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lunedì 3 ottobre 2016

Alfano, indagine della Corte dei Conti sul fratello Alessandro assunto in Poste. - Marco Lillo e Valeria Pacelli



L’assunzione di Alessandro Alfano, fratello del ministro dell’Interno, nel gruppo Poste nel 2013 è al vaglio della Corte dei conti. La Procura di Roma ha infatti inviato ai magistrati contabili una relazione di sei pagine (ma con centinaia di pagine allegate) per mettere in fila tutte le tappe della carriera di Alfano jr, emerse dagli atti dell’inchiesta penale che vede indagato tra gli altri, l’uomo vicino al ministro dell’Interno, Raffaele Pizza, arrestato il 6 luglio.
In una delle conversazioni intercettate nel gennaio del 2015, Pizza si vantava con Davide Tedesco, collaboratore del ministro Alfano, di aver facilitato, grazie ai suoi rapporti con l’ex amministratore di Poste Massimo Sarmi, l’assunzione del fratello del ministro in una società del Gruppo, Postecom. Pizza diceva: “Lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170 mila euro e io gli ho fatto avere 160 mila. Tant’è che Sarmi stesso gliel’ha detto ad Angelino: ‘Io ho tolto 10 mila euro d’accordo con Lino’ (Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che l’ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170 mila”. Pochi mesi dopo quelle presunte lamentele, Alfano jr (laurea triennale a 34 anni in Economia) viene trasferito in un’altra società del gruppo – Poste Tributi – e lo stipendio supera i suoi desiderata: 180 mila euro lordi all’anno.
Quando la vicenda emerge sui giornali nel luglio del 2016 con gli arresti, Repubblica chiede a Sarmi se sapesse dell’assunzione del fratello del ministro. E lui risponde: “Secondo lei l’Ad di un gruppo da 150 mila persone può occuparsi anche delle assunzioni nelle controllate?”. Ora si scopre che la risposta giusta è sì, a sentire il capo del personale dell’epoca di Poste. Un tipo del quale Sarmi si fida perché lo ha portato con sé alla società Milano Serravalle, dove la Lombardia di Maroni (Ncd è in maggioranza) lo ha nominato amministratore nell’ottobre del 2014.
Al Fatto risulta che tra le carte più interessanti inviate alla Procura della Corte dei conti c’è proprio la testimonianza del febbraio scorso alla Guardia di finanza del capo delle risorse umane di allora di Poste, Claudio Picucci, che tira in ballo il suo capo. Picucci ha raccontato che il curriculum di Alessandro Alfano gli fu recapitato da Sarmi e ha aggiunto di ritenere che l’Ad sapesse che quello era il fratello del ministro. Una versione opposta a quella di Sarmi.
La Procura della Corte dei conti dovrà ora decidere se archiviare o chiedere conto ai manager del gruppo responsabili dell’assunzione. I pm ordinari non hanno indagato nessun manager ma hanno segnalato i fatti riscontrati ai colleghi della Corte perché verifichino l’esistenza di un eventuale illecito contabile, cioé di un danno erariale. Il nucleo valutario della Guardia di finanza guidato dal generale Giuseppe Bottillo, partendo dalla “confessione-outing” di Pizza al telefono con Tedesco, ha ricostruito l’iter che ha consentito al fratello del titolare del Viminale di essere assunto in Postecom, controllata al 100 per cento da Poste Italiane, dal settembre 2013 con uno stipendio di 160 mila euro l’anno.
Dopo il trasferimento con aumento a 180 mila Alfano jr è rientrato in Poste a maggio scorso. È stato proprio Francesco Caio, l’uomo scelto da Matteo Renzi per risanare le Poste, a vistare per l’occasione l’ennesimo aumento fino a 200 mila euro. L’amministratore di Postecom Vincenzo Pompa è oggi amministratore delegato di un’altra società del gruppo, Postel. Evidentemente Caio non trova nulla di male in quell’assunzione effettuata tre anni fa senza concorso. La legge 133 del 2008 all’articolo 18 dispone: “Le società a partecipazione pubblica totale o di controllo adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità”.
Poste si era data un modello per ottemperare a questa normativa ma Postecom, secondo gli investigatori, potrebbe avere saltato alcuni passaggi. La difesa di Poste Spa è quella accampata in casi simili anche dalla Rai: la legge prevede un’eccezione per le società pubbliche quotate in Borsa che possono fare le assunzioni come vogliono. Il punto è che Rai e Poste hanno emesso solo obbligazioni quotate e non sono mai state quotate a Piazza Affari in quanto società. Inoltre Postecom, come notano gli investigatori, ha assunto Alfano jr senza concorso anche se – a differenza della capogruppo – non ha emesso nessuna obbligazione quotata. Insomma la partita è aperta.

lunedì 1 febbraio 2016

La Cina investe in Poste Italiane: così Pechino si prepara a rilevare una quota tra il 2 e il 5%. Si chiuderà entro ottobre.

POSTE ITALIANE

Pechino si prepara ad entrare nel capitale di Poste Italiane in occasione dellIpo che dovrebbe prendere il via il prossimo 12 ottobre. Secondo il Sole 24ore c'è un fondo sovrano cinese pronto a rilevare una quota tra il 2 e il 5%. Si tratterebbe di China Investment Corporation oppure People’s Bank of China (presente quest’ultima nel capitale di molte società italiane, come Eni ed Enel), entrambi attratti dalla possibilità di prendere una quota della società dei recapiti. Intanto la prossima settimana a Milano ci sarà il vertice dei 34 maggiori Sovereign Funds mondiali insieme al Fondo strategico italiano.
Stando al Sole 24 ore la crisi cinese ha invogliato i fondi a investire all'estero
La motivazione del fondo cinese sarebbe più elevata rispetto all’apprezzamento manifestato da fondi sovrani di altri Paesi (arabi o nordeuropei) anche in considerazione della crisi che sta attraversando ora la Cina. L’esplosione della bolla speculativa sul mercato mobiliare locale sta spingendo i capitali cinesi fuori dai confini nazionali alla ricerca di rendimenti interessanti e di lungo periodo. Questa logica guida anche i fondi sovrani del paese. La liquidità da investire in questo momento è abbondante e gli investitori sono alla ricerca di asset affidabili e redditizi.
Sempre secondo il Sole, la Cina è attratta da Poste Italia perché è un asset stabile, solido e affidabile
La privatizzazione di Poste Italiane, con il suo valore simbolico anche in termini di capacità dell’Italia di mantenere gli impegni e di avviarsi verso una crescita stabile, costituisce – si legge su “Il Sole 24 ore” – uno degli obiettivi privilegiati sia per i fondi sovrani che per i fondi long term, soprattutto i grandi fondi pensione americani. Ma a una condizione: che la politica dei dividendi sia convincente. In quali termini? Deve avere quelle caratteristiche di sicurezza e redditività che, ad esempio, può esprimere un business regolato come il settore delle utility. Dunque, una cedola stabile e un dividend yield (ovvero il rapporto tra il dividendo per azione e il prezzo dell’azione) che sia nel range del 3-5 per cento. Poste Italiane alzerà il velo sulla remunerazione che intende garantire agli azionisti per il prossimo quinquennio nel prospetto informativo. Nelle prossime due settimane sarà serrato il confronto con l’azionista ministero dell’Economia per definire la politica dei dividendi.
 http://www.huffingtonpost.it/2015/09/27/cina-poste-italiane-fondo-investimento_n_8202440.html

martedì 15 aprile 2014

Poltrone di Stato, Renzi promuove Moretti e rimette in gioco Marcegaglia. - Fiorina Capozzi e Gaia Scacciavillani

Poltrone di Stato, Renzi promuove Moretti e rimette in gioco Marcegaglia
dejà vu e l’ondata di quote rosa, benché in ruoli rigorosamente non esecutivi, erano attesi. Ma chi si aspettava che Matteo Renzi si sarebbe limitato a rottamare i vecchi manager di Stato sostituendoli con nuove leve di sua fiducia, sarà rimasto spiazzato. Le liste dei candidati del governo dei sindaci per la guida delle più importanti aziende pubbliche italiane, infatti, sono solo il primo passo che apre al premier nuovi e più ampi orizzonti. Come il ricambio anticipato anche dei vertici di aziende che non avrebbero dovuto essere toccate da questa prima tornata, dando il via a un effetto domino che nel giro di poche settimane potrebbe cambiare buona parte dello scenario delle poltrone pubbliche, sfiorando anche la Rai.
Tutto parte da Mauro Moretti, il manager 61enne di recente balzato agli onori delle cronache per aver a priori rifiutato l’idea di un taglio di stipendio. A lui, dopo sette anni alle guida Ferrovie dove ha trascorso tutta la sua vita professionale, andrà l’incarico di amministratore delegato di Finmeccanica. Così l’ex sindacalista della Cgil si ritroverà a gestire la prima azienda della difesa del Paese, liberando una casella strategica ai vertici delle Fs che erano stati rinnovati appena lo scorso agosto dall’allora premier Enrico Letta. In più il manager delle Ferrovie rimette in gioco il suo stipendio come desiderava: se è infatti prevedibile che guadagnerà meno del suo predecessore in Finmeccanica (2,2 milioni di euro tra fisso e variabile), non sarà di sicuro inferiore a quello attuale nelle Ferrovie (circa 850mila euro l’anno). “Di Renzi mi fido”, aveva del resto dichiarato Moretti lo scorso 21 marzo dopo il botta e risposta con il premier che da Bruxelles annunciava il tetto agli stipendi dei manager pubblici. E in effetti è stata una fiducia ben riposta, visto che il manager sarà così abbondantemente ricompensato della guida del ministero dello Sviluppo economico che era sfumata in zona Cesarini anche per le polemiche suscitate per il suo ruolo di imputato al processo per la strage di Viareggio iniziato lo scorso autunno.
D’altro canto però Moretti, che sarà affiancato dal presidente Gianni De Gennaro (unica conferma delle vecchie nomine) e circondato da consiglieri come l’ex viceministro degli Esteri del governo Letta, Marta Dassù, il presidente del Consiglio nazionale forense Guido Alpa e l’avvocato Alessandro De Nicola, è un uomo ben noto alla sinistra che nel 2006, sotto il governo di Romano Prodi, gli aveva affidato l’incarico di risanare le Ferrovie. Così come lo è Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia, anche lui rinnnovato da Letta ad agosto. L’ex enfant prodige dell’Iri bacchettato dalla Corte dei conti un anno fa per il rosso dilagante nei conti del gruppo pubblico, è infatti in predicato per la successione di Moretti. Scelta che include un’altra reazione a catena che sarà confermata “nelle prossime ore, nei prossimi giorni. Non è un problema”, come ha detto il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Graziano Delrio.  Tempi stretti anche per il caso Rai che si apre con la candidatura alla presidenza delle Poste dell’ex imprenditrice delle costruzioni, Luisa Todini che è anche consigliere di amministrazione della tv di Stato. “So solo che non c’è incompatibilità, ma l’opportunità verrà valutata in tempi rapidi – ha del resto commentato lei stessa a caldo all‘Ansa – La mia esperienza mia ha insegnato che non si possono fare bene insieme troppe cose”. 
Per l’ex europarlamentare di Forza Italia la nomina pubblica è una piccola consolazione: l’imprenditrice è stata di recente è stata scaricata dall’amico Pietro Salini, che aveva salvato l’azienda della famiglia Todini nel 2009 inglobandola nel suo gruppo (oggi Salini-Impregilo) grazie al “grande supporto del sistema bancario, con particolare riferimento ai gruppi Intesa Sanpaolo e Bnl-Bnp Paribas, insieme a Unicredit e Mps”. Un anno dopo, nel 2010, l’allora premier Silvio Berlusconi l’avrebbe voluta per sostituire Claudio Scajola a capo del ministero dello Sviluppo economico oggi occupato da un’altra pupilla dell’ex Cavaliere, Federica Guidi.  Per la Todini, poi, l’incarico ai vertici delle Poste è un impegno in più che si aggiunge al lavoro del Comitato Leonardo, associazione che si propone di promuovere l’immagine dell’Italia come sistema Paese. Una sorta di rete di imprenditori che evidentemente non dispiace al premier Renzi.
Ma ha sicuramente pesato l’effetto sulle quote rosa, che hanno messo a dura prova il premier, il quale ha dovuto trovare la quadra tra le promesse e i ruoli operativi. E la scelta, che ha il merito innegabile di rimescolare le carte nella partita tra generi, è stata di mantenere gli impegni indicando per i consigli di Enel, Eni, Finmeccanica e Poste ben 11 donne. Tutte, però, con ruoli non operativi e, quindi, con stipendi nettamente inferiori rispetto ai colleghi maschi (“Per le indennità dei presidenti delle società” è fissato un tetto di 238mila euro annui, con una riduzione rispetto a “cifre in alcuni casi a molti zeri”, ha spiegato Renzi). Sarà il caso anche di Emma Marcegaglia, che si scalda per la presidenza dell’Eni, dove almeno potrà contare su consiglieri come l’economista Luigi Zingales, che Renzi ha indicato accanto all’ex presidente del Banco di Sicilia e vicepresidente di Alitalia in quanto patron del fondo Equinox, Salvatore Mancuso. Ma soprattutto su un operativo interno all’azienda, Claudio De Scalzi, già capo del settore esplorazione del Cane a sei zampe. Proprio lei che, dopo la discussa presidenza di Confindustria, anche nell’azienda di famiglia ha diverse gatte da pelare. Non ultimo il confronto con i sindacati sul tema della sicurezza del lavoro dopo che lo scorso 8 aprile, un dipendente, Lorenzo Petronici, ha perso la vita in un infortunio mortale. In seguito al quale i lavoratori del gruppo hanno ricordato come “dal 2000 ad oggi a Mantova, Casalmaggiore e Boltiere si sono verificati infortuni estremamente gravi e morti bianche all’interno delle fabbriche del Gruppo, segno che, verso la sicurezza, c’è una soglia di attenzione molto bassa, per non dire inefficace da parte dell’Azienda”. Senza contare i lifting fiscali per risparmiare le tasse rispettando la legge e la vecchia inchiesta per evasione che nel 2008 ha visto il fratello Antonio patteggiare 11 mesi di pena oltre alla restituzione di 6 milioni di euro allo Stato.
In attesa della conferma di Catia Bastioli per la presidenza del gestore della rete elettrica Terna che è di competenza della Cassa Depositi e Prestiti, l’elenco delle principali quote rosa si chiude poi con Maria Patrizia Grieco indicata dal governo per l’Enel. Di lei si può senz’altro dire che conosce bene i consigli di amministrazione. Anche quelli più insidiosi. Il suo nome figurava nella lista di Intesa San Paolo per il rinnovo del cda della Parmalat presentata a maggio 2011, poco prima del passaggio in mani francesi. Ed era due righe sotto a quello di Enrico Bondi. Ma la maggior parte della sua esperienza è in telecomunicazioni e informatica con un passaggio nel consiglio di amministrazione di Fiat Industrial fino all’integrazione del polo camion e macchine agricole in Cnh Industrial. Non sarà quindi facile passare da Olivetti (società del gruppo Telecom Italia con un fatturato da 265 milioni) a un colosso come l’Enel. Ma almeno sarà affiancata da un manager che conosce il gruppo come Francesco Starace, ingegnere nucleare già numero uno della controllata per le rinnovabili Enel Green Power, con trascorsi in gruppi energetici come General Electric, ABB e Alstom.
Altrettanto non può dire la collega Todini, che dovrà lavorare con Francesco Caio. Per l’ex Mister Agenda Digitale, che ha mollato l’incarico non appena è iniziato il totonomine governativo, Renzi ha infatti immaginato un futuro alla guida delle Poste – che in ballo hanno sia la quotazione in Borsa che il salvataggio dell’Alitalia siglato dal governo Letta -insieme ai consiglieri Roberto Rao deputato Udc fino al 2013 e al renziano Antonio Campo dall’Orto, già autore del rilancio di La7. Il manager, vicino all’ex ministro dello sviluppo economico Corrado Passera, forse anche per via di una breve esperienza nel consiglio della banca Nomura, non ha del resto brillato nel rapporto sullo stato della banda larga: nel dossier commsionato da Letta, Caio, con il supporto di altri due esperti internazionali e ben dodici saggi, si è limitato a diagnosticare un cronico ritardo e a consigliare l’uso di fondi europei per sviluppare le reti di nuova generazione. Magari con le più classiche spedizioni del servizio universale le cose andranno meglio.

venerdì 11 ottobre 2013

Alitalia sull’orlo della bancarotta: gli errori di compagnia e politica. - Andrea Giuricin

Alitalia sull’orlo della bancarotta: gli errori di compagnia e politica

Dalla “ripartenza” del Piano Fenice ad oggi ha accumulato perdite pari a 1138 milioni di euro. Nel 2008 era ripartita "alleggerita" dai debiti, ma negli anni successivi è stata affossata da errori di valutazione strategica combinati con nuove tasse legate all'aeroporto di Fiumicino. Senza contare le gravi responsabilità proprio dei "patrioti" azionisti.

Alitalia verso il salvataggio grazie a un nuovo intervento del capitale pubblico, con l’aumento di capitale finanziato in parte da Poste italiane. Come si è arrivati a questa situazione così critica? La compagnia ha accumulato perdite pari a 1138 milioni di euro dalla “ripartenza” del Piano Fenice ad oggi. La situazione è andata peggiorando negli ultimi due anni, dato che in soli 18 mesi il vettore ha perso quasi 600 milioni di euro. Vi sono forti responsabilità della compagnia? Vi sono responsabilità della politica? A entrambe le domande la risposta è univoca: si. La compagnia aerea è nata con un Piano di sviluppo sbagliato. Troppo concentrata sul mercato domestico e troppo poco sul mercato intercontinentale. Il mercato nazionale è quello maggiormente concorrenziale e aggredibile, mentre quello a lungo raggio rimane in una sorta di oligopolio e d possibile fare i margini maggiori. Lo sapeva la compagnia? Si, lo sapeva.
Perché non ha fatto nulla? Alitalia si aspettava un regalo da parte della politica e questo è arrivato. Il blocco dell’Antitrust per tre anni ha di fatto limitato la concorrenza sul mercato nazionale. Ma non abbastanza. La crescita di Ryanair ed Easyjet e dell’alta velocità hanno minato il piano Fenice. Alitalia inoltre nasceva con l’acquisto degli aerei a corto raggio da parte di Airone e con quegli aerei il management doveva fare il suo piano di sviluppo. Peccato che il vettore avrebbe fatto meglio a concentrarsi sul mercato a lungo raggio, ma ormai non c’erano i soldi. La politica ha inoltre liberato la vecchia “Alitalia” dei debiti, così che Cai potesse partire alleggerita dal peso lasciato ai contribuenti italiani. Ma la politica poi non è stata così perspicace in altri momenti. Nel dicembre 2012, come ultimo atto del Governo Monti, è stato approvato l’aumento delle tasse dell’aeroporto di Fiumicino per circa 11 euro a passeggero per i voli a lungo raggio e 8 euro per quelli a corto raggio.
Alitalia, che stava sviluppando una rete di voli a lungo raggio da Fiumicino si è trovata con 120 milioni di euro l’anno da pagare in nuove tasse. Un aumento che affonda definitivamente le ali della compagnia. La politica regionale ha fatto qualcosa? Certo. Per salvare il buco della “sanità” laziale, la Regione Lazio ha deciso di introdurre l’Iresa, una tassa sull’inquinamento sonoro degli aeroporti che costa ad Alitalia almeno 20 milioni di euro l’anno. Anche in questo caso, l’intelligenza politica ha deciso di tassare maggiormente i voli a lungo raggio. Veniamo agli azionisti. Hanno gravi responsabilità. La mancanza di aumenti di capitale nell’ultimo anno non ha permesso alla compagnia di fare piani di sviluppo, ma solo piani di sopravvivenza. Ora gli azionisti italiani vorrebbero uscire dalla partita. Forse troppo tardi, perché AirFrance-KLM socio al 25 per cento della nuova compagnia ha interesse ad acquistarsi Alitalia a costo zero. Ma quello è il valore dell’azienda indebitata e con 1.138 milioni di euro di perdite in quattro anni e mezzo. L’arrivo del socio pubblico è appoggiato dagli azionisti italiani che vorrebbero forse avere qualcosa dalla vendite delle azioni. Certo, significherà ancora una volta girare ai contribuenti le perdite di Alitalia.
Leggi anche:
Alitalia è salva e italiana. (A spese del contribuente)
Ne è valsa la pena? Lo sapremo tra cinque anni... Giovanni Martino
      
Il salvataggio di Alitalia è – a nostro avviso - una buona notizia. Che però suscita una serie di importanti interrogativi. Come si è potuti giungere sull’orlo del fallimento? Di chi le responsabilità del disastro? La soluzione scelta per il salvataggio è la migliore? Quanto è costata al contribuente italiano? Può considerarsi una soluzione definitiva? Quali ricadute avrà la vicenda Alitalia sul sistema industriale italiano?

Le cause della crisi
Il maggior azionista di Alitalia era il Tesoro (quindi si trattava di una compagnia pubblica), per cui i suoi debiti sono sempre stati ripianati con fondi dell'erario, cioè con maggiori tasse (o minori servizî erogati agli Italiani). Da quando è stata quotata in borsa, la compagnia ci è costata (tra ricapitalizzazioni e debiti ripianati) circa 13 miliardi di euro, di cui 5 miliardi negli ultimi 10 anni!
Qualcuno potrebbe pensare: “Beh, le tasse dovranno essere pur spese per i servizî pubblici, e i trasporti aerei sono un servizio pubblico importante”. Sbagliato.
Il trasporto aereo è un servizio importante, ma non è un servizio pubblico. I “beni pubblici” sono un categoria rigorosamente delimitata, individuabile solo nei casi in cui non è misurabile l'uso del bene.
Il trasporto aereo è un servizio che può agevolmente essere venduto a chi ne usufruisce. E un bene importante, certo, ma ci sembra difficile sostenere che si tratti di un bene da incentivare, come l’istruzione obbligatoria o l’assistenza sanitaria essenziale... Che questo servizio possa essere offerto da un’azienda sana, semplicemente vendendo il prodotto offerto, lo dimostrano del resto tutte le altre compagnie aeree, le quali non hanno maturato il passivo di Alitalia (o, quando lo hanno maturato per una gestione inefficiente, sono fallite: Pan Am, TWA, Swissair, Sabena).
La verità, dunque, è che il passivo (enorme) di Alitalia è maturato semplicemente per un eccesso di sprechi.
La lista delle spese folli l’abbiamo letta a più riprese sui giornali negli ultimi mesi.
Stipendi (soprattutto del personale di volo) certamente non miseri. Secondo i dati riservati dell'Aea (l'Associazione delle compagnie aeree europee) – Alitalia e i sindacati si rifiutano di fornire i dati! - nel 2006 i piloti hanno avuto uno stipendio complessivo medio di 121mila euro, al lordo delle tasse ma al netto delle indennità, che incidono molto sul reddito finale (si pensi solo alla cosiddetta “indennità lettino” per la monetizzazione del riposo non goduto, che pare sia stata abolita nel 2005, e che poteva arrivare a 1.800 euro al mese). Gli assistenti di volo (hostess e steward) prendono oltre 48mila euro, sempre al lordo delle tasse e al netto delle indennità.
Benefit immotivati come l’auto-pullmino aziendale con autista che andava a prendere e riaccompagnava a casa il personale di volo; distacchi sindacali che comportavano un costo dieci volte tanto quello delle altre compagnie; alberghi cinque stelle per il personale in trasferta anche in Italia; sedi di rappresentanza aperte in Paesi (come il Messico) in cui Alitalia non era più operante.
Si aggiunga la cattiva gestione del personale, cui ha contribuito il potere di cogestione (assunzioni, promozioni) riconosciuto ai sindacati, soprattutto ai potenti sindacati di piloti e assistenti di volo.
Negli ultimi anni, peraltro, si era creata un'odiosa separazione tra personale di serie A (personale di volo e personale di terra con vecchi contratti, molto vantaggiosi) e di serie B (personale di terra neoassunto, con contratti - a parità di mansioni - molto più sfavorevoli e spesso precario).
Ma l’elemento più importante è stato la produttività bassissima: orario di lavoro effettivo medio di 40 ore al mese (sì, avete letto bene: non alla settimana, ma al mese), di molto inferiore a quello della concorrenza (circa la metà), con situazioni paradossali per il personale di volo impegnato in voli che partivano da aeroporti diversi dalla città di residenza. Ad esempio, i membri di un equipaggio di Roma che dovevano effettuare un volo A/R da Malpensa ad un Paese estero timbravano al mattino il cartellino a Fiumicino, ed iniziavano quindi a risultare in servizio; dopodiché prendevano un volo per Milano come passeggeri; arrivavano a Milano, soggiornavano e pernottavano – sempre a spese di Alitalia – per garantirsi il necessario riposo; il giorno dopo si trasferivano a Malpensa per effettuare l’andata del volo che costituiva la loro produttività effettiva; arrivo nella destinazione estera, pernottamento, viaggio di ritorno, e nuovo pernottamento a Milano; il giorno successivo, infine, nuovo viaggio come semplici passeggeri in un volo che li riportava a Roma, e – finalmente – timbratura di fine servizio a Fiumicino. Prima di riprendere servizio, fruivano di tre giorni di interruzione del lavoro tra festività riposo... Insomma: retribuiti per effettuare, in una settimana (di cui quattro giorni considerati come lavorativi a tempo pieno con indennità di trasferta, ecc.) un solo viaggio internazionale!
Consideriamo questi sprechi inaccettabili non in nome di un facile pauperismo, o del disconoscimento della professionalità degli addetti; ma semplicemente perché si tratta di sprechi coperti anche col denaro pubblico. Al confronto, sono moralmente molto più rispettabili gli ingaggi milionarî dei calciatori.
Per questo motivo, sono state davvero stucchevoli le proteste di piloti e assistenti di volo che definivano “mortificante” il nuovo contratto proposto da CAI (Compagnia Aerea Italiana, la cordata di imprenditori italiani sollecitati da Berlusconi a presentare un’offerta e che hanno infine acquistato le attività di Alitalia). Alcune frange si illudevano che il vecchio andazzo potesse continuare, che ci fossero ancora i margini per chiedere allo Stato nuovi interventi economici. Va dato atto al Governo di aver tenuto il punto, chiarendo che un’epoca, quella delle partecipazioni statali (Alfa Romeo-AlfaSud, Motta, Cirio, Banco di Napoli, ecc.) e degli sprechi di denaro pubblico, è definitivamente tramontata.
L’altro spreco era costituito dagli esuberi di personale. Un solo esempio al riguardo: l’attività di trasporto cargo aveva 180 piloti per 5 aerei !!! In totale, gli esuberi di Alitalia sono stati calcolati in circa 3.000 persone (che salgono a 7.000 calcolando nel totale precedente i dipendenti AirOne – che confluisce nella nuova compagnia -, i precarî, i dipendenti dei servizî esternalizzati).
Possiamo considerare uno “spreco” dar lavoro a migliaia di famiglie? In astratto no. Lo Stato deve cercare di creare le condizioni economiche perché tutti possano lavorare. Ma non lo deve fare assumendo direttamente. La via da percorrere è quella di favorire il lavoro ‘vero’, produttivo; non l’assistenzialismo mascherato, che distoglie risorse dalla crescita economica del Paese.
E però: quando la “frittata” è fatta, quando i lavoratori in eccesso sono stati assunti, si possono mandare “in mezzo a una strada”? Le “ristrutturazioni” aziendali non sono un meccanismo crudele?
Attenzione: la crescita economica delle società si basa proprio sull’aumento di produttività del lavoro, che rende necessario un minor numero di lavoratori per produrre gli stessi beni del passato, e libera nuove energie in nuove produzioni (altrimenti avremmo ancora i fabbricanti di ghette per scarpe...).
Certo, poche decine di esuberi sarebbero facilmente assorbibili dal mercato del lavoro; migliaia no, o almeno non subito. È per questo che è stato utile l’impegno diretto degli ultimi Governi nel trovare una soluzione di salvataggio che non rendesse gli esuberi un problema di dimensioni tragiche; ed è per questo che esistono gli ammortizzatori sociali. (Anche se va detto che sette anni di “disoccupazione” retribuita, garantiti ai lavoratori che non verranno riassunti nella nuova Alitalia, sembrano un favoritismo inspiegabile rispetto ad altri lavoratori. Prima quelle persone torneranno a lavorare, prima daranno il loro contributo alla crescita economica.)
Inoltre, sarà importante un impegno delle istituzioni per favorire la formazione e il ricollocamente del personale in cassa integrazione, anche mediante l'incentivazione di nuovi distretti produttivi nelle zone di residenza della maggior parte dei lavoratori che hanno perso il posto.
Infine, tra le principali fonti di spreco dobbiamo evidenziare le strategie industriali sbagliate. In particolare, il tentativo di fare di Malpensa un “hub”, ossia uno snodo di scambio tra voli a lungo raggio (intercontinentali) e voli a medio e corto raggio cosiddetti “di federaggio” (che devono far affluire i passeggeri per i voli intercontinentali). Ebbene, Alitalia (e l’Italia) non ha un traffico aereo sufficiente per poter sostenere due hub(Malpensa e Fiumicino). Malpensa, in particolare, è assolutamente inadeguata allo scopo: lontana da Milano (si trova in provincia di Varese) e mal collegata; troppo “vicina”, in termini di concorrenza, rispetto ad un grandissimo aeroporto internazionale come Francoforte; soggetta anche alla spietata concorrenza locale fatta da molti aeroporti spuntati come funghi nel Nord Italia.
Scommettere su Malpensa ha significato le spese di spostamento del personale che abbiamo ricordato in precedenza. Senza il gradimento del mercato: la stessa Alitalia aveva quantificato in 200 milioni il buco prodotto annualmente da Malpensa.

Di chi le responsabilità del disastro?
Alitalia non è stata un’eccezione, ma una delle ultime espressioni di un sistema-Italia basato sullo sfruttamento di risorse pubbliche mediante l’indebitamento. Un sistema divenuto insostenibile, cui hanno però partecipato – indistintamente – tutte le forze sociali e politiche.
sindacati, innanzitutto. Lo hanno candidamente ammesso in questi mesi.
La loro responsabilità non è stata solo quella di aver contribuito alla cattiva gestione, ma anche quella di aver rifiutato quasi sino all’ultimo le proposte di rilancio della compagnia.
Lo scorso anno, i potenziali acquirenti del bando per la privatizzazione indetto dal governo Prodi (Air France, Airflot, Lufthansa, AirOne, una cordata americana) erano frenati soprattutto dalla difficoltà delle relazioni con i sindacati. Anche al ritiro di Air France, che era restato l’unico acquirente ammesso dal governo Prodi alla trattativa privata, contribuì in maniera rilevante l’ostilità sindacale, oltre che quella annunciata da Berlusconi.
Che l’offerta CAI di questi mesi fosse l’ultima spiaggia (visto che il tempo per cercare alternative era agli sgoccioli) era stato compreso da Cisl e Uil, ma non ancora dalla Cgil, che ha rischiato di arrivare alla rottura solo per ottenere qualche consenso in più e per favorire una (ormai impossibile) soluzione diversa da quella promossa dall’avverso governo Berlusconi.
In secondo luogo, le responsabilità del disastro investono i partiti politici. Di tutti i colori.
Il primo governo Prodi, nel 1998, inaugura Malpensa (col bel risultato che conosciamo). Nel 2001, al termine dell’esperienza del centrosinistra, il risultato operativo della compagnia era negativo per 266 milioni di euro l’anno.
Negli anni successivi (secondo e terzo governo Berlusconi) le cose sono anche peggiorate: 465 milioni di perdite nel 2006.
Colpa dell’ascesa delle compagnie low cost, certo; ma anche dell’incapacità dell’azienda di adattare le proprie strategie al nuovo scenario. La Lega Nord, con la sua strenua difesa di Malpensa, e l’imposizione dei suoi uomini al vertice della compagnia (Giuseppe Bonomi, presidente dal 2003 al 2004), ha dato il suo bel contributo alla causa.
Nel 2006 torna al governo la sinistra, ma le cose non cambiano. Si decide – giustamente – di privatizzare e vendere l’azienda. Ma non si fa nulla per rassicurare i potenziali acquirenti rispetto alle proteste dei sindacati; i quali “tenevano duro”, perché sapevano che il Governo non avrebbe avuto il coraggio di dire no a ulteriori rifinanziamenti. La posizione di rigore sostenuta da Prodi e Padoa Schioppa, infatti, era isolata rispetto alle pressioni esercitate dai partiti della coalizione.
E si arriva ai giorni nostri. Veltroni prima incoraggia la resistenza della Cgil. Poi, quando si accorge di essere restato col cerino in mano e di non potersi assumere – con Epifani – la responsabilità del fallimento, inverte precipitosamente la rotta e inventa la sceneggiata dell’incontro di mediazione a casa sua. Il presidente della CAI Colaninno, che è amico della sinistra e padre di un “ministro” del “Governo ombra” di Veltroni, non nega a Veltroni il favore di prestarsi alla sceneggiata, anche per offrire ad Epifani una resa onorevole. Ma lo stesso Colaninno, quando al Tg1 ringrazia tutti i protagonisti che hanno contribuito alla felice conclusione della vicenda, non cita Veltroni.
(Su Di Pietro stendiamo un velo: giudicò umiliante l’offerta di Air France, e oggi la rimpiange...)
Quanto a Berlusconi, abbiamo detto delle responsabilità per il periodo 2001-06. Oggi ha dimostrato che la cordata italiana non era una boutade. Ma se il piano che ha imposto sia veramente il migliore lo potremo sapere solo nel prossimo futuro, come stiamo per spiegare nel seguito dell’articolo.
Infine, non sono da meno le responsabilità degli amministratori succedutisi nel tempo. Che hanno presentato bellissimi piani industriali, senza avere il coraggio di attuarli e di resistere alle pressioni politiche e sindacali. Questi amministratori non hanno neanche trascurato di concedersi lucrose liquidazioni al termine della loro esperienza: Gianfranco Cimoli 3 milioni di euro (!) per tre anni di lavoro.

La soluzione scelta per il salvataggio è la migliore?
Innanzitutto, bisogna apprezzare l’elemento essenziale: si tratta di una privatizzazione, cioè la soluzione che restituisce ad Alitalia la sua dimensione naturale di società che produce servizî per il mercato.
Alcuni avevano proposto la soluzione del fallimento, secondo un principio di rigoroso rispetto delle regole liberiste: chi sbaglia paga, e ciò costituisce un monito per la correttezza degli altri operatori economici. Con la vendita degli slot (diritti di atterraggio negli aeroporti) e degli aerei sarebbe stato ripianato gran parte del debito. Ma si tratta di una posizione astratta e integralista, che non tiene conto di come lo stesso obiettivo – il corretto impiego delle risorse – possa essere perseguito anche con mezzi più morbidi, che evitino conflitti sociali insanabili (20.000 persone senza lavoro) e la dispersione di un patrimonio industriale che può ancora essere validamente impiegato. Del resto, proprio un'astratta intransigenza impedì all'amministrazione USA di intervenire in tempo per frenare la crisi del 1929.
(Si tenga presente che tra i fautori del fallimento non possono essere annoverati quei dipendenti Alitalia che applaudirono il momentaneo ritiro dell’offerta da parte della CAI: la loro invocazione del fallimento era puramente strumentale, un modo di alzare la posta della trattativa e ottenere l’intervento pubblico.)
L’acquisto da parte della CAI è la forma di privatizzazione migliore che era possibile ottenere?
La proposta presentata da Air France nella primavera del 2008 aveva un valore complessivo di 2,5 miliardi di euro. La compagnia francese si sarebbe accollata debiti e obbligazioni di Alitalia, ed avrebbe anche versato 300 milioni di euro per le azioni.
Altre offerte simili (o forse ancora più convenienti) sarebbero potute arrivare se, anziché il metodo della trattativa privata, fosse stato seguito quello dell'asta competitiva, offrendo ai potenziali acquirenti garanzie su ammortizzatori sociali e chiarendo ai sindacati che non c'era più nessuna possibilità di finanziamenti pubblici.
L’acquisto da parte di CAI, invece, è molto meno conveniente per lo Stato. Alitalia viene scissa in due: una bad company che si accolla tutti  debiti e che resta di proprietà pubblica; e una good company – quella acquistata da CAI - nella quale vengono conferite tutte le risorse della vecchia compagnia. Il costo per CAI è stato solo di 1 miliardo di euro: 400 milioni al commissario liquidatore per acquistare i beni e rimborsare in piccola parte i creditori, 300 milioni a Toto, per i beni di AirOne, e 300 milioni di capitalizzazione (di questi soldi, già 250 ne rientreranno con l'ingresso quale socio di minoranza di Air France).
In definitiva, il costo complessivo della manovra finanziaria di salvataggio dell’Alitalia (un costo ulteriore rispetto a quelli storici che abbiamo inizialmente evidenziato), secondo le stime elaborate da KRLS Network of Business Ethics e dallo Sportello del contribuente e diffuse il 27 settembre, tenuto conto anche del prestito ponte di 300 milioni di euro (necessario per prendere tempo da aprile ad oggi), dei mancati introiti dell’offerta iniziale di Air France e dei debiti di AirOne (accollati alla bad company), non è inferiore a 3,1 miliardi di euro (un esborso straordinario di 172 euro per ogni italiano)!
Senza contare i 2 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali.
A questi costi palesi se ne aggiungono altri indiretti: quelli sostenuti dagli utenti-consumatori delle nuova compagnia, che per un certo periodo di tempo pagheranno biglietti più alti della norma a causa della mancanza di concorrenza.
La fusione di Alitalia e AirOne, infatti, crea una situazione di quasi monopolio nella rotta più affollata e più redditizia, quella Roma-Milano. Il decreto governativo salva-Alitalia ha espressamente stabilito una deroga di tre anni al rispetto delle regole sulla concorrenza. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha già giudicato questo periodo immotivatamente lungo, chiedendo che sia ridotto a sei mesi.
Infine, i costi occulti. Gli azionisti della cordata CAI non hanno nessuna esperienza nel settore del trasporto aereo (ad eccezione del proprietario di AirOne). Sono stati convinti a partecipare all’iniziativa per la pressante insistenza di Berlusconi. Si tratta di benefattori che hanno a cuore i supremi interessi del Paese? O hanno ricevuto garanzie precise dal Presidente del Consiglio che il rischio imprenditoriale sarà coperto da “ritorni” nelle altre attività da loro gestite?
“A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca”, diceva Andreotti. Vedremo nei prossimi anni se gli interessi di questi azionisti in settori su cui hanno incidenza le scelte pubbliche (infrastrutture, edilizia) saranno agevolati da tali scelte. Per ora notiamo che il socio di CAI Carlo Toto, proprietario di una AirOne oberata dai debiti, facendola entrare nella nuova compagnia si salva dall'evenienza di un fallimento, e intasca - come visto - bei soldi; e che l'advisor dell'operazione, la banca Intesa San Paolo, coinvolgendo Toto nella cordata ha anche azzerato i rischi di sofferenza verso AirOne, di cui era il principale creditore. 
Come si giustificano queste spese abnormi?

L’italianità: un nodo ancora da sciogliere
Berlusconi ha voluto affossare la proposta Air France, rinunciare all'ipotesi di asta competitiva e promuovere la cordata di imprenditori italiani in nome della “italianità” dell’azienda, della necessità di avere una “compagnia di bandiera”. Il gioco (l’italianità) vale la candela (l’enorme – seppur ultimo – esborso pubblico)?
La proprietà nazionale (non necessariamente pubblica) di beni e servizî di interesse strategico non è una sciocchezza. Lo abbiamo sottolineato a proposito delle banche (quando molti contestarono ferocemente – e strumentalmente – la politica di italianità seguita dall’ex governatore Fazio). E vale anche per il trasporto aereo.
Una compagnia straniera operante sul mercato italiano, al momento di creare le necessarie sinergie con aeroporti esteri, potrebbe avere la tendenza a privilegiare questi ultimi: ad esempio, anziché stabilire una rotta diretta Fiumicino–Los Angeles (o Malpensa–Los Angeles), potrebbe scegliere Parigi (Francoforte)–Los Angeles; gli utenti italiani che vogliono andare a Los Angeles, o gli americani che vogliono venire in Italia, dovrebbero passare per l’aeroporto hub di Parigi (Francoforte), collegato agli aeroporti italiani con voli di federaggio. I vantaggi turistici e commerciali per i Paesi dotati di hub sono evidenti.
Oggi, dunque, quelli che irridevano all'italianità delle banche si sono fatti paladini dell'italianità del trasporto aereo. (Un'eccezione, forse, viene dal ministro dell'Economia, Tremonti. Il quale, nella veste di maggior azionista delle compagnia, avrebbe dovuto essere in prima fila nella gestione della vicenda. E invece si è tenuto in disparte.)
Tutto bene, dunque? La spesa sostenuta dallo Stato può ritenersi compensata dalle ricadute economiche che verranno al sistema-Paese dalla presenza di una compagnia di bandiera? Lo sapremo tra cinque anni...
Infatti, per stare sul mercato globale servono compagnie in grado di fare rilevanti economie di scala. Compagnie di grosse dimensioni, o che abbiano accordi di sinergia con altre compagnie. La nuova Alitalia ha dunque la necessità di scegliere un forte partner straniero, che sicuramente entrerà nell’azionariato con una propria quota. Ora che le relazioni industriali sono mutate, e i sindacati interni hanno dovuto accettare di muoversi con una controparte privata, le compagnie estere sono tornate a dimostrare il loro interesse.
Il decreto governativo adottato per l’Alitalia ha posto agli azionisti italiani la condizione di non alienare la loro partecipazione per almeno cinque anni. Ma questa condizione è recepita solo nello statuto di CAI (che potrà essere cambiato al verificarsi di determinate condizioni, come la quotazione in borsa). Fra cinque anni, in ogni caso, potrebbe accadere che imprenditori che non hanno vocazione per questo tipo di attività industriale decidano di vendere la loro quota, realizzare l’eventuale plusvalenza, e lasciare campo libero ad una grande compagnia straniera. Ciò accadrebbe subito dopo le prossime elezioni politiche (il termine dei cinque anni non è casuale), così Berlusconi non potrebbe essere accusato in campagna elettorale di aver sponsorizzato un’italianità rivelatasi insostenibile...
(Nel 2009 abbiamo già assistito al rientro di Air France, con una partecipazione di minoranza - il 25% - che le è costata molto meno di quello che avrebbe speso - in proporzione - con l'offerta iniziale. Non è irrealistica la prospettiva di tornare infine al punto di partenza - il controllo pieno di Air France -, con la semplice differenza di un maggiore esborso dei contribuenti, e di un grande affare fatto da Air France e dagli imprenditori della cordata italiana che avranno ceduto la loro quota...)

Le altre questioni aperte
Abbiamo visto in precedenza il nodo della deroga alle regole della concorrenza sul mercato italiano.
Resta poi aperta la questione se l’hub italiano debba essere Fiumicino o Malpensa. La soluzione più ragionevole, lo abbiamo visto in precedenza, sembra quella di Fiumicino. Ma la Lega Nord (ed anche uno schieramento trasversale espresso dal Nord Italia) preme per Malpensa, e vorrebbe condizionare a questa opzione anche la scelta del partner straniero (si dice che Lufthansa sarebbe più funzionale a questo disegno, perché potrebbe dirottare su Malpensa alcuni dei voli intercontinentali attivi su Francoforte).
Chi non condivide queste pressioni denuncia che si comincia male: la politica esce dalla porta e rientra dalla finestra. C’è inoltre il timore che un interesse di parte, non supportato dal mercato, possa in futuro creare una nuova crisi ad una compagna salvata con tanto dispendio di denaro pubblico.
(L'ingresso di Air France fa parlare di una vittoria di Fiumicino. Ma la nuova Alitalia afferma di volre puntare anche su Malpensa, a condizione di un ridimensionamento di Linate. La vera battaglia, insomma, sembra vedere schierata Malpensa contro Linate e gli altri aeroporti del Nord).
Lascia molti dubbi anche la scelta, inserita nel nuovo piano industriale, di operare prevalentemente sul medio e corto raggio: proprio i settori dove la concorrenza delle compagnie low cost e della ferrovia ad alta velocità è più forte. Il che lascia presagire l’inevitabile destino di compagnia satellite del partner estero.
Infine, c’è da attendere il responso dell’Unione Europea. Le regole dell’Unione vietano gli aiuti di Stato, perché alterano la concorrenza, e quindi gli interessi dei consumatori e degli operatori che stanno sul mercato con le proprie forze (molte compagnie estere hanno già levato le loro lamentele). Diciamolo con franchezza: l’Italia queste regole le ha clamorosamente violate.
Ma probabilmente prevarrà la ragion politica, e sarà concessa una deroga, come in passato è stata concessa ad altri grandi Paesi che non hanno più scrupoli del nostro nel curare i proprî interessi.
Anzi, proprio la vicenda Alitalia spiega, secondo molti, la scelta effettuata dal governo Berlusconi per il nuovo Commissario europeo che doveva sostituire Frattini (diventato ministro): Tajani alla Direzione Generale dei Trasporti (mentre Frattini era Commissario alla Giustizia, Libertà, e Sicurezza).
(Alla fine la deroga è stata concessa, come volevasi dimostrare, purché vi fosse "discontinuità" tra la vecchia e la nuova compagnia!?)

Quali ricadute avrà la vicenda Alitalia sul sistema industriale italiano?
Colaninno ha trionfalisticamente affermato che il nuovo contratto tra compagnia e dipendenti può fare da apripista nelle relazioni industriali del nostro Paese (proprio in questo periodo sindacati e Confindustria stanno trattando sul rinnovo del modello contrattuale nazionale).
Il contratto Alitalia ha alcuni meriti importanti: legare la retribuzione alla produttività individuale; eliminare i privilegi di alcuni lavoratori (leggi piloti e assistenti di volo) rispetto ad altri della stessa società; eliminare il potere di gestione e di indirizzo che alcuni sindacati interni avevano ottenuto; far partecipare i lavoratori alla produttività collettiva, distribuendo ai dipendenti il 7% degli utili che dovessero maturare.
Si tratta di principî che meritano sicuramente di essere applicati a livello più generale, per rilanciare l’economia italiana.
Nella fase delle nuove assunzioni sono stati però segnalati numerosi abusi, come la penalizzazione delle donne in età di maternità, o del personale che gode di permessi per motivi di salute o l'assistenza a familiari invalidi.
E questi non non sono certo comportamenti che meritano di essere esportati...

P.S.: C.V.D. (come volevasi dimostrare): gennaio 2013, in prossimità della campagna elettorale per le politiche (quindi poco prima di quanto preventivato da Berlusconi) riesplode la crisi di Alitalia, bisognosa di un nuovo salvataggio...

lunedì 8 ottobre 2012

Confindustria, ecco i conti segreti. - Gaia Scacciavillani


I CONTI SEGRETI DI CONFINDUSTRIA

Ilfattoquotidiano.it è entrato in possesso del bilancio che il sindacato padronale tradizionalmente non pubblica. E ha scoperto che mancano all'appello l'8% delle quote associative, con un tasso di morosità dei soci cresciuto in un anno del 57%. Mentre le perdite di tre controllate su sei erodono il patrimonio.

Confindustria predica bene, ma razzola maluccio. Gli scarni dati sulla confederazione trapelati a fatica sulla stampa e il riservatissimo bilancio dell’associazione alla guida del mostro a 262 teste che costituisce l’intera struttura, che ilFattoquotidiano.it ha potuto visionare, parlano chiaro. E contraddicono in molti punti battaglie e affermazioni di ieri e di oggi della lobby degli imprenditori italiani. Che non a caso nell’ultimo anno ha perso parecchi pezzi, non solo la Fiat: il Lingotto voleva avere mano libera sui contratti dei metalmeccanici, ma ha parlato anche di eccessiva politicizzazione dell’associazione. Ci sono state anche le uscite delle Cartiere Paolo Pigna, dei Tessili di Prato, della Giordano Riello e di Nero Giardini, per citare solo alcuni esempi.
PIU’ TASSE E MENO AIUTI. “Stiamo morendo di tasse”, è stato il grido disperato lanciato sabato 29 settembre dal presidente Giorgio Squinzi che pochi giorni dopo è tornato alla carica sulla questione del carico fiscale sul lavoro. “L’obiettivo di ridurre il costo del lavoro è una delle cose in cui dobbiamo intervenire, anche per dare un segnale. E, visto anche il modesto ammontare degli incentivi, per le imprese non è un problema rinunciarci”, ha detto Mr Vinavil da Bruxelles il 2 ottobre.
Chissà se negli incentivi è implicitamente inclusa anche la quarantina di milioni annui che secondo L’Espresso arrivano complessivamente alla confederazione dalle aziende di Stato associate, che come tutti i soci (secondo i dati ufficiali 149.288 per un totale di 5.516.975 occupati) versano ogni anno al sistema Confindustria una quota contributiva parametrata sul numero e il salario dei dipendenti per potere, come gli altri, “appoggiarsi ad un organismo che rappresenta gli interessi del sistema produttivo locale nei confronti di istituzioni, forze politiche e sociali, enti economici ed organi di informazione”, come recita la reclame di una delle associazioni territoriali.
Prima fra tutte Eni, che sulla designazione di Squinzi alla guida degli industriali, per ammissione dello stesso amministratore delegato del gruppo petrolifero, Paolo Scaroni, ha avuto un ruolo “decisivo”. Ma anche l’Enel, le Poste, le FerrovieFinmeccanica e Terna tutte aziende densamente occupate che in pratica sborsano ogni anno svariati milioni per farsi rappresentare dall’associazione presso il loro azionista nelle sue svariate forme. Obiezione, potrebbe dire qualcuno, c’è anche la presenza all’estero! Peccato che lo Stato possieda una vasta gamma di enti che sostengono le imprese italiane oltreconfine a spese del contribuente: dall’Ice all’Enit passando per le sedi delle missioni all’estero delle Regioni fino alla rete delle Camere di Commercio che sono cofinanziate dal ministero dello Sviluppo economico. Ma tant’è. E forse non è un caso che nel 2011 ben 3,2 milioni di euro, l’8,2% dei 39,341 milioni di euro di contributi associativi che dalla periferia sarebbero dovuti arrivare nelle casse di Viale dell’Astronomia, non sono giunti a destinazione. Un costume che si va affermando sempre più negli anni: anche nel 2010 la quota destinata all’associazione centrale, che viene sottratta dai circa 500 milioni che vengono raccolti annualmente a livello territoriale, è arrivata a destinazione incompleta. Mancavano 2,066 milioni: nell’arco di un anno, quindi, il tasso di crescita della morosità dei soci è stato del 57,34 per cento.
I PAGAMENTI PUNTUALI. “Noi tutti abbiamo difficoltà, e in modo particolare chi è a contatto diretto con la pubblica amministrazione conosce sulla propria pelle una situazione indegna di un Paese civile in cui i ritardi dei pagamenti, nell’ordine dei 90 miliardi, non permettono una vita normale, un’azione equilibrata alle imprese”, ha tuonato Squinzi il 2 luglio scorso facendo sua una vecchia battaglia (sacrosanta, benché persa) del suo predecessore, Emma Marcegaglia. E ha aggiunto che “una pubblica amministrazione più efficiente è una pubblica amministrazione che paga i suoi debiti in tempi ragionevoli”.
Benché il tema sia calzante, bisognerebbe capire meglio cosa si intenda con tempi ragionevoli in Viale dell’Astronomia, dal momento che nel bilancio 2011 l’associazione ha iscritto debiti verso i fornitori per 1 milione di euro, mentre l’anno prima sotto la stessa voce c’erano 1,2 milioni. Sarà per questo che gli appelli al governo restano praticamente inascoltati?
LO SPREAD. “La fase più acuta della crisi sembra alle spalle: l’Italia non è al centro dei problemi del debito e la credibilità migliora come dimostra il calo dello spread, ma ancora non basta perché il livello resta comunque alto e sul lungo periodo non è sostenibile”, disse la Marcegaglia il 7 marzo scorso intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università Luiss Guido Carli. “Lo scenario è migliorato, ma ci sono ancora delle criticità”, concludeva.
Criticità anche qui condivisibili, ma di sicuro il miglioramento non era imputabile alla Confindustria, che tra gennaio e febbraio si è affrettata a ridurre drasticamente la sua esposizione sui titoli di Stato vendendo in anticipo 10 dei 18 milioni di euro di Btp che possedeva, la metà dei quali sarebbero scaduti naturalmente nove mesi dopo. Evidentemente in Confindustria ritenevano più sicuri dei titoli di Stato i bond del Monte dei Paschi di Siena, cioè la banca che sta facendo man bassa di aiuti pubblici e che, vista la drammatica situazione dei conti, avrà presto il Tesoro tra i suoi azionisti: l’investimento nelle obbligazioni di Rocca Salimbeni in scadenza a fine 2013 è di 9,9 milioni. Minore, sembrerebbe, la fiducia della Confindustria in Banca Intesa sui bond della quale ha puntato “solo” 3 milioni. Del resto la maggior parte degli investimenti dell’associazione sono fuori dal cosiddetto sistema: più della metà del totale, 27 milioni di euro, sono infatti stati usati per stipulare una polizza assicurativa con Chiara Vita, compagnia del gruppo svizzero Helvetia.
IL COSTO DELLE LOBBY. Del resto anche le lobby nel loro piccolo costano, ma sono in affanno. Sul fronte delle spese il 2011 registra 1,2 milioni per finanziare 12 mesi di stage presso “le diverse sedi del Sistema di rappresentanza” dei 100 giovani selezionati dal Progetto 100 giovani per 100 anni. Soldi che hanno prosciugato la Riserva Attività Istituzionali. Un milione e ottocentomila euro, poi, se ne sono andati in viaggi e trasferte. E un altro milione è stato utilizzato in attività di rappresentanza e missioni estere. Costi per la normale gestione dell’associazione che ha assistito nel 2011 ad un notevole ridimensionamento delle disponibilità bancarie (-11 milioni) a quota 4,6 milioni. Ma il peso maggiore, direbbe Squinzi, è quello del lavoro: gli stipendi del personale costano all’associazione 12,128 milioni al netto di oneri previdenziali e accantonamenti per il tfr, somma che per le 164 persone che lavorano in viale dell’Astronomia fa uno salario medio di 5700 euro. Ma non basta, ci sono anche i consulenti e i collaboratori, che l’anno scorso tra la crisi e la fine del mandato della Marcegaglia, sono costati 2,166 milioni.
E intanto il patrimonio dell’associazione si erode. Complici le perdite di tre controllate al 100% su sei, infatti, tra il 2010 e il 2011 il patrimonio della Confindustria è diminuito di 807mila euro. Peggio sarebbe andata, però, se la quota di controllo del Sole 24 Ore fosse stata valutata ai valori di Borsa. Il gruppo editoriale che pubblica il primo giornale di economia del Paese e non vede utili da diverso tempo (8,4 milioni il rosso 2011, perdita che è già stata replicata nella sola metà del 2012), è iscritto nel bilancio al valore di 1,47 euro per azione per un totale di 132 milioni di euro. Peccato però che in Borsa il titolo langua intorno ai 60 centesimi che, se utilizzati come valore di riferimento, toglierebbero alla partecipazione quasi 78 milioni di euro con ripercussioni dirette sul patrimonio dell’editore. Ma questo succede solo se si applicano i principi contabili internazionali che usano le società quotate in Borsa. Tuttavia, spiega il documento, sulla base dell’impairment test, un’analisi che verifica se le attività siano iscritte o meno ad un valore superiore rispetto a quello reale sia in termini di uso dell’asset che di eventuale cessione, Confindustria ha ritenuto di non dover procedere alla svalutazione. Intanto al Sole 24 Ore è attivo da mesi un contratto di solidarietà per tagliare il costo del lavoro dei 1874 dipendenti – che in parte è così passato a carico degli enti previdenziali – e le prospettive per il futuro del gruppo, che tra gennaio e giugno si è bruciato 10 milioni di patrimonio, non sono tra le più rosee.
Ma così Confindustria è riuscita ad archiviare il bilancio dello scorso anno con un risultato positivo della gestione operativa e finanziaria da 2,2 milioni di euro, che è stato prontamente utilizzato per rimpinguare gli accantonamenti al Fondo Rischi che serve “per consentire il proseguimento della ristrutturazione organizzativa” e la Riserva attività istituzionali che era stata prosciugata dal progetto 100 giovani per 100 anni. E il cerchio si chiude. Almeno finché le aziende di Stato continueranno a sborsare le quote e non decideranno magari che far lobby presso se stessi non è poi di così vitale importanza.