700 milioni. Chiusa l’attività e fatti i conti, il figlio si ritrova in tasca 40 milioni. Che cosa racconterà? Di aver chiuso l’operazione con 40 milioni di utili?
A Expo è andata esattamente così. Sono stati messi nell’impresa 2 miliardi e 300 milioni di denaro pubblico. Impiegati per la realizzazione dell’evento (1,3 miliardi) e per la sua gestione (circa 1 miliardo). Gli incassi (da biglietti, sponsorizzazioni, royalties) sono stati 700 milioni. A questi si aggiungono 75 milioni pagati da Arexpo per l’urbanizzazione delle aree su cui si è svolta l’esposizione universale. Dunque sono stati spesi 1 miliardo e 525 milioni, da cui vanno tolti i 40 milioni avanzati. So che è brutto chiamarlo “buco” o “rosso”, allora chiamatelo come volete, ma 1 miliardo e 485 milioni non sono mica rientrati nelle casse del padre premuroso.
Poi si puo dire che Expo ha fatto benissimo a Milano e all’Italia, che si sapeva fin dall’inizio che manifestazioni come l’esposizione universale non hanno il fine di chiudere in pareggio ma di sviluppare l’economia, che il famoso indotto ha portato soldi e benefici, che Milano pesa per il 12 per cento del pil nazionale e c’è chi giura che Expo 2015 sia stata la magica svolta che l’ha fatta diventare una delle grandi metropoli del mondo.
Io aspetto pazientemente le prove di questa melassa autocelebrativa, i numeri e gli argomenti capaci di dimostrarlo. Negli ultimi anni è cresciuta a dismisura una retorica stucchevole che ha celebrato in modo irragionevole una città che ha perso le sue fabbriche, indebolito il suo tessuto produttivo, venduto i gioielli di famiglia a cinesi (Pirelli) e arabi (Porta Nuova), ridotto la sua gloria ad aperitivi e food, locali e movida. Ora la pandemia rischia purtroppo di mostrare che il re è nudo, che l’eccellenza lombarda è fragile. La ripartenza andrà realizzata con un po’ più di modestia e senso di realtà. Senza spacciare, per favore, gli avanzi per utili.

giovedì 30 aprile 2020

Covid, Irene Pivetti indagata anche a Roma e Savona. Pm: “Sua società consapevole che mascherine non erano a norma”.

Covid, Irene Pivetti indagata anche a Roma e Savona. Pm: “Sua società consapevole che mascherine non erano a norma”

Le accuse mosse dagli inquirenti liguri sono frode in commercio, falso documentale ma anche violazioni ai dazi doganali. Alcuni giorni fa, inoltre, è stato disposto il blocco dei conti della Only Italia Logistics, la società di cui Irene Pivetti e amministratrice unica e rappresentante legale. L'ex parlamentare è indagata anche a Siracusa.

Dopo Siracusa, anche Roma e Savona. Sono tre le procure in cui è indagata l’ex presidente della Camera Irene Pivetti per il caso della vendita di mascherine non a norma. La nuova iscrizione della ex parlamentare è stata confermata dal sostituto procuratore ligure Giovanni Battista Ferro. Le accuse mosse dagli inquirenti sono frode in commercio, falso documentale ma anche violazioni ai dazi doganali. In serata, poi, la notizia che anche i pm di Roma indagano sulla ex parlamentare e sulla sua Only Logistics Italia, società di cui è amministratrice e rappresentante legale. Il procedimento rientra tra quelli avviati da Piazzale Clodio sulla fornitura di strumenti di protezione anti-Covid. Alcuni giorni fa, inoltre, è stato disposto il blocco dei conti della Only Italia Logistics, la società di cui Irene Pivetti e amministratrice unica e rappresentante legale.
L’inchiesta di Savona – L’indagine savonese aveva preso il via con il sequestro da parte della Guardia di Finanza di una fornitura di mascherine destinata a una farmacia della città ligure. Andando a ritroso nella filiera di distribuzione gli inquirenti sono risaliti alla Only Italia Logistic srl. L’indagine ha portato al sequestro di decine di migliaia di mascherine in arrivo dalla Cina – la stessa Pivetti ha parlato di 160mila – e sequestrate dalla guardia di finanza al terminal 2 dell’aeroporto di Malpensa. L’inchiesta è coordinata dal procuratore Ubaldo Pelosi e dal sostituto Giovanni Battista Ferro.
La Finanza nella sede della Protezione civile a Roma – Proprio oggi, inoltre, la guardia di finanza ha effettuato una serie di acquisizioni documentali presso la sede del Dipartimento della Protezione Civile a Roma, proprio nell’ambito dell’inchiesta sulla Only Logistics. A renderlo noto è stato lo stesso organo del capo dipartimento Angelo Borrelli, con una nota in cui si fa sapere che è stata “messa a disposizione della Gdf tutta la documentazione in nostro possesso relativa ai contratti di fornitura stipulata con la società”. Il Dipartimento, “estraneo all’indagine – prosegue la Protezione Civile – nella consueta ottica di massima collaborazione, resta a disposizione degli inquirenti per ogni ulteriore elemento ritenuto utile”.
Blitz delle Fiamme Gialle anche a Milano – Perquisizioni, inoltre, anche nei magazzini della Only Logistics a Milano, dove i militari non hanno però trovato altre mascherine. Il blitz rientra nell’ambito dell’indagine della procura di Siracusa sulla distribuzione di dispositivi di protezione individuale non conformi alla normativa vigente: in questa inchiesta Irene Pivetti è indagata per frode nell’esercizio del commercio e immissione sul mercato di prodotti non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza. La Procura ha indagato anche Salvatore Stuto, legale rappresentante della Stt Group srl di Lentini (Siracusa) che avrebbe distribuito le mascherine in farmacie e parafarmacie in tutto il territorio nazionale. Ieri sono state sequestrate 9 mila mascherine, ma quelle distribuite dall’azienda siracusana sarebbero state in realtà circa 40mila.
“Società consapevole che mascherine non erano a norma” – Nel decreto di perquisizione, firmato dal Pm Salvatore Grillo, ed eseguito dalla guardia di finanza, si contesta a Irene Pivetti, in qualità di legale rappresentante della società romana, di avere “importato mascherine dotate di falsa certificazione di conformità alla normativa da parte della società Icr Polska, e nel venderle su tutto il territorio nazionale nonostante la consapevolezza della non conformità alla normativa vigente in materia di Dpi, rafforzata dal provvedimento del direttore generale dell’Inail del 16 aprile 2020 con cui si fa espresso divieto alla Only Italia logistic di immettere in commercio le mascherine in questione”. Stuto è accusato di avere “rivenduto le mascherine” a una farmacia di Bologna “presentandole come conformi” alle norme previste, “pur essendo consapevole del mancato rispetto degli standard previsti dal regolamento Ue”. La conferma dell’illecito, secondo la Procura di Siracusa, è anche nel “codice relativo al certificato” di conformità che accompagnava le mascherine, che “è risultato disconosciuto perché ‘invalido’ o falso”.
Le procure di Siracusa e Savona si coordinano – “Ci stiamo coordinando con la Procura di Savona, cercando di approfondire le nostre rispettive inchieste. Dobbiamo capire anche quali siano le competenze ricordando che la merce transita dalla Dogana. E stiamo ricostruendo le modalità di come viene smistata“. Parola del procuratore di Siracusa, Sabrina Gambino, la prima procura ad aver iscritto l’ex presidente della Camera nel registro degli indagati.
Pivetti si autosospende da presidenza Assoferr – Nel frattempo è da registrare una nota di Assoferr (Associazione Operatori Ferroviari e Intermodali) che dà notizia dell’autosospensione della Pivetti dalla carica di presidente: “In merito alle notizie apparse in questi giorni sulle vicende relative alle mascherine che vedono coinvolta la presidente Irene Pivetti si informa che la stessa ha chiesto l’autosospensione dalle sue funzioni associative. Come da statuto, è stato quindi convocato per i prossimi giorni il Consiglio Direttivo per decidere in merito ed organizzare, se del caso, la sua supplenza“. A quando risale la richiesta di autosospensione? Al 25 aprile, quindi tre giorni prima della notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati da parte della Procura di Siracusa.
La difesa dell’ex presidente della Camera: “Cagnara sollevata è una vergogna” – Nel frattempo, la stessa Pivetti è tornata a parlare con l’AdnKronos, difendendo la posizione sua e della propria società: “Le indagini in quanto indagini ben vengano perché serviranno a stabilire la verità. La cagnara che è stata sollevata, invece, è una vergogna – ha attaccato – perché ha messo in mezzo, mi permetto di dire, una persona seria che sono io, un’azienda seria e tutte le persone che con grande generosità si sono adoperate per questa operazione davvero molto faticosa e difficile che era quella di portare in Italia mascherine sicure”. E ancora: “Poi, successivamente, è stato introdotto questo tema della certificazione dell’Inail che, tra l’altro, riguarda l’uso di alcune mascherine come dpi – ha spiegato – perché, per il resto, le mascherine per uso civile sono perfettamente consentite e indipendenti dalla certificazione dell’Inail. Questo bisogna ricordarlo – ha aggiunto – altrimenti non si spiega perché posso comprare all’autogrill una mascherina di pezza a 8 euro e non posso comprare a 2 euro una mascherina perfettamente certificata in uno standard internazionale ma senza il bollino dell’Inail, non sarebbe logico”.
Pivetti: “Indecente cannoneggiamento” – La Pivetti, poi, ha puntato il dito contro la ribalta mediatica della vicenda: “Ci sono problematiche di burocrazia mal raccontata – ha detto – però il punto vero è che si tratta di un indecente cannoneggiamento su un lavoro serio che è costato e costa molto sacrificio. Anche poco fa ero al telefono con uno dei miei partner – ha aggiunto – con il quale abbiamo già prenotato e in grandissima parte pagato un’ottima fornitura cinese e stavo dicendo di aspettare un momento perché adesso se anche importassimo oro zecchino ce lo terrebbero fermo. Mi dispiace – ha ribadito – perché a causa di questo molti milioni di mascherine già prenotate e in parte pagate, così come i ponti aerei, sono per forza fermi in Cina. Mi auguro che al più presto si possa ristabilire una visione equilibrata – ha concluso – perché l’Italia continua ad avere bisogno di questi presidi sanitari perché ci sono tante persone molto oneste che con me stanno lavorando su questa operazione“. Successivamente, la Pivetti ha parlato anche con l’Ansa: “Non si può mettere in mezzo una Istituzione così importante per l’Italia per una vicenda che presto sarà chiarita grazie all’intervento della magistratura” ha detto. “Blocco dei conti della Only Italia Logistics? Lo apprendo da lei. Ancora non mi è stato notificato niente” ha aggiunto.

domenica 2 giugno 2019

Il discorso del premier. - Marco Travaglio



Care concittadine e concittadini, forse è l’ultima volta che vi parlo da presidente del Consiglio. Il che non sarebbe una tragedia né per voi, sopravvissuti a 28 premier prima di me, né per me che, diversamente dai politici italiani, un mestiere a cui tornare ce l’ho. Ma vi parlo proprio perché spero che non sia l’ultima. Il mio strano governo, nato un anno fa dal contratto fra due partiti diversi e perlopiù incompatibili, che però erano gli unici disposti a formarne uno e in grado di fare maggioranza, ha realizzato alcune cose buone e commesso altrettanti errori (più qualche orrore). A differenza di altri, molto peggiori del nostro, ha goduto di pessima stampa, più a causa dei suoi meriti (imperdonabili dall’establishment) che dei suoi demeriti (graditissimi all’establishment). Ora però, dopo le Europee, siamo a un bivio molto chiaro. Se dovessi giudicare dai consensi alla mia persona e al mio governo, oltre il 50%, dovrei essere soddisfatto. Invece non lo sono per nulla. Il voto di domenica ha umiliato il partito di maggioranza relativa, che ha dimezzato i voti, ed esaltato l’altro contraente, che li ha quasi raddoppiati. Ma il mio unico faro è il Parlamento, dove i 5Stelle hanno il doppio dei seggi della Lega: le regole della democrazia parlamentare sono queste e non c’è voto europeo che possa scardinarle.
I due leader non si parlano più da due mesi. E non riescono a uscire dalla campagna elettorale. Ma ora dovranno farlo, volenti o nolenti. A meno che non vogliano le elezioni anticipate, nel qual caso dovranno dirlo subito a me e spiegarlo a voi. Il governo, specie se ha pretese di “cambiamento”, non può tirare a campare e in ogni caso non sono disponibile a farlo. Ora, appena finirò con voi, convocherò Di Maio e Salvini e chiederò loro di mettere sul tavolo, una volta per tutte, o la carta delle elezioni o la lista delle cose che vogliono fare con tanto di cronoprogramma di qui a fine anno. A cominciare dalla legge di Bilancio. Mi regolerò così. Non accetterò richieste di rimpasto non condivise da entrambi gli alleati, né proposte di un partner che esulino dal Contratto o non siano concordate con l’altro e con me. Chi esce dagli accordi sottoscritti un anno fa o da eventuali nuove intese apre ufficialmente la crisi e se ne assume la responsabilità e le conseguenze. Chi va in giro a sparare fuori dal seminato, a mortificare gli alleati, a spacciarsi per il premier, ad annunciare norme mai discusse, a ficcanasare nei ministeri altrui ne risponderà al sottoscritto. Tanto per essere chiari: sul Tav vale il Contratto che impone di “ridiscutere integralmente” l’opera.
Tantopiù dopo la devastante analisi costi-benefici del governo (non del M5S); dunque se anche Macron confermerà l’intenzione di farlo, contesteremo l’inadempienza francese sui fondi mai stanziati e le opere rinviate al 2038; ergo Telt deve rimandare le gare fino al 2038 e, se non lo farà, ne sostituiremo i vertici perché lo faccia.
Io non ho un partito alle spalle: ma la mia onestà, la mia integrità, la mia dignità e la mia parola sono un patrimonio sufficiente, che intendo conservare e utilizzare fino in fondo. Se mi tiro indietro, il governo cade e io dirò a tutti di chi è stata la colpa. In questo momento, le elezioni anticipate sono l’opzione più probabile: ai 5Stelle può convenire un periodo di opposizione, per potersi riorganizzare e tentare di recuperare l’identità e i voti perduti; alla Lega può convenire passare subito all’incasso, nella speranza di ripetere il boom delle Europee, il che – se accadesse – li porterebbe alla maggioranza assoluta delle Camere con i soli voti di FdI, senza bisogno di quelli di FI. Sulla carta, fra Salvini e Di Maio, il più interessato alle urne è Salvini, perché parte dal 34% e più passa il tempo più rischia di scendere; e, se il governo dura anche solo fino a Natale, sarà la Lega a pagare il maggior prezzo di una legge finanziaria di sacrifici. Di Maio parte dal 17 e ha bisogno di tempo per risalire la china; ma, per guadagnare quel tempo, deve restare al governo e rischia di perdere altri pezzi di identità e di elettorato, specialmente se Salvini continuerà a comportarsi da padrone. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: senza i voti in Parlamento dei 5 Stelle, la Lega – che finora non ha portato a casa quasi nulla, se non sul piano mediatico – non può approvare la legge che più sta a cuore ai suoi elettori: la Flat Tax, che poi è uno sgravio fiscale al ceto medio tutt’altro che flat. E sfidare gli elettori senza avergli dato nulla sulle tasse, in un’elezione non più europea ma politica, con una crisi di governo prima della legge di Bilancio che vedrebbe i mercati scatenarsi contro l’Italia per tutta l’estate, lo spread volare alle stelle e le paure degli italiani spostarsi dal tema migranti al tema soldi, sarebbe un rischio molto forte per le speranze egemoniche di Salvini. Che dovrebbe tornare a imbarcare anche quel che resta di Berlusconi, rischiando di perdere i voti di chi non vuole rivedere il vecchio e malfamato centrodestra.
Dall’altra parte i 5Stelle, dimezzati alle Europee ma sempre maggioritari in Parlamento, potranno smettere di portare la croce, passarla sulle spalle dei leghisti e riservarsi un atteggiamento meno responsabile e più corsaro sulle norme più lontane dal loro Dna. Anche tentando di approvare proprie leggi con altre maggioranze in Parlamento, aprendo il dialogo a sinistra. Per questo dobbiamo mettere le carte in tavola per decidere se salutarci subito o restare insieme un altro po’. Pensando solo all’interesse degli italiani, che potrebbero punire chi apre crisi al buio per futili motivi e premiare chi lavora e non parla a vanvera. A presto, spero. In caso contrario, vi auguro di non dovermi mai rimpiangere.
“Il discorso del premier” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 2 giugno 2019

domenica 12 luglio 2015

Il ‘Patto scellerato’: Renzi taglia i soldi al Comune di Palermo e Orlando aumenta le tasse ai palermitani. - Giulio Ambrosetti



Questo ed altro emerge dalla lettura della relazione dei revisori dei conti di accompagnamento al Bilancio consuntivo 2014. Il documento viene illustrato dalla vice presidente del Consiglio comunale, Nadia Spallitta. Le società partecipate che nascondono i ‘buchi’ di bilancio.

Tante le notizie che vengono fuori leggendo la relazione dei revisori dei conti di accompagnamento al Bilancio consuntivo 2014. Ne segnaliamo, in particolare, due. 
Prima notizia: il ‘patto scellerato’ tra il governo Renzi e l’amministrazione comunale di Leoluca Orlando. In pratica, Renzi taglia i fondi al Comune e la Giunta Orlando massacra di tasse i palermitani. 
Seconda notizia: le società controllate dal Comune (o partecipate dallo stesso Comune) occultano i ‘buchi’ di bilancio.  
Cominciamo ad esaminare la seconda notizia. Partiamo dal Comune di Palermo, ma il dato riguarda molti Comuni dell’Isola. Per le società controllate dai Comuni siciliani (e forse anche per molti degli stessi Comuni dell’Isola), il prossimo anno, dovrebbe profilarsi qualcosa di molto simile al fallimento. Oggi ci occupiamo del Comune di Palermo, visto che è disponibile la già citata relazione dei revisori dei conti di accompagnamento al Bilancio consuntivo 2014. La relazione è stata consegnata ai 50 Consiglieri comunali di Palazzo delle Aquile, la sede del Comune di Palermo. E per ciò che riguarda i costi delle società partecipate del capoluogo dell’Isola, beh, non c’è da stare allegri. Anzi.
I dati li ha resi noti la vice presidente del Consiglio comunale di Palermo, Nadia Spallitta.  “Aumenta 
palazzo delle aquile
Palermo, Palazzo delle Aquile
considerevolmente il costo delle società partecipate di circa 20 milioni di euro - dice Nadia Spallitta - e permangono consistenti disallineamenti tra i bilanci delle partecipate e quello comunale”. Scendendo nei particolari si nota che, “per alcune di queste società non è stato prodotto alcun bilancio”. Cosa che non sarebbe potuta succedere se fosse stato introdotto il controllo analogo previsto dalla riforma della contabilità pubblica: ovvero l’inserimento dei bilanci delle società controllate o comunque partecipate dai Comuni nei bilanci degli stessi Comuni. Di fatto, al di là delle giustificazioni di rito, la sensazione è che la mancata applicazione della riforma sia servita a nascondere la vera situazione contabile delle società collegate.
I Comuni sono in parte giustificati, alla luce della riduzione dei trasferimenti dello Stato e della Regione siciliana. E, in molti casi, dei mancati trasferimenti di fondi da parte della Regione siciliana. Da qui il gioco delle parti: la Regione che non eroga il dovuto ai Comuni dell’Isola (visto che subisce silenziosamente i tagli di Roma, in buona parte illegittimi, ma avallati, per ragioni di partito, dal presidente della Regione, Rosario Crocetta) e, in cambio, dà la possibilità agli stessi Comuni di continuare a nascondere, per un altro anno, i ‘buchi’ delle società controllate dai Comuni o collegate agli stessi Comuni.    
Palermo, sotto questo punto di vista, fa scuola. A giudicare da quello che scrive la vice presidente del
Nadia Spallitta
Nadia Spallitta
Consiglio comunale, Nadia Spallitta, i bilanci delle società collegate non sarebbero “trasparenti”. E’ il caso dell’Amia, la società che si occupava della raccolta dei rifiuti e che è fallita. O della Gesip, società i cui dipendenti sono confluiti in altre società. O della Rap, la società che ha preso il posto dell’Amia, che costa oltre 120 milioni di euro all’anno e che, però, non riesce a tenere pulita la città.
Palermo panoramica
Panoramica di Palermo
L’elenco continua con la Gesap, la società che gestisce i servizi a terra presso l’aeroporto di Palermo Falcone-Borsellino (già Punta Raisi). Di tale società aeroportuale il Comune detiene il 30 per cento circa delle azioni. La partita sulla Gesap è importante. In questo momento è in corso una guerra con il Comune che difende la gestione pubblica e alcuni ‘pirati’ che vorrebbero privatizzarla a costi irrisori. E va dato atto all’attuale presidente della società, Fabio Giambrone, di aver rimesso in carreggiata la società.
Il centrodestra - che ha controllato tale società per lunghi anni - aveva aumentato i costi in modo clientelare (leggere consulenze esterne). Con l’obiettivo di vendere la società per pochi ‘spiccioli’. Operazione sventata dall’amministrazione comunale di Leoluca Orlando che, con il 30 per cento circa delle azioni (gli altri soci sono la Provincia di Palermo commissariata dalla Regione con circa il 40 per cento delle azioni; la Camera di Commercio con il 20 per cento circa delle azioni e poi piccole partecipazioni di altri Comuni e di privati), esprime il presidente con il già citato Giambrone.
Tra le altre società del Comune di Palermo delle quali non si conoscono i conti c’è la Reset. Quindi la fondazione Teatro Massimo e l’associazione del Teatro Biondo Stabile.     
Nella relazione dei revisori dei conti del Comune di Palermo si affrontano altri temi. Per esempio la pressione fiscale a carico dei cittadini palermitani. Che nel triennio 2012-2014 è aumentata di 150 milioni di euro. E’ il gioco delle tre carte: a Roma il governo Renzi taglia i soldi ai Comuni per portarli alla Germania della signora Merkel. Il costo di questi mancati trasferimenti dello Stato è a carico dei cittadini con l’aumento di tasse e imposte comunali.
A Palermo il dato è doppiamente negativo. Questo perché, all’aumento della pressione fiscale di 150 milioni di euro, si registra una riduzione degli investimento di circa 100 milioni di euro. Ciò significa che i palermitani pagano più tasse per retribuire personale che, nella stragrande maggioranza dei casi, fornisce alla città servizi pessimi (è il caso della mancata raccolta dell’immondizia).   
Interessante anche la truffa sui debiti fuori bilancio. Che passano da 15 a 32 milioni di euro. Con un’incidenza sulle entrate che, dall’1,8%, passa al 4,4%. Di questi 32 milioni di euro, 29 milioni derivano da sentenze esecutive di condanna dell’amministrazione, 1,5 milioni per procedure espropriative erronee e circa 1 milione per acquisizione di beni e servizi senza impegno di spesa.
L’uso improprio dei debiti fuori bilancio nei Comuni è stato stigmatizzato anche dalla Corte dei Conti. In pratica, con tale metodo, si pagano ‘errori’ e fornitori improbabili (senza impegno di spesa, per l’appunto) con scarsi controlli. Con il dubbio, tutt’altro che campato in aria, che i debiti fuori bilancio servano per finanziare la politica.
Non mancano altri dati preoccupanti segnalati sempre da Nadia Spallitta: l’incidenza delle entrate tributarie sulle entrate comunali pari all’88,38% (in pratica, il Comune di Palermo vie ormai grazie alle tasse e alle imposte dei cittadini); una pressione delle entrate pro capite pari a 813 euro nel 2014 (era pari a 599 euro nel 2012); un aumento della pressione tributaria pro capite che, dai 514 euro del 2012, passa ai 718 euro del 2014 (complessivamente 337 milioni nel 2012 e 487 milioni nel 2014); quindi un aumento dell’indebitamento pro capite, che passa da 421 a 452 euro. Fine dei dati negativi? Nemmeno per sogno. “Si riduce la propensione all’investimento dal 18,33% del 2012 all'8,6% del 2014 - scrive sempre Nadia Spallitta -. Si riducono notevolmente gli investimenti pro capite, da 250 a 95 euro (complessivamente si è passati dai 163 milioni del 2012, cifra peraltro già irrisoria, ai 64 milioni di euro del 2014); si riducono i trasferimenti in conto capitale pro capite arrivando a 7,7 euro (rispetto ai 200 del 2012)”. Questo significa che al Comune di Palermo i soldi che dovrebbero servire per gli investimenti vengono utilizzati per pagare il personale del Comune e delle società partecipate. Per ogni dipendente, il costo per il Comune di Palermo si attesta intorno a 50 mila euro all’anno (in media).
“Allarmante appare il valore del contenzioso - scrive sempre Nadia Spallitta - pari a circa 500 milioni di euro (260 milioni attivo e 247 passivo), in relazione al quale non si ha modo di prevedere la vittoria o la soccombenza. Si tratta comunque di un dato che denota sicuramente dei vizi nei procedimenti amministrativi che determinano azioni legali per un valore complessivo pari a più di un terzo dell’intero bilancio. I revisori rilevano inoltre che è stata accolta l’opposizione del Comune avverso al fallimento Amia con diritto alla restituzione di immobili già trasferiti all’Amia per un valore di 80 milioni di euro”.
I revisori sottolineano anche una lentezza nella capacità di riscossione del Comune. “Rispetto ad una previsione di 11 milioni di euro e un accertamento di 9 milioni di euro in materia di recupero per evasione Tarsu, Tia e Tasi - scrive sempre la vice presidente del Consiglio comunale di Palermo - nessun importo è stato poi riscosso nell’esercizio 2014 e in generale è stato effettuato un accertamento di evasione fiscale per 22 milioni di euro, mentre la riscossione ammonta a soli 4 milioni. Questo ha determinato anche una riduzione dell’avanzo di competenza, che da 77 milioni del 2012 passa a 17 milioni del 2014”. Questo dato è importante perché, con molta probabilità, segnala la presenza di un impoverimento complessivo dei palermitani, con famiglie che debbono scegliere: o mangiare, o pagare le tasse al Comune. La dimostrazione che l’idea di far pagare ai cittadini i tagli del governo nazionale - che poi è la politica del governo Renzi - funziona fino a un certo punto: quando si va oltre un certo limite (che a Palermo, in moti casi, è stato superato), molte famiglie e molte imprese non ce la fanno più e non pagano.   
“Con riferimento ai servizi a domanda individuale - scrive sempre Nadia Spallitta - si registra un saldo negativo di 16 milioni di euro (entrate 4 milioni, costi 20 milioni) con una copertura del 20% circa. Nonostante l’incremento turistico dichiarato dagli organismi del settore, per gli spazi espositivi e i musei, a fronte di costi per 3,6 milioni di euro, i proventi sono davvero esigui: 100 mila euro”. Traduzione: il Comune di Palermo è bravo a tartassare di tasse i cittadini, ma è incapace di gestire i propri musei e i propri spazi espositivi.  
Altro giro, altra corsa: le contravvenzioni, che ormai sono diventate un mezzo mediante il quale il Comune di Palermo tartassa i cittadini. “Per le infrazioni al Codice della strada nel 2012 - dice sempre la vice presidente del Consiglio comunale - le entrate erano di 500 mila euro, mentre oggi si è passati a quasi 5 milioni di euro”. La dimostrazione matematica che, a Palermo vigili urbani, ausiliari del traffico e controlli automatici della velocità vanno a ruota libera.
Dalle multe alle sanatorie edilizie. Lì il Comune di Palermo ci va cauto: “Nonostante pendano circa 60 mila istanze di sanatoria edilizia - scrive sempre Nadia Spallitta - i contributi derivanti sono accertati in 1 milione di euro (di fronte a una stima approssimativa di 60 milioni di euro recuperabili). Si riduce il costo dell’utilizzo di beni di terzi da 14 a 9 milioni, così come il costo del personale pro capite che passa da 410 a 357 euro”.
La relazione dei revisori si conclude con numerose osservazioni, soprattutto in relazione agli organismi partecipati e alla già citata mancata produzione dei documenti necessari per fotografare la situazione delle società partecipate alla data del 31 dicembre 2014, “rendendo difficoltoso avere un quadro organico, esaustivo e completo dell’effettiva situazione finanziaria e contabile dello stesso Comune”. I revisori invitano il Comune di Palermo “ad un’azione che in modo radicale muti l’approccio culturale, ancor prima che tecnico, verso il sistema delle partecipate”. E osservano “altresì che non è stato adottato un bilancio consolidato, necessario invece per una visione unitaria della situazione economico-finanziaria dell’ente e per un adeguato controllo di gestione che, per tanto, allo Stato appare inefficace”.
Sulla relazione dei revisori dei conti interviene il capogruppo del PD a palazzo delle Aquile, Rosario Filoramo: "Il Comune - dice - tassa pesantemente i suoi cittadini, paga stipendi, ma non sa o almeno non comunica adeguatamente come eroga i servizi ai cittadini, quanto costano a livello unitario e quali obiettivi vengono raggiunti. Questo il giudizio più tagliente della relazione dei revisori dei conti al rendiconto di gestione 2014. Si tratta di una sonora bocciatura sul piano tecnico e su quello politico. Il rendiconto di gestione - conclude Filoramo - fotografa una situazione che non cambia rispetto a quella del 2013 e una gestione che resta ancorata al modello del secolo scorso. I cittadini pagano profumatamente in cambio di pessimi servizi".  
Concludendo, il prossimo anno, con il controllo analogo, al Comune di Palermo ci sarà da ridere…

lunedì 8 ottobre 2012

Confindustria, ecco i conti segreti. - Gaia Scacciavillani


I CONTI SEGRETI DI CONFINDUSTRIA

Ilfattoquotidiano.it è entrato in possesso del bilancio che il sindacato padronale tradizionalmente non pubblica. E ha scoperto che mancano all'appello l'8% delle quote associative, con un tasso di morosità dei soci cresciuto in un anno del 57%. Mentre le perdite di tre controllate su sei erodono il patrimonio.

Confindustria predica bene, ma razzola maluccio. Gli scarni dati sulla confederazione trapelati a fatica sulla stampa e il riservatissimo bilancio dell’associazione alla guida del mostro a 262 teste che costituisce l’intera struttura, che ilFattoquotidiano.it ha potuto visionare, parlano chiaro. E contraddicono in molti punti battaglie e affermazioni di ieri e di oggi della lobby degli imprenditori italiani. Che non a caso nell’ultimo anno ha perso parecchi pezzi, non solo la Fiat: il Lingotto voleva avere mano libera sui contratti dei metalmeccanici, ma ha parlato anche di eccessiva politicizzazione dell’associazione. Ci sono state anche le uscite delle Cartiere Paolo Pigna, dei Tessili di Prato, della Giordano Riello e di Nero Giardini, per citare solo alcuni esempi.
PIU’ TASSE E MENO AIUTI. “Stiamo morendo di tasse”, è stato il grido disperato lanciato sabato 29 settembre dal presidente Giorgio Squinzi che pochi giorni dopo è tornato alla carica sulla questione del carico fiscale sul lavoro. “L’obiettivo di ridurre il costo del lavoro è una delle cose in cui dobbiamo intervenire, anche per dare un segnale. E, visto anche il modesto ammontare degli incentivi, per le imprese non è un problema rinunciarci”, ha detto Mr Vinavil da Bruxelles il 2 ottobre.
Chissà se negli incentivi è implicitamente inclusa anche la quarantina di milioni annui che secondo L’Espresso arrivano complessivamente alla confederazione dalle aziende di Stato associate, che come tutti i soci (secondo i dati ufficiali 149.288 per un totale di 5.516.975 occupati) versano ogni anno al sistema Confindustria una quota contributiva parametrata sul numero e il salario dei dipendenti per potere, come gli altri, “appoggiarsi ad un organismo che rappresenta gli interessi del sistema produttivo locale nei confronti di istituzioni, forze politiche e sociali, enti economici ed organi di informazione”, come recita la reclame di una delle associazioni territoriali.
Prima fra tutte Eni, che sulla designazione di Squinzi alla guida degli industriali, per ammissione dello stesso amministratore delegato del gruppo petrolifero, Paolo Scaroni, ha avuto un ruolo “decisivo”. Ma anche l’Enel, le Poste, le FerrovieFinmeccanica e Terna tutte aziende densamente occupate che in pratica sborsano ogni anno svariati milioni per farsi rappresentare dall’associazione presso il loro azionista nelle sue svariate forme. Obiezione, potrebbe dire qualcuno, c’è anche la presenza all’estero! Peccato che lo Stato possieda una vasta gamma di enti che sostengono le imprese italiane oltreconfine a spese del contribuente: dall’Ice all’Enit passando per le sedi delle missioni all’estero delle Regioni fino alla rete delle Camere di Commercio che sono cofinanziate dal ministero dello Sviluppo economico. Ma tant’è. E forse non è un caso che nel 2011 ben 3,2 milioni di euro, l’8,2% dei 39,341 milioni di euro di contributi associativi che dalla periferia sarebbero dovuti arrivare nelle casse di Viale dell’Astronomia, non sono giunti a destinazione. Un costume che si va affermando sempre più negli anni: anche nel 2010 la quota destinata all’associazione centrale, che viene sottratta dai circa 500 milioni che vengono raccolti annualmente a livello territoriale, è arrivata a destinazione incompleta. Mancavano 2,066 milioni: nell’arco di un anno, quindi, il tasso di crescita della morosità dei soci è stato del 57,34 per cento.
I PAGAMENTI PUNTUALI. “Noi tutti abbiamo difficoltà, e in modo particolare chi è a contatto diretto con la pubblica amministrazione conosce sulla propria pelle una situazione indegna di un Paese civile in cui i ritardi dei pagamenti, nell’ordine dei 90 miliardi, non permettono una vita normale, un’azione equilibrata alle imprese”, ha tuonato Squinzi il 2 luglio scorso facendo sua una vecchia battaglia (sacrosanta, benché persa) del suo predecessore, Emma Marcegaglia. E ha aggiunto che “una pubblica amministrazione più efficiente è una pubblica amministrazione che paga i suoi debiti in tempi ragionevoli”.
Benché il tema sia calzante, bisognerebbe capire meglio cosa si intenda con tempi ragionevoli in Viale dell’Astronomia, dal momento che nel bilancio 2011 l’associazione ha iscritto debiti verso i fornitori per 1 milione di euro, mentre l’anno prima sotto la stessa voce c’erano 1,2 milioni. Sarà per questo che gli appelli al governo restano praticamente inascoltati?
LO SPREAD. “La fase più acuta della crisi sembra alle spalle: l’Italia non è al centro dei problemi del debito e la credibilità migliora come dimostra il calo dello spread, ma ancora non basta perché il livello resta comunque alto e sul lungo periodo non è sostenibile”, disse la Marcegaglia il 7 marzo scorso intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università Luiss Guido Carli. “Lo scenario è migliorato, ma ci sono ancora delle criticità”, concludeva.
Criticità anche qui condivisibili, ma di sicuro il miglioramento non era imputabile alla Confindustria, che tra gennaio e febbraio si è affrettata a ridurre drasticamente la sua esposizione sui titoli di Stato vendendo in anticipo 10 dei 18 milioni di euro di Btp che possedeva, la metà dei quali sarebbero scaduti naturalmente nove mesi dopo. Evidentemente in Confindustria ritenevano più sicuri dei titoli di Stato i bond del Monte dei Paschi di Siena, cioè la banca che sta facendo man bassa di aiuti pubblici e che, vista la drammatica situazione dei conti, avrà presto il Tesoro tra i suoi azionisti: l’investimento nelle obbligazioni di Rocca Salimbeni in scadenza a fine 2013 è di 9,9 milioni. Minore, sembrerebbe, la fiducia della Confindustria in Banca Intesa sui bond della quale ha puntato “solo” 3 milioni. Del resto la maggior parte degli investimenti dell’associazione sono fuori dal cosiddetto sistema: più della metà del totale, 27 milioni di euro, sono infatti stati usati per stipulare una polizza assicurativa con Chiara Vita, compagnia del gruppo svizzero Helvetia.
IL COSTO DELLE LOBBY. Del resto anche le lobby nel loro piccolo costano, ma sono in affanno. Sul fronte delle spese il 2011 registra 1,2 milioni per finanziare 12 mesi di stage presso “le diverse sedi del Sistema di rappresentanza” dei 100 giovani selezionati dal Progetto 100 giovani per 100 anni. Soldi che hanno prosciugato la Riserva Attività Istituzionali. Un milione e ottocentomila euro, poi, se ne sono andati in viaggi e trasferte. E un altro milione è stato utilizzato in attività di rappresentanza e missioni estere. Costi per la normale gestione dell’associazione che ha assistito nel 2011 ad un notevole ridimensionamento delle disponibilità bancarie (-11 milioni) a quota 4,6 milioni. Ma il peso maggiore, direbbe Squinzi, è quello del lavoro: gli stipendi del personale costano all’associazione 12,128 milioni al netto di oneri previdenziali e accantonamenti per il tfr, somma che per le 164 persone che lavorano in viale dell’Astronomia fa uno salario medio di 5700 euro. Ma non basta, ci sono anche i consulenti e i collaboratori, che l’anno scorso tra la crisi e la fine del mandato della Marcegaglia, sono costati 2,166 milioni.
E intanto il patrimonio dell’associazione si erode. Complici le perdite di tre controllate al 100% su sei, infatti, tra il 2010 e il 2011 il patrimonio della Confindustria è diminuito di 807mila euro. Peggio sarebbe andata, però, se la quota di controllo del Sole 24 Ore fosse stata valutata ai valori di Borsa. Il gruppo editoriale che pubblica il primo giornale di economia del Paese e non vede utili da diverso tempo (8,4 milioni il rosso 2011, perdita che è già stata replicata nella sola metà del 2012), è iscritto nel bilancio al valore di 1,47 euro per azione per un totale di 132 milioni di euro. Peccato però che in Borsa il titolo langua intorno ai 60 centesimi che, se utilizzati come valore di riferimento, toglierebbero alla partecipazione quasi 78 milioni di euro con ripercussioni dirette sul patrimonio dell’editore. Ma questo succede solo se si applicano i principi contabili internazionali che usano le società quotate in Borsa. Tuttavia, spiega il documento, sulla base dell’impairment test, un’analisi che verifica se le attività siano iscritte o meno ad un valore superiore rispetto a quello reale sia in termini di uso dell’asset che di eventuale cessione, Confindustria ha ritenuto di non dover procedere alla svalutazione. Intanto al Sole 24 Ore è attivo da mesi un contratto di solidarietà per tagliare il costo del lavoro dei 1874 dipendenti – che in parte è così passato a carico degli enti previdenziali – e le prospettive per il futuro del gruppo, che tra gennaio e giugno si è bruciato 10 milioni di patrimonio, non sono tra le più rosee.
Ma così Confindustria è riuscita ad archiviare il bilancio dello scorso anno con un risultato positivo della gestione operativa e finanziaria da 2,2 milioni di euro, che è stato prontamente utilizzato per rimpinguare gli accantonamenti al Fondo Rischi che serve “per consentire il proseguimento della ristrutturazione organizzativa” e la Riserva attività istituzionali che era stata prosciugata dal progetto 100 giovani per 100 anni. E il cerchio si chiude. Almeno finché le aziende di Stato continueranno a sborsare le quote e non decideranno magari che far lobby presso se stessi non è poi di così vitale importanza.